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venerdì 30 maggio 2025

ASCENSIONE DEL SIGNORE (C) – 1 Giugno 2025 Messa del giorno

 



 

 

At 1,1-11; Sal 46; Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53

  

Il racconto dell’evento dell’Ascensione del Signore è affidato alla prima lettura, costituita dai versetti iniziali degli Atti degli Apostoli. L’Ascensione è presentata da san Luca come un distacco, una separazione di Gesù dai suoi. Ma si tratta di un distacco che prelude a una forma di presenza diversa, nuova di Gesù presso i suoi. D’altra parte, la preoccupazione maggiore dei brani della Scrittura che vengono proposti oggi alla nostra attenzione è di dare indicazioni sul senso del tempo che noi stiamo vivendo dopo l’evento dell’Ascensione del Signore e in attesa di ricongiungerci con lui alla destra del Padre: “viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro Capo, nella gloria” (orazione colletta).

 

Il brano della lettera agli Ebrei della seconda lettura parla della speranza che l’Ascensione di Cristo ha inaugurato per tutti noi. Cristo è entrato nel cielo, “per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore”. La solennità dell’Ascensione è certamente un invito a guardare in alto e lontano, oltre le lotte e i limiti del tempo presente, ma non certo per restare inoperosi nella contemplazione di quel mondo che è oltre il tempo e lo spazio. Il “cielo” è una nostalgia giusta, una promessa sicura, perché Cristo lo ha reso accessibile, ma non per questo deve far dimenticare il cammino che dobbiamo percorrere perché diventi una concreta realtà per tutti noi. Il cielo diventerebbe alienazione e inganno se ci distogliesse dalle sue premesse nella storia, dai nostri compiti attuali. Il messaggio cristiano non è da intendersi come evasione religiosa, disimpegno del quotidiano, fuga dalla realtà. Il messaggio cristiano è un lievito che deve trasformare la realtà quotidiana indirizzandola verso il traguardo di Dio. Un impegno nel quotidiano quindi, che va vissuto nella speranza del traguardo definitivo: “Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza”. Gesù congedandosi dei discepoli, li promette il dono dello Spirito e li invia ad annunciare la buona novella a tutte le genti. Non è indifferente che il breve brano del vangelo d’oggi sottolinei che dopo l’Ascensione del Signore, i discepoli “tornarono a Gerusalemme con grande gioia”. È il ritorno al quotidiano sorretti dalla speranza, che trova il suo fondamento nella natura umana di Cristo che è stata glorificata.

 

In sintesi, possiamo dire che il mistero dell’Ascensione consiste nell’indicare il recupero da parte di Gesù della sua dimensione divina che gli è propria. Ma consiste altresì nel rivelare l’azione che, adesso, Gesù al cospetto di Dio suo Padre svolge in nostro favore mediante lo Spirito Santo che ci ha donato. Il Signore Gesù continua quindi ad essere misteriosamente presente in mezzo a noi mediante il suo Spirito che ci è di guida nel cammino che conduce al traguardo. L’Ascensione più che un invito a evadere dalla terra è un invito ad assumerla come luogo di salvezza, dove già risplende, sia pure parzialmente, la luce dei “cieli nuovi” e della “terra nuova”. Ancorata al presente e al suo impegno nel mondo, la Chiesa non deve svanire verso illusioni, verso spiritualismi senza corpo. I segni di questa visione di speranza e di realismo devono manifestarsi attraverso una testimonianza cristiana coerente.

 

domenica 25 maggio 2025

SUL CASO AMERICANO

 



                                                                                     

Afferma Stephen Kevin Bannon, dirigente d’azienda statunitense, ex banchiere d'investimenti ed ex direttore responsabile del giornale on-line di estrema destra Breitbart News: “In America il cattolicesimo tradizionalista è in ascesa, particolarmente tra i giovani maschi, ma la leadership della Chiesa cattolica si sta spostando a sinistra mentre quella USA va a destra. Stiamo andando verso lo Scisma. C’è gente che vuole riportare la Messa in Latino e ribaltare il Concilio Vaticano II e che non mollerà”.

