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lunedì 28 febbraio 2022

MERCOLEDI DELLE CENERI – 2 Marzo 2022

 




 

 

Gl 2,12-18; Sal 50; 2Cor 5,20-6,2; Mt 6,1-6.16-18

 

Il Mercoledì delle Ceneri è la porta della Quaresima, il periodo dell’anno liturgico che ha lo scopo di preparare la Pasqua. Il cammino quaresimale verso la Pasqua è un viaggio gioioso perché ci porta alla Vita. Questa gioia però scaturisce dai cuori purificati dalle opere del peccato che conducono, invece, alla morte. Il secondo prefazio di Quaresima definisce questo Tempo quale “tempo di rinnovamento spirituale”. Sulla stessa lunghezza d’onda, le due prime letture della messa d’oggi parlano della conversione. La calamità che ai tempi di Gioele (1,4) ha colpito la terra di Giuda diventa per il profeta un segno per invitare il popolo alla conversione: “Così dice il Signore: ritornate a me con tutto il cuore” (prima lettura). San Paolo ci ricorda che la conversione, nella prospettiva cristiana, non è il cammino che noi dobbiamo fare per andare a Dio, ma piuttosto il cammino di riscoperta di quanto Dio in Cristo Gesù ha fatto per noi: “lasciatevi riconciliare con Dio” (seconda lettura). La riconciliazione fra noi e Dio è possibile perché il Padre ha già rappacificato il mondo nella croce del Figlio. Da parte sua, il brano evangelico illustra il significato delle pratiche quaresimali tradizionali: elemosina, preghiera e digiuno, con un continuo richiamo a superare il formalismo. Gesù ne parla nel contesto del discorso sulla nuova giustizia, superiore all’antica; egli illustra le caratteristiche di questa nuova giustizia e le applica alle tre pratiche fondamentali della pietà giudaica: l’elemosina, la preghiera e il digiuno.  

 

Il rito penitenziale dell’imposizione delle ceneri si compie subito dopo la liturgia della Parola. Si tratta di un gesto, antico ma non antiquato, che intende esprimere lo stesso messaggio che illustrano le letture bibliche della messa. Nell’ultima riforma si è voluto conservare la formula classica dell’imposizione delle ceneri: “Ricordati, uomo, che polvere tu sei, e in polvere ritornerai”, ma se ne è aggiunta un’altra: “Convertitevi, e credete al Vangelo”. La prima si ispira a Gn 3,19; la seconda a Mc 1,15. Sono formule che si completano a vicenda: una ricorda la caduta umana, il cui simbolo sono la polvere e la cenere; l’altra indica l’atteggiamento interiore di conversione a Cristo e al suo Vangelo, proprio della Quaresima. Con il gesto della cenere iniziamo la Quaresima, ma finiremo con quello dell’acqua della Veglia pasquale. Cenere all’inizio; acqua battesimale alla fine. Ambedue i gesti esprimono un’unità dinamica. La cenere sporca; l’acqua pulisce. La cenere parla di distruzione e morte; l’acqua battesimale della Veglia pasquale è la fonte della Vita. Nella notte di Pasqua accendiamo il fuoco nuovo, simbolo di rinnovamento e di vita risorta: la cenere è, invece, fuoco spento, morto. La Quaresima comincia con la cenere e finisce con il fuoco nuovo e l’acqua battesimale.

 

La Quaresima che iniziamo oggi è un tempo di maturazione individuale e collettiva della fede. Fuori di una prospettiva di fede, essa corre il pericolo di svilirsi in un periodo di tempo in cui lo sforzo morale e le pratiche ascetiche rischiano di diventare fine a sé stesse e pertanto possono condizionare negativamente l’approfondimento di una autentica esperienza di vita cristiana. La Chiesa non insiste più, come ha fatto in tempi passati, nelle pratiche penitenziali in sé come gesti puntuali da compiere. Mutati i tempi, possono e debbono cambiare anche i modi concreti di esprimere l’ascesi; non può scomparire però il sincero slancio di conversione verso Dio. L’orazione colletta della messa parla della Quaresima come di “un cammino di vera conversione, per affrontare vittoriosamente con le armi della penitenza il combattimento contro lo spirito del male”. La partecipazione all’eucaristia ci è di sostegno in questo cammino (cf. orazione dopo la comunione)

domenica 27 febbraio 2022

SANTIFICA QUESTI DONI CON LA RUGIADA DEL TUO SPIRITO

 



