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venerdì 26 aprile 2024

DOMENICA V DI PASQUA (B) – 28 Aprile 2024

 



 

At 9,26-31; Sal 21; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8

 

 

La Pasqua è un evento paradigmatico, simbolo di vita, di vita ritrovata, di vita piena, quella di Gesù e quella nostra. Il brano evangelico d’oggi ci ricorda che la fecondità della nostra vita dipende dalla relazione vitale con il Signore. Gesù illustra questa verità con l’immagine della vite e dei tralci, immagine presente già nell’Antico Testamento. Gesù si presenta come la “vite vera”, di cui noi siamo i “tralci”. La condizione essenziale perché la nostra vita porti frutto è la comunione vitale con Gesù: “Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me”. Gesù si pone quindi come centro significativo della nostra vita e come condizione essenziale per una nostra vita significativa e feconda. Ma notiamo che occorre “rimanere” in lui: il verbo ricorre otto volte negli otto versetti dell’odierno brano evangelico.

 

San Giovanni ribadisce la stessa dottrina nella seconda lettura, quando afferma che il frutto fondamentale che specifica la morale pasquale è l’amore “con i fatti e nella verità”, e cioè mediante l’osservanza dei comandamenti, in particolare di quelli riguardanti la fede e l’amore fraterno: “Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e egli in lui”. La fede e l’amore sono i costitutivi essenziali della nostra realtà di cristiani, sono “il comandamento” per eccellenza, il frutto essenziale che il fedele, innestato in Cristo – vite vera, deve produrre. Un esempio concreto di questo rapporto vitale con Cristo l’abbiamo nella vita di san Paolo, che dopo la sua conversione, trasformato dall’incontro con Cristo, dà testimonianza coraggiosamente della sua fede nella città di Gerusalemme mettendo a repentaglio la propria vita per amore di Gesù (prima lettura).

 

La parola di Dio ci invita oggi a ritornare alle radici del nostro essere cristiano. Il successo della nostra vita è possibile solo se radicato in Cristo. Senza di lui non possiamo fare nulla, la nostra esistenza diventa sterile. Dietro l’immagine del tralcio secco e arido, perso ai bordi del campo, c’è il mistero del rifiuto che possiamo opporre alla vita e all’amore, c’è la vicenda del confronto tra la luce e le tenebre. Chi volesse rivendicare un’impossibile autonomia si troverebbe a fare i conti con la sua assoluta pochezza e sterilità. Contro una cultura antropocentrica, che rifiuta Dio e colloca l’uomo al centro di tutto, la Parola di Dio ci propone una vita ancorata in Cristo. Uniti a Cristo, la nostra vita porterà frutti abbondanti. Questa unione si rinsalda nell’ascolto della Parola e nella partecipazione all’Eucaristia, le due mense in cui si nutre la vita cristiana (cf. Dei Verbum, n.21). Si tratta di un frutto che riguarda sia la vicenda terrena che la vita eterna promessa a quelli che restano uniti vitalmente a Gesù.

 

domenica 21 aprile 2024

IL CORPO

 



“Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai suoi discepoli, disse: Prendete e mangiate: questo è i mio sôma” (Mt 26,26). Sulla scia di questa frase di Cristo ripetuta ogni volta dal sacerdote nella celebrazione eucaristica, proponiamo proprio quella parola greca che indica il “corpo” e che risuona 142 volte nel Nuovo Testamento. È evidente che nelle parole pronunciate da Gesù nel Cenacolo in quest’ultima sera della sua vita terrena, sôma à la sua stessa persona che si dona in un abbraccio di comunione col suo fedele attraverso il segno del pane e del vino.

Ora, a differenza della cultura greco classica – che pone una netta divisione e distinzione tra l’anima spirituale e il corpo materiale, simili a due poli che si respingono pur essendo forzosamente costretti a coesistere – la Bibbia considera l’essere umano come un’unità ove carne, vita, spirito, coscienza sono tra loro compatti. Per i semiti, infatti, noi siamo un corpo perché è in esso e con esso che viviamo e comunichiamo, mentre noi occidentali abbiamo un corpo che controlliamo, detestiamo oppure idolatriamo. In questa luce è comprensibile come sia rilevante la corporeità nelle pagine della Bibbia.