… Ogni tanto a Roma c’è stato qualche intervento deciso, come nel 2023: Francesco solleva il vescovo di Tyler, Joseph Edward Strickland, dal governo pastorale della diocesi. I motivi li dichiara lo stesso vescovo al sito conservatore LifeSiteNews: la mancata applicazione del motu proprio Traditionis custodes, che ha apportato restrizioni alla celebrazione secondo il messale del 1962 di papa Giovanni XXIII. Tuttavia, il vescovo texano ribadisce di non essersi pentito della propria scelta, poiché ritiene suo dovere quello di non disperdere i fedeli devoti alla messa tridentina. Ma la cosa che ha fatto saltare sulla sedia parecchie persone è che nel marzo 2025, quando Francesco era ricoverato al Gemelli, lo Strickland ha celebrato una messa nientemeno che nella residenza trumpiana di Mara-Lago in Florida (il presidente non c’era) accolto da un centinaio di fedeli. Un segnale? Certamente non un caso. Ma allora – è stato chiesto da un giornalista a Leone il giorno dell’incontro con la stampa – quando andrà negli Stati Uniti? “Non presto…”

 

Fonte: cfr. Carlo Marroni, Papa Leone XIV. Vita storia e segreti, Newton Compton Editori 2025, pp. 151 e 158-159.

 

venerdì 23 maggio 2025

DOMENICA VI DI PASQUA (C) – 25 Maggio 2025

 



 

 

At 15,1-2.22-29; Sal 66 (67); Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29

 

 

La prima lettura descrive un momento importante della vita della prima comunità cristiana. I dissensi sorti tra gli apostoli sul modo di procedere con i convertiti dal paganesimo si acuiscono a tal punto che devono essere risolti in un’assemblea che di fatto è stato il primo concilio ecumenico della Chiesa. Radunati a Gerusalemme, gli apostoli trovano un accordo su che cosa si debba imporre ai neoconvertiti dal paganesimo. A noi interessa non tanto la problematica specifica che era in discussione in quel dato momento quanto ciò che il fatto significa. Si tratta della Chiesa terrena che, nata da poco, si confronta con le diverse opinioni sorte nel suo interno, discute i suoi problemi, si dà delle norme e in questo modo si consolida nelle sue strutture. Accanto a questo quadro, la seconda lettura presenta uno squarcio profetico-simbolico della città futura, la Gerusalemme celeste, immagine della Chiesa celeste in cui non ci sono più divisioni e non c’è più bisogno di strutture e di mediazioni, neppure di quelle sacre come il tempio e la fede, “perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello”.

 

Le due città sono assai diverse. Nella città terrena ci sono i contrasti, le divisioni, il bisogno di confrontarsi e di costruire il consenso talvolta con fatica. La città celeste è invece tutta compatta, unita. Ecco perché la città terrena con le sue strutture, i suoi monumenti e i suoi templi è destinata a perire. Tuttavia, come abbiamo visto la domenica scorsa, la città celeste pur essendo eterna affonda le sue radici nella fragilità della città terrena. Tra le due città c’è corrispondenza e coerenza. Ce lo ricorda il brano evangelico. Mentre sta per lasciare i discepoli, Gesù promette di inviare ad essi lo Spirito Santo: “… egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”. Compito dello Spirito è dunque “insegnare e ricordare” tutto ciò che il Cristo ha detto: non un ricordo ripetitivo, ma un ricordo di approfondimento, creatore di nuovi sviluppi e di rinnovate applicazioni nella fedeltà all’unica esperienza salvifica realizzatasi in Cristo. È quindi lo Spirito che ci guida verso la città celeste, è lui a garantire il cammino nella storia della comunità terrena dei discepoli di Gesù. Vediamo infatti che gli apostoli radunati a Gerusalemme in assemblea hanno la consapevolezza di prendere le loro decisioni guidati dallo Spirito: “È parso benne allo Spirito Santo e a noi…” Grazie allo Spirito, le diverse componenti del cristianesimo primitivo riunite a Gerusalemme risolvono uno spinoso problema che stava producendo tensioni e divisioni.  

 

Vicini alla Pentecoste, siamo invitati a riflettere sulla presenza dello Spirito Santo nella vita della Chiesa. È lo Spirito che dà slancio alla Chiesa terrena e la indirizza verso i valori definitivi della città celeste. Dimentichi dell’azione dello Spirito, siamo talvolta tentati di banalizzare la vita cristiana riducendola a formule e leggi. La liturgia d’oggi ci ricorda invece che Dio si comunica al mondo solo nell’amore e nell’adempimento della parola di Gesù (cf. canto al vangelo e antif. alla comunione), interpretata però con la luce dello Spirito Santo. Ecco, quindi, che la città di Dio si realizza nel presente mediante la realtà dell’amore cristiano e per opera dello Spirito Santo. Senza l’azione interiore e nascosta dello Spirito, la Chiesa rischia di essere un raduno di militanti, più che comunione di discepoli.