Il nuovo testo riporta una traduzione letterale del latino – ros = rugiada – in quanto ha le sue radici nella Sacra Scrittura. Tralasciando i fenomeni geografici propri della mezzaluna fertile che hanno fatto della rugiada un grande alleato per le coltivazioni in terre aride, a livello scritturistico la tal/drosos è considerata un mistero legato alla fedeltà di Dio: “Chi genera le gocce della rugiada?”, chiede Dio rispondendo a Giobbe (38.28). La sua origine è considerata celeste (Gen 7,28; Dt 33,28; Ag 1,10; Zac 8,12), essa scende improvvisamente (2Sam 17,12) ma con dolcezza (Dt 32,2) si posa sulla terra e vi rimane la notte intera (Gb 29,19) e l’esposizione ad essa è causa di conforto (Ct 5,2; Dn 4,15.23.25.33). Essa è transitoria, evapora subito all’alba (Gb 7,9; Os 6,4); molto desiderata è quella attesa durante le calde estati dei tempi del raccolto.

Vi sono due questioni però da considerare: come si ricollega la rugiada con il mistero dell’Eucaristia? Il termine ros/rugiada esclude a priori quella di effusione oppure la comprende?

La rugiada era considerata dalle popolazioni del Medio Oriente una vera e propria benedizione, giacché consentiva la coltivazione in zone altrimenti aride durante tutto l’anno. Per questo motivo gli antichi non esageravano nel riconoscere alla rugiada un ruolo di grazia proveniente da Dio: essa permetteva di coltivare i terreni anche durante i periodi di siccità (Sir 18,16; 43,22), ma soprattutto rende fertili i terreni del Neghev permettendo un raccolto abbondante di uva; da qui nasce la preghiera di benedizione: “Dio ti conceda la rugiada del cielo, la fertilità della terra e abbondanza di frumento e vino” (Gen 27-28; cf. Dt 33,28). L’assenza della rugiada è una disgrazia da evitare (Ag 1,10; cf. Gb 29,19; Zac 8,21) perché significa siccità e assenza di raccolto (1Re 17,1; cf. 2Sam 1,21). Considerato il ruolo che la rugiada acquista nel garantire la vita nonostante la siccità, essa viene presto assunta a simbolo della risurrezione: “poiché la tua rugiada è rugiada di luce, e la terra ridarà alla vita le ombre” (Is 26,19). Nasce così la frase talmudica “la rugiada della risurrezione”.

In Sal 133,3 si dice che la rugiada scende sull’Ermon, monte santo, detto anche monte Sion (Dt 4,48). Oltre al fatto che era considerato un luogo sacro, ciò che lo caratterizza è la presenza di nevi perenni in netto contrasto con la siccità delle regioni circostanti; il disgelo dei ghiacciai dell’Ermon alimentano il fiume Giordano. La sua vicinanza a Cesarea di Filippo ha indotto alcuni a suggerire l’Ermon come il monte della Trasfigurazione (Mt 9,2 e parall).

Bastano queste poche indicazioni per rendersi conto di come il termine rugiada sia biblicamente legato alla realtà dell’Eucaristia, che è come rugiada che porta la vita laddove vi è siccità, e che è dono dell’amore di Dio, ossia dello Spirito Santo che ha operato la risurrezione di colui che realmente è contenuto in corpo, anima e divinità nel pane eucaristico. Ne consegue, inoltre, che il termine ben assorbe in sé anche il tema della effusione, indicando “con la rugiada del tuo Spirito” la missione stessa della terza persona trinitaria in seno alla celebrazione della cena del Signore.

 

Fonte: Emilio Bettini, Ars celebrandi. Introduzione alla terza edizione del Messale Romano, Palumbi, Teramo 2021, 50-52 (non sono state riprese le note)   

sabato 26 febbraio 2022

DOMENICA VIII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 27 Febbraio 2022

 


 

Sir 27,5-8; Sal 91; 1Cor 15,54-58; Lc 6,39-45

 

Le letture bibliche odierne sono un pressante invito a rientrare in se stessi per arricchire il cuore e trasformare la propria vita in un “albero che produca frutti buoni”. Il breve brano del libro del Siracide, proposto come prima lettura (Sir 27,4-7) mette in risalto l’importanza e la funzione della parola: essa prova quanto valga una persona e rivela i sentimenti più intimi del suo cuore. Soltanto chi ha un cuore ricco di Dio potrà dire parole di vero amore che infondano gioia e speranza.

