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domenica 28 novembre 2021

IL LEZIONARIO DELLA MESSA

 



 

Il Lezionario della Messa (Ordo Lectionum Missae [OLM]) va venerato come la Parola di Dio: la liturgia stessa ce lo insegna, quando circonda il libro dei Vangeli con tanti segni di venerazione (incenso, bacio, intronizzazione sull’altare e sull’ambone).

 

Il Lezionario contiene la Parola che Dio rivolge a tutta l’assemblea. “I libri, dal quale si desumono le letture della Parola di Dio […] devono suscitare negli ascoltatori il senso della presenza di Dio che parla al suo popolo. Si deve quindi procurare che anche i libri, essendo nell’azione liturgica segni e simboli di realtà superiori, siano davvero degni, decorosi e belli” (OLM 35).

 

Il Lezionario è un mezzo in più, tra i gesti simbolici, per mostrare la nostra comprensione e stima della Parola di Dio. “Poiché la proclamazione del Vangelo costituisce sempre l’apice della Liturgia della Parola, la tradizione liturgica, sia occidentale che orientale, ha sempre fatto una certa distinzione fra i libri delle letture. Il libro dei Vangeli veniva infatti preparato e ornato con massina cura, ed era oggetto di venerazione più di ogni altro libro destinato alle letture” (OLM 36).

 

All’inizio della celebrazione della Messa il diacono porta solennemente il libro dei Vangeli. Questo gesto indica che la Parola di Dio convoca l’assemblea e illumina la sua fede. L’Evangeliario viene, poi, deposto, chiuso, sull’altare. Il vescovo che presiede bacia l’altare e l’Evangeliario al termine della processione di ingresso. Altare e libro: il nostro duplice incontro con Cristo, parola e alimento della comunità cristiana. Duplice mensa alla quale siamo invitati.

 

Al momento della proclamazione del Vangelo, il diacono prende l’Evangeliario dall’altare: come il pane e il vino eucaristici sono presi dall’altare perché i fedeli si nutrano del corpo di Cristo, così anche il Vangelo è preso dall’altare affinché i fedeli si nutrano dalla parola di Cristo. Poi, accompagnato da accoliti con incenso e candelieri, si pone in marcia la processione verso l’ambone. Lì il diacono apre il libro. Prima di proclamare la lettura, il libro del Vangelo viene incensato. La proclamazione inizia con il triplice segno della croce. Il diacono tocca prima il libro, tracciandovi un piccolo segno di croce. E poi lo fa su sé stesso: sulla fronte, sulle labbra e sul petto, a significare l’accesso della parola evangelica nelle facoltà fondamentali della persona (intelletto, linguaggio e volontà). E’ l’espressione di un desiderio: che questa Parola che risuona in mezzo a noi penetri nella nostra persona, e illumini veramente i nostri pensieri, le nostre parole, i nostri sentimenti e le nostre azioni. Finita la proclamazione, colui che ha proclamato il Vangelo prende il libro nelle sue mani e lo bacia: un bacio a Cristo che ci ha parlato. Nel frattempo, dice sottovoce: “la parola del Vangelo cancelli i nostri peccati”, chiede cioè che questo Vangelo sia strumento di salvezza per noi, distruggendo il male che sempre ci insidia. Nelle celebrazioni più solenni, il vescovo può impartire la benedizione al popolo con l’Evangeliario (cfr. Ordinamento generale del Messale Romano, n. 175).

 

Il Lezionario o l’Evangeliario rimane aperto sull’ambone. Chiuderlo non avrebbe significato. Il libro aperto, alla vista del popolo, continua ad illuminare il resto della celebrazione eucaristica e tutta la vita della comunità.

 

Il Messale italiano affianca all’antifona alla comunione dell’edizione tipica latina un’antifona proveniente dal vangelo del giorno. In questo modo si ricorda l’unicità della tavola del Cristo pane di vita che si offre come nutrimento ai credenti nel suo corpo scritturistico e nel suo corpo eucaristico.