 

 

domenica 18 maggio 2025

PREGHIERA DEL NON CREDENTE

 



Vittorino Andreoli, Preghiera del non credente, TS Edizioni, Milano 2025. 127 pp. (€ 12,90).

È bellissimo cercare Dio, anche se non lo si trova e persino se non esistesse. Cercando una realtà necessaria, la si pensa, la si immagina e così la si vive. La ricerca diventa attesa, una condizione straordinaria della mente che dà corpo a ciò che ancora non c’è. Si aspetta e questo atteggiamento crea persino il proprio creatore. Si cerca il necessario ed è come se le tracce fossero dentro di noi.

È bellissimo pensare di poter avere una esperienza diretta di Dio. Io lo cerco da tempo ma non è ancora tempo; io so che a lui piace incontrare, relazionarsi direttamente con le sue creature. La maniera migliore per occupare l’attesa è la preghiera. La preghiera del non credente. Esprime il bisogno del divino che c’è dentro l’umano.

(Introibo, p.5)


Un libro che va letto (e meditato)

 

venerdì 16 maggio 2025

DOMENICA V DI PASQUA (C) – 18 Maggio 2025

 



 

At 14,21b-27; Sal 144 (145); Ap 21,1-5a; Gv 13,31-33a.34-35

 

 

Il Tempo di Pasqua è un tempo di rinascita della vita. Perciò si addice a questo periodo dell’anno la riflessione sulla novità cristiana. Questo potrebbe essere l’argomento unificatore delle tre letture bibliche proclamate oggi. La prima lettura parla delle nuove comunità di cristiani, le prime che sotto l’azione dello Spirito e per mezzo della predicazione di san Paolo e san Barnaba sorgono al di fuori del mondo strettamente ebraico. Il brano evangelico ricorda che queste e le altre comunità cristiane sono chiamate ad esprimere il comandamento nuovo dell’amore vicendevole. La seconda lettura ci rivela una umanità trasfigurata, la comunità futura, in cui la novità cristiana sarà pienamente realizzata, una comunità in cui “non vi sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno”. Bandito tutto ciò che di negativo avvilisce la vita umana, si apre il rinnovamento messianico in una comunione faccia a faccia con Dio, in una pienezza di vita individuale e comunitaria. La comunità presente e quella futura sono, però, raccordate da un dato comune, l’amore, di cui ci parla Gesù nel brano evangelico. Si diventa cittadini della città futura in forza dell’amore. È per questo che la Gerusalemme celeste ci viene presentata anche sotto il simbolo della “sposa”.  

 

Il vangelo ci propone la prima parte dei “discorsi di addio” di Gesù, in cui egli, come un padre che sta per lasciare i suoi figli, trasmette ai discepoli la sua eredità: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi…”. La vera novità di questo comandamento non è nell’ “amatevi”, ma nel “come io ho amato voi”. L’amore di Gesù per noi è motivo e misura del nostro amore per i fratelli e sorelle. La realizzazione concreta del precetto dell’amore è la comunione, la comunità. Solo allora le parole di Gesù “amatevi gli uni gli altri” cessano di essere una espressione astratta. Possiamo affermare che la qualità del nostro amore è da ricercare nella capacità che noi abbiamo di condividere la nostra vita con quella dei nostri fratelli e sorelle, nella capacità cioè di creare comunione. L’amore di carità però non ha confini e va vissuto con i vicini e i lontani.

 

In ogni caso, però, bisognerà aver presente che la comunità cristiana continua a vivere nella storia e della storia continua a soffrire tutti i limiti e le ambiguità. Il nostro amore su questa terra resterà sempre peccatore, le nostre comunità imperfette. L’amore in questo mondo ha una sua fragilità e un suo limite intrinseci. È necessaria quindi la costanza nel percorrere gli ideali sublimi che ci vengono proposti dalle parole di Gesù. Ma è necessaria anche la speranza affinché non si spenga nel nostro cuore il desiderio di un amore vero, pieno e generoso. Solo così avremo un forte incentivo per crescere giorno dopo giorno nel dono di noi stessi agli altri. La dimensione più evidente dell’eucaristia è quella del convito, aspetto che esprime bene il rapporto di comunione che Dio vuole stabilire con noi e che noi stessi dobbiamo sviluppare vicendevolmente.