 

Nel brano evangelico (Lc 6,39-45) Gesù con un linguaggio semplice e concreto, a portata di coloro che lo ascoltano, allarga il discorso e parla della vera ricchezza dell’uomo che, radicata nel suo cuore, e si manifesta nelle sue opere: “L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene”. Parole, intenzioni, programmi, non bastano. Si richiedono i frutti, che a loro volta rivelano la natura buona o cattiva dell’albero. Per l’uomo quello che conta è il cuore, il centro dei suoi pensieri e delle sue scelte, dove la libertà esprime se stessa: il cuore “è il luogo della decisione […] È il luogo della verità, là dove scegliamo la vita o la morte” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2563). Quando le parole e le opere non sono in sintonia, allora il nostro cuore è diviso. E’ l’ipocrisia di cui parla Gesù. L’epiteto “ipocrita” nella lingua classica greca designa l’attore che recita una parte mettendosi la maschera. Chi si comporta con la presunzione di condannare gli altri si rivela un ipocrita, che per dissimulare le proprie miserie si mostra zelante della perfezione altrui. Dio solo è il giudice perché soltanto lui conosce veramente le profondità del cuore umano. All’ipocrisia, alla doppiezza si oppone la sincerità del cuore.

 

In una società, come la nostra, fondata sulla comunicazione orale, le parole non mancano mai. Possiamo ben dire però che oggi troppe parole si vendono a buon mercato. E’ un chiasso assordante! Si ha poi la sensazione che le parole non hanno valore per quel che esprimono ma per come si dicono. Sembra addirittura che abbia ragione chi grida di più. La parola è svalutata perché non è in armonia col cuore e con la vita. La parola ritroverà tutto il suo valore a condizione che diventi espressiva di fatti, di autentici valori di vita, e ciò è possibile solo se le nostre parole vengono ricollegate alla Parola di verità che è Cristo. Si tratta di accogliere questa Parola nel cuore e attuarla nella vita. E’ un impegno quotidiano del discepolo di Gesù, una fatica che, come dice san Paolo nella seconda lettura (1Cor 15,54-58) non è vana, perché per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo Dio ci dà la vittoria.

martedì 22 febbraio 2022

UNO "STRANO" DECRETO

 


 

 

DECRETUM

 

Sanctus Pater Franciscus, omnibus et singulis sodalibus Instituti vitae consecratae “Fraternitas Sancti Petri” nuncupati, die 18 iulii 1988 erecti et a Sancta Sede pontificii iuris declarati, facultatem concedit celebrandi sacrificium Missae, sacramentorum necnon alios sacros ritus, sicut et persolvendi Officium divinum, iuxta editiones typicas librorum liturgicorum, scilicet Missalis, Ritualis, Pontificalis et Breviarii, anno 1962 vigentium.

 

Qua facultate uti poterunt in ecclesiis vel oratoriis propriis, alibi vero nonnisi de consensu Ordinarii loci, excepta Missae privatae celebratione.

 

Quibus rite servatis, Sanctus Pater etiam suadet ut sedulo cogitetur, quantum fieri potest, de statutis in litteris apostolicis motu proprio datis Traditionis Custodes.

 

Datum Romae, Sancti Petri, die XI mensis Februarii, in memoria Beatae Mariae Virginis de Lourdes, anno MMXXII, Pontificatus Nostri nono.

 

Franciscus

 

 

 

Secondo questo Decreto, gli Istituti come la Fraternità Sacerdotale San Pietro non sono tenuti all’osservanza delle disposizioni generali del Motu proprio Traditionis custodes, poiché l’uso dei libri antichi è all’origine della loro esistenza ed è previsto dalle loro Costituzioni.

 

Il Decreto è stato reso pubblico dalla suddetta Fraternità e si può leggere nel blog Messainlatino. Attendiamo che sia pubblicato ufficialmente negli Acta Apostolicae Sedis… Nel frattempo, noto che il testo è redatto alla terza persona, ma si conclude con la firma di papa Francesco! Forma parte del Decreto, e quindi della sua osservanza, l’esortazione che, nella misura del possibile, sia preso in adeguato conto quanto stabilito nel Motu proprio Traditionis custodes, cosa che sembra contradire quanto detto prima. Insomma, uno “strano” Decreto.     

domenica 20 febbraio 2022

INGINOCCHIARSI E PROSTRARSI

 



Alberto Fabio Ambrosio – Catherine Aubin, Inginocchiarsi (Riti del vivere), Cittadella, Assisi 2021. 112 pp. (€ 11,50).