Come si diceva, essa in pratica coincide con la persona e non si ferma alla sola carnalità, segno di debolezza, fragilità e miseria, che pure è un aspetto del corpo. Il Cantico dei cantici non ha nessun imbarazzo nel celebrare la bellezza e l’eros dei corpi dei due innamorati (cc. 4; 5; 7). Così non ci deve stupire che già nell’Antico Testamento e in forma unica e altissima nel Nuovo il destino ultimo della creatura redenta sia la risurrezione dei corpi (Ez 37 e la Pasqua di Cristo e dei cristiani) e non tanto l’immortalità della sola anima. Similmente è significativo che l’attività pubblica di Cristo sia stata dominata oltre che dalla predicazione, dalla guarigione dei malati.

Il ministero pubblico di Gesù, attraverso i miracoli, si è concentrato per una metà proprio sul corpo umano per riportarlo al suo splendore. Inoltre, come si è detto, attraverso l’eucaristia, egli offrirà il suo corpo come cibo, creando così una comunione non genericamente spirituale ma personale, tra sé e il fedele, essendo – come si diceva – il corpo espressione della persona. Paolo concepirà, poi, nella Prima Lettera ai Corinzi, la Chiesa come corpo del Cristo risorto e ai Corinzi domanderà retoricamente: “Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo?” (6,19; 12,12-30).

Certo, nel nostro corpo c’è lo stigma della morte e la ferita del peccato. L’Apostolo usa, infatti, le espressioni “corpo di morte” e “corpo di peccato”. Ma con l’Incarnazione del Figlio di Dio, il nostro corpo mortale e peccatore è sepolto e viene fatto rinascere il “corpo spirituale”, cioè animato dallo stesso Spirito di Dio. “Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso” (Fil 3,21). Infatti, la meta a cui tendiamo, quella della risurrezione, è segnata già in noi attraverso l’anelito verso una salvezza piena dell’adozione a figli e della “redenzione del nostro corpo” (Rm 8,23).

Anche se è difficile definire come sarà il destino del nostro corpo glorioso nella creazione rinnovata (si leggano le argomentazioni paoline nel capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi), sappiamo che esso ha un destino di gloria. Per questo già fin d’ora dobbiamo consacrare a Dio i nostri corpi perché essi, espressione della nostra persona e della nostra esistenza, sono “il sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, il nostro culto spirituale (Rm 12,1).

 

Fonte: Gianfranco Ravasi, L’alfabeto di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023, pp. 283-285.

venerdì 19 aprile 2024

DOMENICA IV DI PASQUA (B) – 21 Aprile 2024

 



 

 

At 4,8-12; Sal 117; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18

 

Il brano evangelico presenta Gesù come buon pastore che spontaneamente offre la vita per le pecore, a differenza di tutti gli altri, semplici mercenari che badano soltanto nel loro egoismo a sé stessi. Per questo, san Pietro afferma in pieno sinedrio, dopo aver guarito lo storpio nel nome di Gesù Cristo, che “non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (prima lettura). Grazie a lui, aggiunge san Giovanni, siamo “chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente” (seconda lettura). Questa è la “buona notizia” che annuncia la Pasqua. Il contenuto di questa notizia lo possiamo esprimere con queste altre parole: Dio in Cristo viene incontro a noi per offrirci la sua amicizia, senza badare ai nostri meriti, alla nostra bontà o cattiveria. La morte di Gesù è un atto di amore e di libertà. Gesù è l’insuperabile manifestazione dell’assoluto amore di Dio per tutti gli uomini senza distinzioni, anche per quelli che non appartengono a “questo ovile”. La prospettiva universale dell’amore salvifico del Signore si estende a tutto il genere umano. Nell’Antico Testamento, Dio si esprime per bocca del profeta Osea con queste parole: “Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Os 11,8). Il cuore di Dio non cessa di ripeterci queste parole attraverso il cuore trafitto del Figlio.

 

Nel brano evangelico odierno, Gesù non si paragona solamente a “un” buon pastore, ma è “il” buon Pastore. Intrattiene con le sue pecore relazioni di conoscenza reciproca, fondate sull’amore che il Padre ha per loro come per lui. Poiché gli appartengono, si prende cura di loro e le difende coraggiosamente da ogni pericolo. Ha dato la sua vita per loro, per far sì che non vi sia più che un solo gregge, così come non vi è che un solo Pastore. Questo insieme di tratti rinviano al mistero pasquale che ne svela pienamente il significato. L’immagine del buon pastore forse dice poco a noi, figli di una società industriale e democratica; per alcuni anzi potrebbe risultare offensivo l’essere paragonati ad un “gregge”. Dobbiamo quindi soffermarci sulla sostanza sempre attuale tramandata dall’immagine del buon pastore, che è il dono della vita. Gesù ha come fondamentale obiettivo non la difesa della propria vita, ma quella degli altri; per la nostra redenzione ha impegnato tutto se stesso. Di conseguenza “gregge” e “pecore” non evocano assolutamente una folla di discepoli senza personalità, che seguono il loro pastore e gli obbediscono passivamente belando. Ognuno di noi è chiamato a diventare partecipe della realtà di Cristo nella misura in cui la sua vita diventa veramente dedita, offerta, data per gli altri. C’è più gioia nel dare che nel ricevere!