domenica 11 maggio 2025

IL MAGNIFICAT

 



Secondo il grande studioso del Magnificat Alberto Valentini, Lc 1,46-55 è una composizione poetica di ringraziamento prelucana, o almeno non lucana, inserita dall'evangelista nel suo racconto. Considerando la particolare struttura del testo, il linguaggio e i temi sviluppati, si pensa che possa trattarsi di una composizione sorta in ambito liturgico, in una comunità ebraico-palestinese delle origini[1].

Già nell'Antica Alleanza, la festa, il ringraziamento e la gioia sono la risposta di tutto il popolo, o di alcuni dei suoi membri, quando Dio interviene in suo aiuto. Tra i canti comunitari ricordiamo quello di Mosè e dei figli d'Israele al passaggio del Mar Rosso (cfr Es 15,1-18) e quello di Maria, sorella di Mosè, con tutte le donne che uscirono dietro di lei con i tamburelli per ballare nella stessa occasione (cfr Es 15,21-22). Tra i singoli cantici, possiamo ricordare anzitutto il cantico di Anna, madre di Samuele (cfr 1 Sam 2,1-10), di cui è evidente la somiglianza con il Magnificat, o anche il cantico di Debora e Barak (Gdc 5,1-31). D'altra parte, la preghiera dei Salmi, che serviva in gran parte al culto liturgico, educava il popolo eletto e ciascuno dei suoi membri a magnificare e rendere grazie a Dio per le meraviglie compiute in loro favore, a cominciare dalla creazione stessa. Lo testimonia il gruppo dei salmi classificati come inni o canti di ringraziamento, individuali (cfr Sal 4,18; 30,32; 34; 40,2-11; 66,92; 116; 118) o collettivi (cfr Sal 124; 129; 135; 136). Il Magnificat è un mosaico di testi tratti dall'Antico Testamento. Nessun verso è originale, ma il risultato lo è. Le pietre sono vecchie, ma la costruzione è nuova. Si tratta di una vera e propria rilettura dell'Antico Testamento.

Nella struttura del testo, il cantico del Magnificat è la risposta di Maria alla lode di Elisabetta: “Beata colei che ha creduto, perché si adempirà ciò che il Signore ha detto” (v. 45). Maria non nega la lode di Elisabetta, ma la mette nella giusta prospettiva: ciò che sta accadendo è un puro dono della bontà di Dio. Il Magnificat non si rivolge direttamente a Dio con il "tu", ma celebra in modo lirico l'irruzione di Dio nella storia. È impressionante osservare che undici dei quindici verbi che risuonano nel cantico hanno Dio come soggetto. Il cantico si apre con due versetti (vv. 46b-47) in stretto parallelismo che costituiscono l'introduzione all'intero testo. L'anima del Magnificat è la celebrazione della grazia divina, che ha fatto irruzione nel cuore e nell'esistenza di Maria, rendendola la Madre del Signore. Ma questa testimonianza personale non è solitaria. La Vergine Madre è consapevole di avere una missione da svolgere a favore dell'umanità e che la sua storia personale si inserisce nella storia della salvezza dell'umanità. Così può dire: “La sua misericordia va incontro ai suoi fedeli di generazione in generazione” (v. 50).[2]

Il Dio che si rivela nel Magnificat è il Dio degli umili, dei poveri, degli affamati. Nell'esperienza dell'umiltà e dell'esaltazione di Maria c'è la speranza di tutti gli oppressi: l'Onnipotente esalta gli umili, riempie di beni gli affamati (cfr vv. 52 e 53). In queste e in altre azioni divine citate nel Magnificat, è evidente lo "stile" con cui il Signore della storia ispira il suo comportamento: si schiera dalla parte degli ultimi. Maria diventa non solo solidale con tutti loro, ma anche motivo di speranza nella misura in cui l'immensa bontà di Dio si è già manifestata in lei.

