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venerdì 8 dicembre 2023

DOMENICA II DI AVVENTO (B) – 10 Dicembre 2023

 



 

 

Is 40,1-5.9-11; Sal 84 (85); 2Pt 3,8-14; Mc 1,1-8

 

Di Natale in Natale, le promesse del Signore aprono davanti alla Chiesa la prospettiva dell’Avvento finale di Cristo, in cui pace e giustizia, amore e verità raccoglieranno in un unico abbraccio il cielo e la terra.

Alle parole del profeta Isaia riprese dalla prima lettura: “preparate la via al Signore”, fanno eco le parole di Giovanni Battista raccolte dal brano evangelico: “preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”. Ogni vero incontro è frutto di un reciproco cammino. Il Signore ci viene incontro, ma ciascuno di noi deve compiere il suo tratto di strada con la propria conversione. Ce lo ricorda san Pietro nella seconda lettura: “nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia”. L’insegnamento di fondo che la parola di Dio ci rivolge in questa domenica è quindi un invito alla conversione per ristabilire la comunione col Signore che viene continuamente a noi. Dio entra nella storia umana e si rivela pienamente in Gesù Cristo, per invitare ed ammettere gli uomini alla comunione con sé e fare di tutti gli uomini una comunità di fratelli, che è la Chiesa - nuova Gerusalemme. Questo fatto, che interpella in prima persona ogni uomo che vive nel mondo, è un’autentica chiamata alla vera vita, alla vera felicità. La risposta all’invito divino esige l’apertura del cuore, un atteggiamento cioè di disponibilità e di accoglienza, permeato di quella semplicità e povertà che è alla base della fede; e richiede che si scavi nella propria vita una strada e la si percorra, con gioia e coerenza, fino all’incontro definitivo con il Signore.

Tra le immagini con cui le letture bibliche d’oggi parlano della conversione c’è quella della “strada” o della “via”, tema biblico classico, che esprime tutto il dinamismo della fede, intesa non tanto come atteggiamento intellettuale, quanto piuttosto come uno stile di vita nel quale si traduce la fedeltà al vangelo e quindi come “sequela” di Cristo. In questa prospettiva la vita cristiana appare come un “cammino” di fede - conversione, compiuto insieme agli altri fratelli per incontrare il Signore che viene e per fare l’esperienza della sua comunione. Ostacoli sul nostro cammino non ne mancano. Vi sono, fra l’altro, le realtà terrene, quando non vengono usate “con la sapienza che viene dal cielo”, come dice la colletta. Perciò nella preghiera dopo la comunione chiediamo a Dio di saper “valutare con sapienza i beni della terra, e tenere fisso lo sguardo su queelli del cielo”.

Il Signore e giudice della storia verrà e “in quel giorno tremendo e glorioso passerà il mondo presente e sorgeranno cieli nuovi e terra nuova” (prefazio dell’Avvento I/A). L’eucaristia facendo memoria della morte e risurrezione di Cristo pone per ciascuno di noi che vi partecipiamo un segno e una caparra di salvezza per quel giorno “tremendo e glorioso”. Infatti, nell’eucaristia Cristo ci ammette alla sua comunione, segno e caparra di quella comunione piena e definitiva alla fine dei tempi.

 

mercoledì 6 dicembre 2023

IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA B.V. MARIA – 8 Dicembre 2023

 



 

 

Gn 3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26

 

La Chiesa celebra l’Immacolata Concezione della vergine Maria nel Tempo di Avvento, in cui la liturgia fa memoria del progetto della salvezza secondo il quale Dio, nella sua misericordia, chiamò i Patriarchi e strinse con loro un’alleanza d’amore; diede la legge di Mosè; suscitò i Profeti; elesse Davide, dalla cui stirpe doveva nascere il Salvatore del mondo: di questa stirpe Maria è figlia eletta, quasi il punto di arrivo. Il peccato originale ha impreso nello spirito di noi tutti qualcosa di oscuro e ribelle che ci spinge a rifiutare il dialogo con Dio e a fare di noi stessi il centro di ogni progetto di vita. Solo la salvezza divina può operare il cambiamento radicale di questo atteggiamento. Maria è stata preservata di questa macchia perché, “piena di grazia”, diventasse Madre del Salvatore.        