 

Nell’assemblea eucaristica, convocata e riunita dal buon Pastore che la presiede, Egli nutre con il suo corpo e il suo sangue coloro che hanno ascoltato la sua voce.

domenica 14 aprile 2024

ANNO LITURGICO ED EVANGELIZZAZIONE

 



 

La liturgia, celebrata nel corso dell’Anno liturgico, ha una speciale efficacia per alimentare la fede dei partecipanti. Certamente l’Anno liturgico non può essere strumentalizzato e trasformato in un “programma” di evangelizzazione fatto a tavolino, né in una prima catechesi di iniziazione cristiana, perché l’Anno liturgico è il luogo dove i fedeli già convertiti e credenti, celebriamo il mistero che nutre la nostra fede (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 9). In ogni modo, il ciclo annuale dei tempi e delle festività dell’Anno liturgico contiene in sé stesso una grande forza evangelizzatrice, e può diventare il luogo ideale di una permanente evangelizzazione del popolo di Dio. Infatti, quale scopo ha l’evangelizzazione? Nella prima Lettera ai Corinzi, san Paolo afferma che il Vangelo che egli ha annunciato ed i Corinzi hanno ricevuto è: “che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture…” (cf. 1Cor 15,1-5). Si tratta del mistero centrale della storia della nostra salvezza, che noi proclamiamo nel Credo.

Questa storia di salvezza è narrata dalla Bibbia e celebrata dalla liturgia. Quanto la Bibbia racconta dal Libro della Genesi a quello dell’Apocalisse, la liturgia lo ri-presenta lungo il cammino che dalla prima domenica di Avvento porta all’ultima domenica del Tempo Ordinario, e cioè l’unico piano salvifico di Dio. Nella Bibbia esso si svolge “con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto” (Dei Verbum [DV], n. 2). Secondo i modi ad esso propri l’Anno liturgico ri-narra questo cammino, lo interpreta e lo annuncia realizzato nel mistero di Cristo, “il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione” (DV, n. 2). L’Anno liturgico conferisce quindi un particolare realismo alla parola di Dio in quanto l’attesta compiuta nel nostro oggi: “La Chiesa, specialmente nei tempi di Avvento, di Quaresima e soprattutto nella notte di Pasqua, rilegge e rivive tutti i grandi eventi della storia della salvezza nel ‘oggi’ della sua liturgia” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.1095). Conseguentemente “l’evangelizzazione richiede la familiarità con la Parola di Dio” (Evangelii gaudium, n.175). Giustamente papa Francesco ha stabilito recentemente che la III Domenica del Tempo ordinario “sia dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio” (Aperuit illis, n.3). 

 

venerdì 12 aprile 2024

DOMENICA III DI PASQUA (B) – 14 Aprile 2024

 



 

At 3,13-15.17-19; Sal 4; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48

 

 

Il filo conduttore delle letture bibliche di questa terza domenica di Pasqua è l’invito a convertirsi per avere il perdono dei peccati. Giovanni Battista, i Precursore, iniziò la sua predicazione con l’invito alla conversione. Così pure Gesù diede inizio alla sua vita pubblica invitando tutti a convertirsi. Lo stesso fanno il Signore risorto e la prima comunità cristiana: intraprendono la loro attività col medesimo annuncio. Infatti, il tema della conversione risuona nelle tre letture di questa domenica: Gesù risorto appare ai discepoli, li istruisce e li manda a predicare a tutti i popoli “la conversione e il perdono dei peccati”; san Pietro, dopo aver guarito lo storpio presso la porta del tempio di Gerusalemme, alla folla che si è radunata attorno a lui annuncia Cristo morto e risuscitato ed esorta tutti a convertirsi e cambiare vita; infine, san Giovanni dopo aver presentato Cristo come nostro “Paraclito (avvocato) presso il Padre” e come “vittima di espiazione per i nostri peccati”, esorta ad “osservare i suoi comandamenti”. Il dono della salvezza si attua attraverso un duplice movimento. Il primo è quello di Dio che si mette in cammino verso noi peccatori attraverso il Figlio. All’azione di Dio che ci giustifica attraverso il Figlio subentra la risposta dell’uomo che si impegna nella conoscenza di Dio. Nella Bibbia si tratta sempre di una conoscenza non astratta o meramente speculativa, ma affettiva, volitiva ed effettiva. Non per nulla il suo criterio di autenticità è l’osservanza dei comandamenti (cf. seconda lettura).