Al termine del Magnificat (vv. 54-55), la Vergine, consapevole delle grandi opere che l'Onnipotente aveva compiuto in lei, passa naturalmente da se stessa al suo popolo. Alla relazione tra Dio e il servo segue quella tra Dio e Israele servo. In questo modo, il canto di Maria coinvolge nell'esperienza salvifica tutta la discendenza di Abramo, sulla base delle promesse fatte ai Padri. Il canto della Vergine Maria è una vera e propria rilettura dei grandi interventi di Dio nella storia di Israele; è la celebrazione stessa della salvezza definitiva operata da Cristo; è una profezia radicale di un futuro in cui la vittoria di Dio trasformerà tutte le cose. Si tratta di una negazione radicale della logica del potere che domina la cultura e la società di tutti i tempi. Il Magnificat canta l'utopia del Regno che ha fatto irruzione nella pienezza dei tempi, ma attende ancora al compimento definitivo[3]. Come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, "il Magnificat rappresenta ad un tempo il cantico della Madre di Dio e quello della Chiesa, cantico della Figlia di Sion e del nuovo Popolo di Dio, cantico di ringraziamento per la pienezza di grazie elargite nell'Economia della salvezza, il cantico dei 'poveri' la cui speranza si realizza mediante il compimento delle promesse fatte ai nostri padri, “ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre" (CCC n. 2619).

Alla fine dei tempi sorgerà il grande giorno della speranza, la Pasqua di Cristo e nostra, quella salvezza piena cantata alla fine del libro per eccellenza della speranza, l'Apocalisse. E allora si compirà ciò che san Paolo desidera per i cristiani di Roma: "Il Dio della speranza vi riempia di gioia e di pace, vivendo la vostra fede, perché possiate essere inondati di speranza per la forza dello Spirito Santo" (Rm 15,13).[4] 

 

 



[1] Cfr. Alberto Valentini, Il Magnificat. Genere letterario. Struttura. Esegesi, Dehoniane, Bologna 1987 (copia anastatica 2016), p. 95.

[2] Cfr. Benedetto XVI, discorso all'udienza generale del 15 febbraio 2006.

[3] Cfr. Alberto Valentini, La lode delle generazioni a Maria secondo il Magnificat, en AA. VV, “Tutti mi chiameranno Beata”. L’Onore a Maria nel popolo di Dio (Biblioteca di Theotokos 22), pp. 26-27.

[4] Cfr. Gianfranco Ravasi, L’alfabeto di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023, p. 222.

venerdì 9 maggio 2025

DOMENICA IV DI PASQUA (C) – 11 Maggio 2025

 



 

At 13,14.43-52; Sal 99 (100); Ap 7,9.14b-17; Gv 10,27-30

         

Il Sal 99, da cui è tratto il salmo responsoriale, veniva, probabilmente, cantato mentre il popolo eletto entrava nel tempio durante le grandi solennità. Con questo inno Israele proclama la sua fede nel Signore “buono” il cui amore è eterno e riafferma la sua coscienza di essere il popolo dell’alleanza, legato da un rapporto intenso e personale col suo Dio. Sullo sfondo di questo testo, si può leggere tutta la storia di Israele. La bontà e la fedeltà di Dio si sono manifestate pienamente in Cristo, ed egli, nostro pastore, con la morte e risurrezione, ci ha fatto “suo popolo e gregge del suo pascolo”. Cristo è il pastore che porta ai pascoli della vita. È su questa immagine che insiste particolarmente la liturgia odierna.


Nel brano evangelico, Gesù si presenta come il vero pastore dell’umanità, che stabilisce uno stretto rapporto di conoscenza o esperienza, di unione e intimità con l’uomo, lo guida e lo conduce alla vita eterna. La seconda lettura ci riporta alla fase finale del regno, a quella celeste, quando il gregge di Cristo avrà già raggiunto i pascoli eterni e sarà una moltitudine immensa, che nessuno può contare; l’Agnello immolato e vittorioso sarà il loro pastore e tergerà ogni lacrima dai loro occhi. Nel frattempo, la Chiesa, seguendo l’esempio degli apostoli (cf. prima lettura), continua ad annunciare a tutte le genti “sino all’estremità della terra” la salvezza in Cristo.


Per meglio capire le parole di Gesù che si presenta come buon pastore, bisogna tener conto del contesto più generale in cui egli ha fatto questa affermazione. Con l’immagine del buon pastore, Gesù intende rispondere in qualche modo a coloro che gli chiedono insistentemente se sia lui il Messia. Per i suoi interlocutori il Messia era considerato perlopiù una sorta di figura politica, un personaggio di potere. Il Signore invece scegliendo l’immagine del buon pastore rivela in quale altro modo inatteso che egli sia il Messia. Egli non avanza pretesa alcuna di dominio sull’uomo, ma solo una proposta di amore e di servizio che arriva fino al dono della vita.