Questo piccolo libro forma parte della collana “Riti del vivere”: i riti del vivere sono anche i riti del credere. In ogni movimento, gesto, parola c’è già un atto di fede. Offro una pagina del volumetto, che ha come titolo “Preghiera e consapevolezza di essere creature” (p. 94).

Il significato principale di questo gesto sta in un atteggiamento di preghiera. Ad esempio Mosè; “Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: ‘Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, mio Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità’” (Es 34,8). E ancora Daniele nella fossa dei leoni: “Tre volte al giorno si metteva in ginocchio a pregare e lodava il suo Dio, come era solito fare anche prima” (Dn 8,11).

Ma cosa ci dicono le nostre ginocchia della nostra relazione con Dio? La  parola “ginocchio”, in ebraico berek è formata dalla parola testa associata all’espressione in te. Nell’assonanza ebraica della parola ginocchio c’è baruk che vuol dire “il benedetto”. Ginocchio e benedizione in ebraico sono le stesse parole. Chi ha potuto godere del gesto affettuoso di essere accolto sulle ginocchia di qualcuno, ha ricevuto, quindi, una benedizione filiale. Possiamo anche dire che chi si inginocchia si prepara a ricevere la benedizione di Dio.

  

sabato 19 febbraio 2022

DOMENICA VII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 20 Febbraio 2022

 



 

1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23; Sal 102; 1Cor15,45-49; Lc 6,27-38

 

Le letture bibliche di questa domenica al tempo stesso che ci invitano a celebrare la misericordia di Dio, ci propongono di imitarla. Infatti, il vertice dell’insegnamento di Gesù nel vangelo d’oggi è costituito dall’invito a diventare “misericordiosi” come lo stesso Padre celeste è misericordioso. Attraverso questa imitazione di Dio noi ci trasformiamo in figli suoi.

 

La liturgia eucaristica inizia col canto d’ingresso il quale è una fiduciosa e gioiosa confessione di fede nella misericordia di Dio: “Io nella tua fedeltà ho confidato […] Canterò al Signore che mi ha beneficato” (canto d’ingresso - Sal 12,6). La prima lettura ci propone la grandezza di animo di Davide che, pur avendo occasione di eliminare il suo nemico, il re Saul, si mostra misericordioso con lui e lo risparmia perché, nonostante tutto, è “il consacrato del Signore”. Con questo gesto Davide, eminente figura messianica, annuncia il superamento della vendetta e apre la strada al perdono. Gesù nel brano evangelico odierno proclama il suo nuovo comandamento sull’amore che si estende anche ai nemici, che non solo bisogna amare, ma anche fargli del bene, benedirli e per i quali si deve pregare. L’insegnamento di Gesù è fondato su due principi: il primo, preso dalla saggezza degli antichi, dice “come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro”; il secondo è squisitamente teologico e dice “siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Il modello proposto è infinito, è l’amore stesso di Dio. In particolare, il perdono dei nemici è un gesto di bontà, di grandezza e di sapienza, perché è imitazione del modo di agire di Dio, che “è benevolo verso gli ingrati e i malvagi”. Alla fine del brano evangelico viene enunciato il criterio che regola il rapporto dell’agire dell’uomo e quello di Dio: “con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio”. Si fa esperienza dell’amore salvifico di Dio nella misura in cui si è generosi e misericordiosi con gli altri, anche se nemici.

 

Lungo l’anno liturgico ritorna più volte il tema dell’amore come centro della vita cristiana. C’è forse il rischio di assuefarsi al solito e vago discorso che ci richiama ad amarci gli uni gli altri. L’appello di Gesù è però estremamente concreto, realistico, al tempo stesso che esigente e radicale. L’amore cristiano deve essere vissuto in modo profondo e totalizzante, come comportamento interiore ed esteriore che abbraccia tutti, che non esclude nessuno. Se è rivoluzionario l’annuncio delle “beatitudini”, proclamate domenica scorsa, lo è forse anche di più l’annuncio di un amore che insegna ad amare l’altro solo perché è l’altro. Questo ideale sublime lo ha incarnato perfettamente Cristo, l’ultimo Adamo, la cui immagine sarà compiuta in noi con la nostra partecipazione piena alla risurrezione del Signore (cf. seconda lettura). Occorre passare dalla mensa della Parola alla mensa del corpo di Cristo: “nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri […] L’amore può essere ‘comandato’ perché prima è donato” (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 14).