 

La conversione è uno specifico tema pasquale. Infatti, la Pasqua è un nuovo inizio, non solo per Cristo, che dalla morte passa alla vita, ma per tutti coloro che credono in lui. La missione che Gesù affida agli apostoli riguarda tutte le nazioni, anche se debbono iniziare da Gerusalemme. La gloria del Risorto è destinata a riverberarsi su tutti gli uomini come una forza di rinnovamento. Lo stesso Gesù ricorda ai discepoli che la sua morte rientra nel disegno di Dio che lo ha risuscitato dai morti e lo ha costituito fonte di salvezza di tutti noi mediante il perdono dei peccati. Gesù nel mistero della sua Pasqua è come un nuovo Mosè che attraverso la morte-risurrezione libera e salva i credenti in lui donando loro accesso alla libertà e alla vita, guidandoli verso una vita nuova e definitiva. La missione della Chiesa ha quindi la sua sorgente nel Cristo risorto, il suo contenuto nella predicazione della conversione per il perdono dei peccati, e come orizzonte l’umanità intera. La Pasqua ci parla quindi di una conversione che ha come traguardo la pienezza di una vita rinnovata nell’amore del Signore. San Paolo ci ricorda che ciò inizialmente si realizza nel battesimo: “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a Cristo nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Nona, lettura breve – Rm 6,4). Cristo nella gloria è in permanenza la risurrezione e la vita, per la potenza sempre attuale e sempre attiva dello Spirito e della Gloria del Padre: egli è l’eterna Pasqua.

 

domenica 7 aprile 2024

L’ASSEMBLEA

 



Nel tempio di Gerusalemme i vari membri delle tribù d’Israele si incontravano tra loro, costituendo l’assemblea della comunità fedele. Vorremmo ora proporre il vocabolo ebraico che designa proprio quell’assemblea: qahal, che è sostantivo e verbo, cioè “assemblea, adunanza” e “convocare”, presente 173 volte. L’elemento più suggestivo è, però, da ricercare nell’antica versione greca della Bibbia, detta “dei Settanta” a causa del numero leggendario dei traduttori.

Ora, anche chi non sa il greco, comprenderà il valore del termine da loro usato: ekklêsía, donde il nostro “chiesa”. Qahal- ekklêsía è, perciò, il popolo di Dio che si riunisce soprattutto nell’atto di culto, nella professione della fede e nella carità fraterna. È la comunità fedele che è convocata da Dio per l’incontro e il dialogo orante. Essa, nell’antico Israele, si riuniva in adunanza attorno all’arca dell’alleanza, segno della presenza divina.

Quest’ultima era una cassa di legno d’acacia rivestita d’oro. Sul coperchio una lastra d’oro, sorretta da due cherubini anch’essi d’oro, era considerata lo “sgabello dei piedi del Signore” che scendeva dal cielo per incontrare il suo popolo. L’arca è descritta due volte nel libro dell’Esodo (25,10-20; 37,1-9), si ricorda anche il nome del suo artefice, Besalel, e si descrive pure la modalità del suo uso nelle processioni. Al suo interno erano custodite le due tavole di pietra di Mosè e, secondo la Lettera agli Ebrei (9,4), anche un vasetto di manna e il bastone di comando del sacerdote Aronne, una sorta di scettro rituale.

Il termine qahal diventa quasi una definizione della comunità ebraica, soprattutto mentre è in marcia nel deserto del Sínai. Così, ad esempio, quando gli Israeliti si lamentano per la fame accusano Mosè e Aronne con queste parole: “Ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa assemblea (qahal)” (Es 16,3). Core, Datan e Abiram, tre membri del popolo, ordiscono una rivolta contro Mosè e Aronne, seguiti da un forte gruppo di ribelli. Il loro atto d’accusa è chiaro: “Basta con voi! Tutta la comunità, tutti sono consacrati e il Signore è in mezzo a loro. Perché vi innalzate sopra l’assemblea (qahal) del Signore?” (Nm 16,3).