 

Il Figlio di Dio, facendosi uomo, si è avvicinato ad ogni uomo, lo ha chiamato per nome, lo ha amato con cuore di uomo fino a dare la propria vita per quest’uomo. Quando Gesù dice: “Io dò loro la vita eterna” non parla di qualcosa di esterno. La “vita eterna” nel vocabolario di Giovanni è semplicemente un sinonimo di “vita divina”, quindi di partecipazione alla stessa esistenza del Pastore. Possiamo ricordare al riguardo una ardita affermazione di sant’Agostino: quando egli intende esprimere il mistero di comunione che si stabilisce tra Dio e l’uomo redento, afferma con una bellissima espressione che Dio è “più intimo a me di me stesso”. Scoprendoci nel cuore di Dio, smetteremo di restare ripiegati sulle nostre piccole paure.

 

Gesù afferma che egli “conosce” le sue pecorelle, cioè Gesù entra nella profondità personale della creatura amata che gli risponde con l’ascolto e l’adesione della fede. Infatti, “ascoltare” è per l’uomo apertura esistenziale all’altro, è attenzione alla sua persona prima ancora che alle sue parole. Un uomo o una donna che non ascoltano, che non sono disposti ad aprirsi e a ricevere nulla dagli altri, non saranno in grado poi di comunicare, di dare qualcosa agli altri. La domenica del buon pastore ci riporta ai pastori della Chiesa. Il Signore chiama, ha bisogno di uomini e donne che si dedichino in modo particolare all’annuncio del vangelo radunando la comunità attorno alla mensa della Parola e dell’Eucaristia e donando a piene mani il perdono e la tenerezza di Dio.

giovedì 8 maggio 2025

HABEMUS PAPAM LEONE XIV

 



 

IL COLLEGIO EPISCOPALE E IL SUO CAPO, IL PAPA

Dal Catechismo della Chiesa Cattolica

 

880. Cristo istituì i Dodici «sotto la forma di un collegio o di un gruppo stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro».400 «Come san Pietro e gli altri Apostoli costituirono, per istituzione del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il Romano Pontefice, Successore di Pietro, e i Vescovi, successori degli Apostoli, sono tra loro uniti».401

881. Del solo Simone, al quale diede il nome di Pietro, il Signore ha fatto la pietra della sua Chiesa. A lui ne ha affidato le chiavi;402 l'ha costituito pastore di tutto il gregge.403 «Ma l'incarico di legare e di sciogliere, che è stato dato a Pietro, risulta essere stato pure concesso al collegio degli Apostoli, unito col suo capo».404 Questo ufficio pastorale di Pietro e degli altri Apostoli costituisce uno dei fondamenti della Chiesa; è continuato dai Vescovi sotto il primato del Papa.

882. Il Papa, Vescovo di Roma e Successore di san Pietro, «è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità sia dei Vescovi sia della moltitudine dei fedeli».405 «Infatti il Romano Pontefice, in virtù del suo ufficio di Vicario di Cristo e di Pastore di tutta la Chiesa, ha sulla Chiesa la potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente».406

883. «Il Collegio Corpo dei Vescovi non ha autorità, se non lo si concepisce insieme con il Romano Pontefice, [...] quale suo capo». Come tale, questo Collegio «è pure soggetto di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa: potestà che non può essere esercitata se non con il consenso del Romano Pontefice».407

 

domenica 4 maggio 2025

IL CANTICO DELLE CREATURE

 


Il canto Laudato si’ di san Francesco e l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco ci aiutano a comprendere l’importanza di una lode/benedizione cosmica: farci scendere dal piedistallo in cui un certo soggetto-centrismo ci ha collocato.