 

Nel brano del vangelo, abbiamo ascoltato le parole dell’angelo: “Rallegrati, piena di grazia, il Signore è con te”. Comprendiamo molto bene il turbamento di Maria: in quel momento percepisce la bontà di Dio che si riversa su di lei e si sente confusa, come davanti a un dono che giudica troppo prezioso e inatteso per lei. Era quel progetto che Dio rivelava in poche frasi: “Concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo…” Un progetto che sconcerta Maria: come può avere un figlio se non è andata ancora ad abitare in casa di Giuseppe? Maria non rinuncia ad esprimere il suo smarrimento, il suo bisogno del tutto umano di capire. E quale risposta riceve? “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra”. In definitiva viene detto: Fidati Maria. Lascia fare a Dio.

 

E la grandezza di Maria sta proprio in questo, nell’accogliere il disegno di Dio con generosità, anche se non riesce a capire le strade che egli ha scelto per manifestare il suo amore agli uomini… Ecco, questo è l’essenziale. E in questa vicenda noi tocchiamo con mano la bontà di Dio che non ci ha abbandonato alla nostra storia di infedeltà e fragilità. Ma anche la risposta libera e generosa che ha trovato in una donna, che ha acconsentito a diventare madre del Salvatore.

 

In fondo è proprio quello che celebriamo con la festa dell’Immacolata: un Dio che ci precede sempre, che fa grazia, che offre il suo amore prima ancora che noi possiamo riconoscerlo e ricambiarlo. Dio non usa improvvisare: così aveva preparato Maria, l’aveva preservata da ogni contatto con il peccato delle origini. Un privilegio? Certo. Ma che non l’ha esonerata dalla fede, dalla fatica di aderire, giorno dopo giorno, a un progetto troppo bello e troppo grande per essere compreso e previsto.

         

Anche noi, come ci ricorda san Paolo nella seconda lettura, pur sottomessi all’eredità oscura del peccato originale, siamo stati scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati di fronte a Dio nella carità. Anche noi siamo chiamati a pronunciare il nostro “sì” al progetto che Dio ha su ciascuno di noi. Ciascuno di noi è chiamato a cooperare, come Maria, al grande disegno che Dio ha sull’umanità.

domenica 3 dicembre 2023

MARGINALITÀ DELLA LITURGIA?

 



 

Enzo Bianchi nella sua ultima opera (Dove va la Chiesa?, San Paolo 2023, pp. 63ss) parla della “marginalità assunta dalla liturgia all’interno della vita ecclesiale in questi ultimi anni”. Pur riconoscendo che ci sono delle comunità nelle quali la liturgia è vissuta intensamente, egli afferma che c’è “l’impressione che nella Chiesa italiana la liturgia si trovi oggi in un cono d’ombra rispetto a temi ecclesiali ritenuti centrali come la famiglia, i giovani, l’educazione, i poveri e, più in generale, i temi morali e sociali”. Dopo l’entusiasmo con cui è stata ricevuta la riforma liturgica voluta dal Vaticano II, si è registrata una “battaglia liturgica” che ha stancato i credenti.

 

A questa analisi un po’ pessimista di E. Bianchi, vorrei aggiungere che con la recente Lettera Apostolica di Papa Francesco Desiderio desideravi (2022), il clima sembra che si sia rasserenato. A 60 anni della pubblicazione della Costituzione Sacrosanctum Concilium (4 dicembre 1963), possiamo guardare con un certo ottimismo il futuro.

 

venerdì 1 dicembre 2023

DOMENICA I DI AVVENTO (B) – 3 Dicembre 2023

 


 

 

Is 63,16b-17.19b; 64,2-7; Sal 79; 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37

 

 

Il tempo d’Avvento collega la venuta di Cristo a Betlemme con l’attesa del suo secondo avvento glorioso alla fine dei tempi: il Natale è considerata già una festa di trionfo connessa col trionfo redentore della croce e con quello finale del ritorno di Cristo. L’Avvento si presenta quindi come un tempo di attesa del compimento della salvezza: nell’attesa gioiosa della festa della nascita del Redentore, siamo orientati verso il ritorno glorioso del Signore alla fine dei tempi. L’Avvento intende suscitare in noi la nostalgia di Dio.

 

In questa prima domenica d’Avvento, la parola d’ordine, ripetuta per ben quattro volte nel breve brano evangelico, è “vegliate!”, siate pronti ad accogliere il Signore che viene per compiere l’opera della salvezza! Come i servi di cui parla il vangelo d’oggi, anche a noi è stato affidato un compito e abbiamo ricevuto molteplici doni di grazia per portarlo a termine. Vegliare vuol dire essere pronti a rendere conto al Padrone della gestione di quanto abbiamo ricevuto da lui. Bisogna vegliare consapevoli del peso di eternità di ogni venuta, di ogni istante che ci è donato. Gesù non dice cosa farà il padrone se, giungendo all’improvviso, troverà i servi addormentati, ma non c’è nemmeno bisogno di annunciare una qualsiasi punizione; l’essenziale in questo caso è il fallimento doloroso del proprio compito. Ci era stato affidato un incarico ed era proprio quello che dava senso alla nostra vita; averlo dimenticato significa che la nostra esistenza precipita nell’inutilità, nell’amarezza del vuoto. La vita cristiana prende inizio dalla prima venuta del Signore, si sviluppa come cammino verso la seconda e si conclude nell’effettivo incontro con il Signore. Non possiamo mancare a questo appuntamento.