 

domenica 13 febbraio 2022

LA SACRAMENTALITÀ DELLA PAROLA

 



Andrea Bozzolo – Marco Pavan, La sacramentalità della Parola (Giornale di Teologia 427), Queriniana, Brescia 2020. 328 pp. (€ 22,00).

 

Che rapporto esiste tra parola di Dio e liturgia? Se oggi si parla della “sacramentalità della Parola”, espressione comparsa in un recente testo del magistero (Verbum Domini), è grazie a un lungo ripensamento di quel rapporto.

 

Il presente volume, scritto a quattro mani da un biblista e da un teologo, intende mettere a fuoco il concetto attraverso un itinerario strutturato in quattro momenti. Il primo ricostruisce il percorso che ha condotto a formulare il tema e segue le tappe principali della sua acquisizione. Il secondo si interroga sulla possibilità di un discorso biblico sul carattere “sacramentale” della parola di Dio, alla luce di alcuni passi dell’Antico e del Nuovo Testamento. Il terzo momento esamina criticamente le proposte teoriche più rilevanti che nel corso del Novecento, hanno offerto una elaborazione coerente dell’argomento. La sezione conclusiva è infine dedicata a una ripresa delle questioni principali implicate nel tema.

 

Una sintesi biblica, sistematica e liturgica su un nodo-chiave della vita ecclesiale.

 

(Quarta di copertina)

 

venerdì 11 febbraio 2022

DOMENICA VI DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 13 Febbraio 2022

 



 

Ger 17,5-8; Sal 1; 1Cor 15,12.16-20; Lc 6,17.20-26

 

 

Nel breve brano di Geremia (prima lettura) ascoltiamo lo stesso messaggio del salmo responsoriale: “Benedetto l’uomo che confida nel Signore”. Anzi, il salmo responsoriale riprende le parole di Geremia e le sviluppa con nuove immagini. Che senso ha confidare nel Signore, porre la legge di Dio al centro della nostra vita? Che significa scegliere la via non di rado faticosa del bene? “Confidare nel Signore” significa porre il fondamento dell’edificio della propria esistenza in Dio. Il contrario equivale a costruire l’esistenza sulla fragilità ed i limiti delle proprie risorse. Due vie o due possibili scelte. Su questo dualismo legato alle decisioni umane, si articola anche la struttura delle beatitudini, che il vangelo d’oggi ci propone nell’originale versione di san Luca. 

 

Le beatitudini sono l’espressione più genuina del messaggio evangelico, e quindi possono essere considerate come una sintesi della fisionomia morale del discepolo di Gesù. Nel testo che ci offre Luca emerge con insistenza l’esaltazione della povertà che l’evangelista presenta come una chiara esigenza per colui che intende seguire Gesù. Infatti, la prima beatitudine, che definisce e specifica tutte le altre, inizia con queste parole: “Beati voi poveri…”, e in seguito: “Beati voi che ora avete fame…” Nella redazione di san Luca, alla serie delle quattro beatitudini segue poi quella delle quattro maledizioni o dei quattro “guai”: “Ma guai a voi, ricchi… Guai a voi, che ora siete sazi…”. La povertà esaltata dalle beatitudini, pur essendo una vera povertà, non è una misura mortificante di austerità, non è disprezzo dei beni di questo modo; viene piuttosto presentata come una situazione che diventa segno della disposizione totale del cuore di colui che intende seguire Gesù povero e stabilire con lui una vera comunione di vita. Il povero è beato, perché ha le mani e il cuore aperti all’attesa di Dio, che non delude. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci ricorda che “la vera felicità non si trova né nella ricchezza o nel benessere, né nella gloria umana o nel potere, né in alcuna attività umana, per quanto utile possa essere, come le scienze, le tecniche e le arti, né in alcuna creatura, ma in Dio solo, sorgente di ogni bene e di ogni amore” (n. 1723). Santa Teresa di Gesù lo dice sinteticamente: “a chi possiede Dio non manca nulla: Dio solo basta”.