 

Accanto all’altare, abbiamo l’ambone (che significa “luogo elevato”, da anabaínein, “salire”), luogo della proclamazione della Parola. Dopo secoli di oblio, il ritorno dell’ambone all’interno dello spazio liturgico è segno della riscoperta del valore della Parola di Dio nella vita della Chiesa. L’ambone è, nella prima parte della celebrazione – come l’altare nella seconda – il centro dell’attenzione di tutta l’assemblea.

venerdì 26 novembre 2021

DOMENICA I DI AVVENTO (C) – 28 Novembre 2021

 



 

Ger 33,14-16; Sal 24; 1Ts 3,12-4,2; Lc 21,25-28.34-36

 

L’anno liturgico inizia con l’invito a dare uno sguardo alla storia della nostra salvezza. Il testo di Geremia ci esorta alla fede, cioè alla fiducia nel compimento delle promesse di Dio che ha avuto nella storia come momento culminante la prima venuta del Figlio di Dio “nell’umiltà della nostra natura umana” (prefazio dell’Avvento I). La seconda lettura ci invita alla carità, in cui tutti i credenti siamo invitati a crescere e sovrabbondare nel tempo che ci viene dato vivere in questo mondo. Il brano evangelico parla della meta e traguardo ultimo e definitivo della storia: il ritorno del Figlio dell’uomo, che alla fine dei tempi verrà “con grande potenza e gloria”, e ci esorta ad attenderlo con speranza vigilante, senza turbamento.

 

Le immagini e le parole misteriose con cui Gesù descrive il suo ritorno glorioso alla fine della storia sono da interpretare in modo adeguato. Dietro questa descrizione del futuro, che può apparire a prima vista fosca e terrorizzante, bisogna leggere l’attesa di eventi storici che segneranno per sempre la sconfitta definitiva del male e il trionfo ultimo del bene. In questa luce, il ritorno glorioso del Cristo alla fine dei tempi, è da considerarsi un evento non tanto temuto quanto piuttosto atteso, anzi addirittura invocato con speranza dagli oppressi, vittime della malvagità degli uomini, e dall’intero popolo di Dio pellegrinante sulla terra. Caratteristico del racconto di san Luca è appunto la speranza nel compimento della salvezza: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”. Speranza di cui parla anche l’antifona d’ingresso della messa facendo proprie le parole del Sal 24, adoperato inoltre come salmo responsoriale: “A te, Signore, elevo l’anima mia, Dio mio, in te confido…” La nostra speranza poggia sulla fedeltà di Dio, che ha fatto “promesse di bene” (prima lettura).

 

Per noi cristiani il tempo è un continuo “avvento”, un ininterrotto venire di Dio. Il Signore viene in continuazione, in ogni uomo e in ogni tempo. Perciò siamo invitati a vegliare e pregare. La vigilanza orante ci rende capaci di discernere i segni e i modi della presenza del Signore. La storia umana non è da concepirsi come un succedersi più o meno caotico di fatti senza significato, ma come il compiersi graduale del “progetto” di salvezza che Dio ha sull’uomo. In questo progetto Dio ha voluto impegnare anche la nostra libertà e quindi la nostra cooperazione. La nostra vita non sfocia nel nulla, nella delusione, ma può avere, se lo vogliamo, una conclusione positiva. Nel brano della seconda lettura, per preparare questo futuro positivo, san Paolo ci stimola a crescere e sovrabbondare nell’amore fra noi e verso tutti per rendere saldi e irreprensibili i nostri cuori e irreprensibili nella santità, “davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi.”  

       

In questo impegno quotidiano ci è di aiuto l’eucaristia, “che a noi pellegrini sulla terra rivela il senso cristiano della vita”, ed è sostegno nel nostro cammino e guida ai beni eterni (orazione dopo la comunione), nonché “pane del nostro pellegrinaggio” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1392). “L’eucaristia è tensione verso la meta, pregustazione della gioia piena promessa da Cristo; in certo senso, essa è anticipazione del paradiso, pegno della gloria futura. Tutto, nell’eucaristia, esprime l’attesa fiduciosa, che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo” (Ecclesia de Eucharistia, n. 18).

 

 

domenica 21 novembre 2021

IN CHE SENSO LA MESSA E’ ANCHE NOSTRA

 



Il vescovo di Novara, Mons. Franco Giulio Brambila, ha ricordato ad un parroco, inviato ad esercitare il suo ministero in una nuova parrocchia, che la preghiera liturgica, nel caso specifico la Messa, “non è nostra ma della Chiesa madre” e, quindi, la “actuosa participatio” non è un invito alla creatività che vada oltre agli spazi di creatività previsti dal Messale stesso.