 

Nella seconda lettura, san Paolo ci ricorda che, nell’imprevedibilità del momento preciso del ritorno del Signore, la vigilanza deve diventare impegno e testimonianza davanti al mondo, come tra i cristiani di Corinto a cui è indirizzata la sua lettera: “La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente, che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo”. Vivere da cristiani significa assumere responsabilmente un compito che ci è stato affidato. Ma nell’adempimento di questo compito non siamo soli. Nel brano della prima lettura, il profeta Isaia è consapevole della radicale incapacità dell’uomo di salvarsi da solo. È necessario che Dio intervenga in nostro aiuto con l’azione trasformante della sua grazia: Egli va incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle sue vie. La colletta del giorno riprende questo concetto quando si rivolge a Dio affinché “susciti in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al Cristo che viene…” 


domenica 26 novembre 2023

L’EUCARISTIA SECONDO ZWINGLI

 



 

Il riformatore Zwingli Ulrico (1484-1531) si trovava ad operare tra il gruppo radicale degli anabattisti che intendevano creare una Chiesa “libera” e il fronte cattolico tradizionale che non intendeva accogliere le novità dei riformatori. Zwingli l’11 aprile 1525 presentò al Consiglio della città di Zurigo una nuova liturgia eucaristica. Il testo fu accolto e, con alcuni ritocchi, sostituì la messa tradizionale. Non intendo analizzare questo nuovo rito della santa cena. Vorrei soltanto indicare quali siano stati i criteri che hanno guidato a Zwingli nella sua riforma, che costituisce una vera e propria creazione liturgica.

Zwingli rifiuta il termine “messa”, ma accetta il vocabolo “eucaristia”, che è “memoriale” (Wiedergedächtnis), “ringraziamento” (Danksagung) e “esultanza” (Frohlocken). Partendo dal principio della “sola Scriptura”, tutto ciò che non si conforma alla parola di Dio deve essere eliminato. Il rito della cena del Signore è sato istituito da Cristo. È opportuno, pertanto, evitare lo sfarzo e la pompa delle cerimonie per non ricadere negli errori del passato. Il riformatore, poi, intende favorire la partecipazione di tutta la popolazione.

Non è difficile notare nei suddetti criteri del riformatore di Zurigo, tre criteri fondamentali della riforma cattolica della santa messa promossi dal Vaticano II ed enunciati nella Costituzione Sacrosanctum Concilium: una più grande ricchezza biblica (SC n. 51); la partecipazione attiva dei fedeli (SC nn.48-49); la ricerca di una nobile semplicità dei riti (SC nn.34, 50). Naturalmente, c’è una notevole differenza nel modo di applicare questi tre criteri nel rito di Zwingli e nel Missale Romanum di Paolo VI. Nondimeno, prendere atto di quanto abbiamo indicato può essere un punto di partenza per un fruttuoso dialogo ecumenico. 

 

Fonte: Per quanto riguarda la santa cena di Zwingli, si può consultare Ermanno Genre, Il culto cristiano. Una prospettiva protestante. Claudiana, Torino 2022, 244-247.   

venerdì 24 novembre 2023

DOMENICA XXXIV DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 26 Novembre 2023 NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

 



 

Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46

 

Celebriamo Cristo “Re dell’universo”. Per comprendere correttamente questo titolo dato a Cristo bisogna riferirsi alla tradizione biblica del Dio re-pastore. L’immagine del “re” e del “pastore” nell’antichità erano interscambiabili; così come quelle del “gregge” e del “regno”. Il Sal 22 parla di Dio Pastore buono che pasce il suo popolo, lo fa riposare su pascoli erbosi e lo conduce ad acque tranquille. Nella persona di Cristo, il Dio che fu Pastore e Ospite di Israele, si è fatto incontro agli uomini con un volto umano e con amore e bontà che superano ogni intendimento. Il salmo esprime la grande fiducia nel Signore che illumina, conforta e guida i credenti nei sentieri della vita.