 

Si potrebbe riassumere il messaggio della parola di Dio in questa domenica con le parole dell’antifona d’ingresso, tratte dal Sal 30: Dio è “mio baluardo e mio rifugio”, o anche col ritornello del salmo responsoriale: “Beato l’uomo che confida nel Signore”; chi confida in Lui, non resterà mai deluso. Ci viene proposta una scelta di campo, un’opzione che in definitiva è tra l’autosufficienza e la totale fiducia nel Signore. Nel brano proposto come seconda lettura, san Paolo ribadisce indirettamente questa stessa dottrina quando afferma che per la potenza di Dio Cristo è risorto e quindi anche per noi si dischiude la speranza della risurrezione: “Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”. Si tratta sempre di riporre ogni nostra speranza nel Signore.

 

 

 

domenica 6 febbraio 2022

Salmo 23 (22) Il buon Pastore

 




 

1 Salmo. Di Davide.
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.

2 Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.

3
Rinfranca l’anima mia,
mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
4 Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.
5 Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

6 Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.

 

La Liturgia delle Ore adopera il Sal 23 (22), col titolo “Il buon Pastore”, nell’Ora media della Domenica della seconda settimana e nell’Ora media della Domenica della quarta settimana. Come sottotitolo si cita Ap 7,17: “L’Agnello sarà il loro pastore, e li guiderà alle fonti delle acque della vita”.

 

Il Sal 23 è stato probabilmente composto in epoca postesilica (forse nell’ambiente della spiritualità dei “poveri di JHWH”). Esso esprime, mediante il ricorso a due metafore, quella del pastore e quella dell’ospite, la relazione di fiducia che l’orante nutre nei confronti del suo Signore. Il titolo del salmo lo associa a Davide che da giovane era stato un pastore (1Sam 16,11) e fu poi chiamato a fare da pastore al popolo d’Israele quale loro re (2Sam 5,2).

 

Quanto alla struttura del salmo, sono chiare le due parti maggiori: il Signore pastore (vv. 1-4); il Signore ospite (vv. 5-6). Il salmo è semplice nella costruzione e nello sviluppo; la sua ricchezza ha le radici nel ricco repertorio di simboli elementari che racchiude. Alla vita pastorizia si richiamano i termini: pastore, pascoli, acque, bastone, vincastro, cammino, e i verbi come: far riposare, condurre, rinfrancare, guidare, camminare. All’immagine dell’ospitalità, si richiamano la mensa, il rito dell’unzione dell’olio per gli ospiti e il calice.

 

La metafora di apertura del salmo descrive Dio come pastore e il salmista come una delle sue pecore. Il tema del pastore è costante nella Bibbia. L’immagine del pastore riferita ai re e alle divinità era comune in tutto il Vicino Oriente antico. L’ospitalità era praticata dai nomadi, i quali hanno frequentemente bisogno gli uni degli altri. Nella terra promessa Israele è ospite di Dio (Lv 25,23), perciò esso pure deve dare ospitalità ai forestieri (Lv 19,34). Secondo il Sal 119,19, l’uomo sulla terra è solo un ospite.

 

Nei vv. 2-4 è tratteggiato l’elogio del Signore come pastore. Il salmista esplicita con esempi la sua professione di fede. Descrive i compiti del premuroso pastore. Si parla infatti di pascoli erbosi, acque tranquille, di riposo, di cammino sicuro sotto la sua guida vigile (vv. 2-3). Inoltre, tutto ciò è fatto per e con amore. Infatti, il Signore sceglie il “giusto cammino” (v. 3) cioè le piste più opportune e libere da pericoli per la transumanza del suo gregge. E questo lo fa “a motivo del suo nome”. L’espressione indica la gratuità della salvezza che ritorna a gloria di Dio.

 

Con le parole “Anche se vado per una valle oscura […] tu sei con me” (v. 4a), l’orante passa dalla terza persona singolare alla seconda, al “tu” confidenziale con cui interpella Dio ed esprime una fiducia piena nella sua protezione. L’espressione “il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza” (v. 4b) contiene due termini pressoché sinonimi. La voce “bastone”, che designa anche lo scettro regale (Sal 2,9) doveva indicare un’asta corta e nodosa come arma di difesa contro possibili bestie feroci. Il termine “vincastro” invece allude al bastone lungo e ricurvo di viaggio, segno di guida che consentiva anche di radunare il gregge in caso di dispersione.