Quando Mosè giunge alle soglie della terra promessa e sa che la sua missione è compiuta, “pronuncia davanti a tutta l’assemblea (qahal) d’Israele un cantico” d’addio (Es 31,30). Infine, secoli dopo, quando Israele, dopo l’esilio babilonese, ritorna nella sua terra e si costituisce in un nuovo stato retto dal sacerdote Esdra, “un’immensa assemblea (qahal) si riunì attorno a lui, uomini, donne e fanciulli” (Esd 10,1).

Una nota in appendice. Ci si è ormai abituati al titolo ebraico di un libro biblico sapienziale piuttosto originale nel suo messaggio: è il Qohelet, che una volta era chiamato Ecclesiaste sulla base della versione greca che sopra abbiamo spiegato. Sì, quel termine è uno pseudonimo che significa “presidente di un’assemblea (qahal)”, in questo caso di discepoli che lo ascoltano.

 

Fonte: Gianfranco Ravasi, L’alfabeto di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023, pp. 129-130.

venerdì 5 aprile 2024

DOMENICA II DI PASQUA (B) – 7 Aprile 2024 o della Divina Misericordia

 



 

At 4,32-35; Sal 117; 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31

 

Il brano del Vangelo di questa domenica è ricco di contenuti. In questa breve riflessione però ci limiteremo ad approfondire il dubbio di san Tommaso. Notiamo anzitutto che al di là delle apparenze, il dubbio non è affatto il contrario della verità. In un certo senso, ne è la ri-affermazione. È incontestabile che solo chi crede nella verità può dubitare, anzi: dubitarne. Perché il dubbio è un atteggiamento di ricerca, di esplorazione. Il dubbio, dal quale sant’Agostino fu spesso tormentato, è stato per il santo un passaggio obbligato per approdare alla verità. E così per altri grandi santi. Un noto filosofo britannico del secolo scorso, Bertrand Russell, diceva che “il problema dell’umanità è che gli stupidi sono sempre sicurissimi, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi”.

Concentrando ora la nostra attenzione sul dubbio dell’apostolo san Tommaso, vediamo che egli non si lascia convincere dalla visione del Risorto che gli altri discepoli hanno avuto. Tommaso vuole personalmente vedere e toccare. Ma quando poi Gesù ricompare per la seconda volta e lui è presente, non si dice che abbia toccato né le mani né il costato trafitto. Al rimprovero di Gesù, un rimprovero pieno di bontà, Tommaso riconosce il Risorto, un riconoscimento pieno, il più alto ed esplicito dell’intero Vangelo: “Il mio Signore e il mio Dio”. La confessione di Tommaso non esprime soltanto il riconoscimento ma l’appartenenza, lo slancio e l’amore: non dice “Signore Dio”, ma “il mio Signore e il mio Dio”.

Tommaso ha conosciuto il dubbio, ma questo non gli ha impedito di giungere ad una fede piena. Nell’esperienza di Tommaso c’è stata però una pretesa dalla quale occorre purificarsi. Gesù gli rimprovera: “Tu hai creduto perché mi hai veduto”, e aggiunge: “Beati quelli che hanno creduto senza avermi veduto”. La normalità della fede riposa sul fondamento dell’ascolto, sul fondamento della testimonianza apostolica.

Gli uomini di oggi, come una volta san Tommaso, vorrebbero vedere e toccare, ma la loro fede è legata alla visibilità della nostra testimonianza, della nostra vita trasformata come quella dei primi cristiani di cui parla il brano degli Atti degli Apostoli proposto come prima lettura: questi cristiani – si dice – erano “un cuore solo e un’anima sola”. Dopo la risurrezione, Gesù è presente nella comunità dei credenti e si rende visibile al mondo attraverso i gesti di carità fraterna di coloro che credono in lui. L’amore non è fatto di parole. Gesù lo aveva detto ai discepoli nel discorso di addio: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).

La risurrezione si realizza ed è testimoniata là dove si porta la pace, si libera dal male, si dona speranza, si costruisce un futuro sereno, là dove l’amore si traduce in fatti, là dove il volto misericordioso di Dio si incarna nelle nostre parole e nelle nostre azioni.