In quest’ottica, il capitolo 3 del libro di Daniele resta uno splendido esempio di Cantico delle creature. Ci pare di essere davanti ad una sorta di ricapitolazione della creazione, in cui la benedizione discendente diventa ascendente, e tutto quanto è stato posto in essere a sua volta “bene-dice” il Signore: cieli, acque, sole, luna, stelle, piogge, rugiade, venti, fuoco, terra, monti, creature che germinano sul terreno, mari, fiumi, quanto si muove nell’acqua (persino i mostri marini) e nell’aria, tutti gli animali selvaggi e domestici. Tutto, nell’imperativo ottativo della preghiera, viene invitato a benedire il Signore. Fino ad arrivare ai figli dell’uomo e, quindi, a tutti i figli e figlie della stirpe umana. Nel cantico ci sono i nomi di Anania, Azaria e Misaele, nel nostro cantico quotidiano, i nostri nomi. In una benedizione corale, senza parole, ma di ogni creatura, nella sua specificità. Perché il vero “dire” del benedire (sia quello del Creatore, sia quello delle creature) è silenzioso. “I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annunzia il firmamento”; Sal 19. Un silenzio “dicente” in cui l’essere (ogni essere) si dona (può donarsi) cor-rispondendo così al vento pieno di rugiada (Dn 3,50), al mormorio di brezza leggera, alla voce di silenzio sottile (I Re 19, 12), da cui tutto ha preso e prende forma. Un dialogo non fatto di parole (significanti), ma di segni (significati). Torniamo così alla radice inglese e tedesca del benedire: “segnare”.

Fonte: Annalisa Caputo, Il “sì” della vita alla vita. Benedizione, riconoscimento, riconoscenza, in “Rivista di Pastorale Liturgica”, n. 368 (1/202), pp. 9-10.

venerdì 2 maggio 2025

DOMENICA III DI PASQUA (C) – 4 Maggio 2025

 



 

At 5,27b-32.40b-41; Sal 29 (30); Ap 5,11-14; Gv 21,1-19        

   

 

Per cogliere in modo unitario il messaggio delle tre letture odierne, partiamo dal vangelo, dove vediamo che Pietro, riabilitato e confortato dalla presenza e dalle parole del Risorto, riscopre la sua vocazione di “pastore”. Il brano degli Atti (prima lettura) ci racconta come gli apostoli ritornano a predicare con gioia Cristo risorto nonostante gli insuccessi e le ripetute proibizioni del Sinedrio. Finalmente il brano dell’Apocalisse (seconda lettura) ci rassicura che Cristo ha riportato la vittoria sulla morte ed ora riceve la lode di tutte le creature. Niente ci deve quindi scoraggiare dal servizio al vangelo: né le difficoltà della fede né la persecuzione.

 

La predicazione apostolica produce l’immancabile reazione del Sinedrio, al tempo autorità religiosa e anche politica. Imprigionati e miracolosamente liberati, gli apostoli si recano di nuovo nel tempio a testimoniare pubblicamente il loro Signore. Al sommo sacerdote, presidente del tribunale del Sinedrio, che ricorda a Pietro la proibizione di insegnare nel nome di Gesù, l’Apostolo risponde coraggiosamente a nome di tutti: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini”. “Obbedire” nella Bibbia è sinonimo di “credere”; perciò, Pietro afferma la forza critica della fede nei confronti dell’autorità umana, politica o religiosa, quando essa si arroga dignità e ruoli che non rispettano la libertà della coscienza. Il conflitto della comunità apostolica con il potere giudaico prolunga quello che ha condotto Gesù alla passione e alla morte in croce. Ma Cristo ha vinto la morte! La testimonianza degli apostoli poggia su questa certezza, a tal punto che essi sono “lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù”.

 

Testimoniare Cristo risorto è compito della Chiesa nel suo insieme, di tutti i cristiani. Ma per testimoniare Cristo è necessario fare anzitutto esperienza di lui, percepire la sua presenza, e incontrarlo nella nostra vita. Notiamo che gli apostoli incontrano il Signore risorto mentre sono al lavoro ed è qui che vengono richiamati al loro impegno di testimoniare dinanzi agli uomini il vangelo di Gesù. La testimonianza e l’esperienza del Cristo si collocano quindi all’interno della vita quotidiana, familiare e di lavoro. Questa testimonianza non è senza sofferenza e croce. Bisogna abituarsi a portare giorno dopo giorno la croce della testimonianza della propria fede senza perdersi d’animo. Ciò significa che la nostra testimonianza deve essere ferma ma non arrogante, decisa ma non provocatoria, umile ma non masochista, una testimonianza d’amore e non di privilegio, una testimonianza nel nome del Signore Gesù e non nel nome proprio.

 

In modo del tutto particolare, il Signore continua a manifestarsi a noi nell’eucaristia perché, riconoscendolo nei segni sacramentali, possiamo “proclamare davanti a tutti che Gesù è il Signore”.