 

I vv. 5-6, introducono una nuova metafora: Dio è l’ospite di un banchetto cui il salmista è un invitato d’onore. Si passa quindi dall’immagine della pastorizia a quella dell’ospitalità. Dio prepara una mensa per il suo ospite e unge di olio profumato il suo capo, gesto facente parte del rituale dell’ospitalità (cf. Am 6,6; Lc 7,46). L’espressione “sotto gli occhi dei miei nemici” (v. 5) esprime la propria fiducia in Dio non durante un momento di tranquillità, bensì mentre il salmista si trova messo sotto pressione da parte dei suoi nemici. “Il mio calice trabocca” (v. 5) indica la pienezza e l’abbondanza (Sal 36,9). Il pasto dell’ospitalità evoca il sacrificio di comunione nel Tempio che comprendeva un banchetto sacro con le carni della vittima immolata; simbolo di comunione e di intimità tra Dio e l’uomo.

 

Il salmo termina col v. 6 alludendo a un movimento processionale per entrare nel tempio, e abitare “per lunghi giorni” nei suoi atri. Il tempio era il luogo dove Dio faceva conoscere la sua presenza in mezzo al suo popolo. Il salmista proclama dunque che vivrà alla luce della presenza di Dio. La processione è accompagnata da “bontà e fedeltà”, personificazione degli attributi divini, legati al patto, che accompagnano il fedele nel santuario.

 

La figura di Dio come pastore e ospite si rispecchia e si attualizza nel Nuovo Testamento. In Gv 10,1-21, Gesù si presenta come l’unico vero pastore predetto dai profeti. Nei vv. 11 e 14, con una formula, ribadita due volte, si proclama “buon pastore”, “che “dà la propria vita per le pecore” (v. 11), e che conosce le sue pecore ed esse conoscono lui (cf. v. 14). Pietro, riferendosi ai cristiani, dice: “Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (1Pt 2,25). Nel discorso sulla fiducia nella provvidenza divina, Gesù conclude con queste parole: “Non temere, piccole gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32).

 

Il Sal 23 è stato frequentemente commentato dai Padri della Chiesa, che l’anno interpretato in senso sacramentale, come profezia dei misteri di Cristo celebrati nella liturgia del battesimo, della cresima e dell’eucaristia, sacramenti dell’iniziazione cristiana. Il salmo era anticamente cantato nella notte di Pasqua, quando i neobattezzati, risalendo dalla vasca battesimale (“acque tranquille”, v. 2) si recavano verso il luogo della confermazione, dove si ungeva di profumo la loro testa, prima di partecipare per prima volta alla comunione eucaristica, la mensa preparata per loro (v. 5). Agostino afferma che i catecumeni che vogliono ricevere il battesimo devono imparare questo salmo a memoria (Discorsi 366,1). Gesù è l’ospite generoso che ci accoglie e ci mette in salvo dai nemici preparandoci la mensa del suo corpo e del suo sangue e quella definitiva del banchetto messianico in cielo: “Allora l’angelo mi disse: ‘Scrivi: Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello!’” (Ap 19,9; cf. Lc 14,15ss; Ap 3,20).

 

Con gli stessi motivi di fiducia manifestati in questo salmo, la Chiesa accompagna i fedeli defunti nel passaggio alla vita eterna attraverso la valle oscura e insidiosa della morte, verso i pascoli del riposo e le acque tranquille della vita eterna, dove le parole profetiche del salmo hanno il loro altissimo compimento. Nell’Apocalisse si legge che gli eletti “non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita” (Ap 7,16-17), testo quest’ultimo citato dalla Liturgia delle Ore nel sottotitolo del salmo.

 

Il Signore è per ognuno di noi Pastore e Ospite divino; egli ci conosce per nome e ci accompagna nelle avversità della vita e nelle prove dello spirito e ci conduce ai pascoli della vita eterna. Il grande filoso francese Henri-Louis Bergson, la cui opera ebbe una forte influenza anche nel campo della teologia, affermava: “Le centinaia di libri che ho letto non mi hanno procurato tanta luce e tanto conforto quanto questi versi del Sal 23”. Il P. Claret cita questo salmo all’inizio degli Esercizi spirituali che il 16 luglio 1949 ha iniziato con i cofondatori della Congregazione di Missionari; egli cita in concreto il v. 4: “Virga tua et baculus tuus ipsa me consolata sunt” (“Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza”). Il Santo interpreta il salmo a modo suo, “alludendo alla devozione e fiducia che dobbiamo professare alla santa Croce e a Maria Santissima (memorie celebrate il 16 luglio), applicando poi tutto il salmo al nostro disegno” (sono parole sue riportate nell’Autobiografia, n. 490).