 

L’anno liturgico si chiude sottolineando la centralità di Cristo nella storia e nella vita dell’uomo nonché il suo primato sull’universo. In effetti la solennità di Cristo Re dell’universo non intende riconoscere a Cristo un semplice titolo onorifico, ma il suo diritto a essere il centro della storia umana, la sua chiave di lettura. Il senso della storia del mondo e della vita dell’uomo si decide nel rapporto con Gesù Cristo e il rapporto con Gesù Cristo si decide nel rapporto coi fratelli. Questo doppio tema è quello che illustrano le letture bibliche odierne.

 

La prima lettura contiene un annuncio di speranza che il profeta Ezechiele fa pervenire al popolo d’Israele in un momento travagliato della sua storia. Dinanzi alla incapacità dei capi politici e religiosi d’Israele di essere autentiche guide al servizio del popolo, è Dio stesso che promette di prendersi cura d’Israele. Il Signore “pascerà” direttamente il suo gregge, nella speranza che questi risponderà alle sue premure. La tenerezza infinita di Dio è l’altra faccia della sua sovrana autorità, della sua onnipotenza.

 

La profezia di Ezechiele trova pieno compimento in Cristo. Il brano della lettera ai Corinzi della seconda lettura contempla la storia come un processo attraverso il quale il mondo deve essere sottomesso alla sovranità redentrice di Gesù. Il progetto di Dio è l’uomo liberato dalla schiavitù del peccato e ricondotto alla pienezza della verità e dell’amore e questo progetto è stato realizzato da Gesù Cristo. E quando tutto sarà stato sottomesso a Cristo, “anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti”. Queste parole ci introducono nel brano evangelico d’oggi. Infatti, san Matteo ci presenta a Cristo Signore quando verrà nella sua gloria a giudicare il mondo. Il criterio con cui Cristo giudicherà “tutti i popoli” sarà quello di aver amato, servito, aiutato, consolato chi si sia trovato in situazione di miseria, di povertà, di sofferenza, di malattia, di ingiustizia. Gesù afferma che in ognuna di queste situazioni lui era presente, per cui ogni gesto compiuto in favore del fratello in realtà era diretto a lui. Chi ha amato i fratelli di fatto ha amato Cristo. Ecco perché riconoscere la regalità di Cristo significa imitarne lo spirito, incontrarlo nel fratello e impegnarsi a liberarlo dalle sue necessità. L’amore attua e dilata i confini del regno di Cristo, che non è una realtà né geografica né spaziale né temporale, ma è la sovranità del suo amore, che si attua già nel cuore di ogni uomo e nelle realizzazioni terrene e si compirà in pienezza alla fine quando “Dio sarà tutto in tutti” (cf. seconda lettura). Sintetizzando possiamo dire, riferendoci al grandioso scenario del giudizio finale che “alla sera della nostra vita saremo giudicati sull’amore” (San Giovanni della Croce).

 

domenica 19 novembre 2023

IL NOME DI DIO

 



 

In Ex 3,14, a Mosè che gli chiede come dovrà rispondere agli ebrei che lo interrogano sul nome di Dio, Jahwèh risponde ehyé ašer ehyé, “sono colui che sono”. La Settanta, prodotta in un ambiente allenistico, e quindi a contatto con la filosofia greca, traduce questo nome con egó eimi ho õn, cioè col termine tecnico per l’essere (ho õn). Maimonide, commentando questo passo, si mostra perfettamente cosciente delle implicazioni filosofiche di questo nome di Dio: “Dio gli diede allora una conoscenza che doveva comunicare loro per l’affermazione dell’esistenza di Dio, cioè ehyé ašer ehyé. Si tratta di un nome derivato da haya, che designa l’esistenza, poiché haya significa “fu” e la lingua ebraica non distingue tra “essere” e “esistere”. Tutto il mistero è nella ripetizione, in forma di attributo, di questo termine che significa l’esistenza, poiché la parola ašer (chi), essendo un nome incompleto […] esige che si esprima l’attributo che gli è congiunto. Esprimendo il primo termine, che è il soggetto, con ehyé e il secondo termine, che gli funge da attributo, con lo stesso nome ehyé, si afferma che il soggetto è identico all’attributo. E questa è una spiegazione dell’idea che “Dio esiste, ma non attraverso un aggiungere l’esistenza”, il che si interpreta in questo modo: “L’essere che è l’essere”, cioè l’essere necessario.

Fonte: Giorgio Agamben, Horkos. Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento (Saggi 82), Quodlibet, Macerata 2023, 69-70.