 

 

Preghiera: O Dio, pastore d’Israele, che hai ricondotto il tuo Figlio nei sentieri della vita, facci sempre sentire la tua amorosa presenza, affinché non ci manchi il pascolo erboso, ci sia assicurata l’acqua tranquilla, e possiamo abitare felici nella tua casa. 

 

Bibliografia: Spirito Rinaudo, I salmi preghiera di Cristo e della Chiesa, Elle Di Ci, Torino-Leumann 1973; Vincenzo Scippa, Salmi, volume 1. Introduzione e commento, Messaggero, Padova 2002; Ludwig Monti, I salmi: preghiera e vita, Qiqajon, Comunità di Bose 2018; Temper Longman III, I salmi. Introduzione e commento, Edizioni GBU, Chieti 2018.

 

venerdì 4 febbraio 2022

DOMENICA V DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 6 Febbraio 2022

 



 

Is 6,1-2a.3-8; Sal 137; 1Cor 15,1-11; Lc 5,1-11

 

 

Le letture bibliche di questa domenica ci ricordano che la nostra vita acquista senso e indirizzo quando facciamo una personale esperienza di Dio. Ogni vero incontro con Dio non lascia mai l’uomo come prima, ma lo cambia, lo rende cosciente della propria missione e delle proprie responsabilità. E’ quello che succede a Isaia nella grandiosa visione ambientata nel tempio di Gerusalemme, di cui ci parla la prima lettura, ed è quello che succede a Pietro e ai suoi compagni Giacomo e Giovanni allorché incontrano Gesù presso il lago di Genesaret (cf. il vangelo): mentre da una parte provano sgomento, perché, come Isaia, davanti alla santità di Dio, scoprono il proprio peccato, dall’altra sono affascinati da questo incontro e trovano il senso della loro vita, scoprono la loro missione. Come afferma san Paolo nella seconda lettura, essa consisterà nell’annunciare l’opera di salvezza del Signore. Non c’è missione senza un’esperienza di Dio.

 

La missione d’Isaia, quella di Pietro, di Giacomo e Giovanni, e quella di Paolo nascono da una profonda e personale esperienza di Dio. Colto di stupore per la pesca straordinaria Pietro reagisce come Isaia che vede la gloria del Signore nel tempio di Gerusalemme. Le loro vite da ora in poi saranno profondamente trasformate da questa esperienza. Fare esperienza della vicinanza di Dio è possibile a tutti noi. Se guardiamo con fede il mondo e gli eventi della storia, vi possiamo trovare sempre la trasparenza diafana della rivelazione del Signore. Ma Dio ci si rivela soprattutto attraverso la sua Parola che è il Figlio suo incarnato. Il brano evangelico odierno inizia affermando che la folla faceva ressa intorno a Gesù “per ascoltare la parola di Dio”. E’ questa stessa parola che ascoltata da Pietro, Giovanni e Giacomo, li trasforma in discepoli di Gesù e continuatori della sua opera. Essi, dice il vangelo, “tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. E’ l’inizio di una vita nuova che rompe con il passato per proiettarsi verso un futuro affascinante e fecondo. 

 

Il canto al vangelo, tratto da Gv 15,16, ci ricorda che tutti noi siamo stati scelti perché portiamo frutti duraturi di salvezza. La Chiesa ha sempre sentito l’esistenza cristiana come una chiamata, una vocazione: san Paolo afferma un parallelismo reale tra lui che è “apostolo per chiamata” (Rm 1,1) e i cristiani di Roma che sono “santi per chiamata” (Rm 1,7) o quelli di Corinto che sono stati “santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata” (1Cor 1,2). Ogni chiamata è fondata sul fascino e sulla potenza della parola di Dio sperimentata. Ognuno di noi è chiamato personalmente a “lasciare…” per poter “seguire” Gesù ed essere, come dice san Paolo di sé stesso, testimone della risurrezione di Cristo. Oggi l’umanità crederà alla risurrezione di Cristo non per i testimoni di ieri ma per quelli di oggi, che siamo tutti noi, solo però se imiteremo quelli di ieri con fedeltà e generosità. Cristo non ha altro corpo visibile che quello dei cristiani, non ha altro amore da mostrare che il nostro. Nel concreto riconoscimento del bisogno dell’altro, nella condivisione delle debolezze di ciascuno, nell’accettare di venirsi in aiuto reciprocamente, la comunità cristiana si mostra come luogo fraterno in cui ci si ama e si è amati.