Il Prof. Andrea Grillo prende posizione nel suo blog Come se non (https://www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non/) e si domanda che cosa significa affermare “la Messa non è nostra”? Come atto di “riconoscimento”, l’atto rituale non è mai un atto assolutamente creativo. E tuttavia, per essere atto rituale, la messa deve anche restare un atto relativamente creativo. L’azione rituale della Eucaristia è un atto di Cristo e della Chiesa. Quindi allo stesso tempo “non è” nostra ed “è” nostra. In ogni linguaggio della messa non agisce né solo Dio né solo il popolo, né solo Cristo né solo la Chiesa. Ma sempre, allo stesso tempo, gli uni e gli altri, insieme, concordemente, in una relazione qualificante.

E il Prof. Grillo conclude affermando, tra l’altro: Una Chiesa che, proprio nel suo atto più decisivo, fosse solo capace di “riprodurre testi classici” e incapace di improvvisare con fedeltà e con gusto, sarebbe una Chiesa in profonda crisi. Nessun intervento sul testo della Messa è di per sé giustificato, salvo che non vi sia un cammino comunitario che elabora forme rispettose di approfondimento, di riflessione, di articolazione e di arricchimento della fede ecclesiale. Poiché questo non è ordinario, ma non può essere escluso, il principio affermato (“la Messa non è nostra”) è un principio relativo, ma non un principio assoluto.

Non c’è dubbio che la riflessione del Prof. Grillo, che ho sintetizzato con le sue stesse parole, ha un suo fascino e la possibilità di essere accolta nel caso “non ordinario” da lui indicato, anche se la disciplina attuale non lo contempla. Non è facile trovare una comunità che intraprenda un cammino del genere.

Vorrei aggiungere qualche mia breve considerazione. Purtroppo, la creatività che si riscontra in molte celebrazioni eucaristiche è d’altro genere e non si può considerare un arricchimento. Anzi, si rischia di strumentalizzare la liturgia per adeguarla ai propri gusti. Direi che si tratta di un nuovo devozionismo. Se per secoli le devozioni hanno occupato lo spazio del rito e impedito la partecipazione ad esso, oggi i fautori della creatività occupano lo spazio del rito della Chiesa con le loro fantasie e impediscono che la “mente concordi con la parola (della Chiesa)” (cf. SC 90).   

venerdì 19 novembre 2021

DOMENICA XXXIV DEL TEMPO ORDINARIO – 21 Novembre 2021 NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

 


 

Dn 7,13-14; Sal 92; Ap 1,5-8; Gv 18,33b-37

 

Celebriamo la solennità di Cristo Re dell’universo nell’ultima domenica dell’anno liturgico, quasi come sintesi di tutto ciò che abbiamo celebrato durante l’anno. Infatti, ogni domenica, “giorno del Signore”, proclama la sovrana signoria di Cristo. Alla fine di questo percorso annuale, l’ultima domenica intende celebrare in modo più organico ciò che costituisce il nocciolo di ogni celebrazione domenicale. Le letture bibliche odierne illustrano alcuni aspetti di questo mistero: Cristo centro della nostra vita e Signore della storia.

 

Tutti i poteri e regni di questo mondo sono destinati prima o poi a fallire, a scomparire. Il testo profetico della prima lettura invece, parlando del futuro regno messianico, lo descrive come un regno “eterno, che non finirà mai”. Il sovrano di questo regno messianico preannunciato dai profeti è Gesù. Nel brano evangelico, vediamo che per tre volte Gesù dice: “Il mio regno”, e per due volte si preoccupa di chiarire che questo regno è completamente al di fuori degli schemi mondani: “Il mio regno non è di questo mondo”, e cioè il regno di Cristo è diverso dei poteri mondani, si colloca su di un altro piano. Il regno di Gesù non si costruisce con la forza che si impone dall’esterno, ma con la forza interiore della verità che trasforma l’uomo dal di dentro. Infatti, il suo compito - lo dice egli stesso - è quello di “dare testimonianza alla verità”. Il fondamento della regalità di Cristo è quindi la testimonianza che egli rende alla verità. Sappiamo che Pilato non ha capito queste parole di Gesù. Cos’è la verità?

 

Nel vangelo di san Giovanni, che ci tramanda il passaggio in questione, la verità non è un concetto astratto o un principio filosofico, ma la rivelazione concreta di Dio e del suo amore; la verità è che Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito. Gesù ha reso testimonianza a questa verità, ha manifestato cioè questo amore di Dio con le sue parole e le sue opere, con la sua vita e, soprattutto, con la sua morte, che è la suprema sua testimonianza a favore della verità. Come dice san Giovanni nel brano dell’Apocalisse proposto come seconda lettura, egli ci ha amati e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue. La signoria di Cristo significa che Dio non permette che il mondo vada in rovina, anzi in lui lo ha portato definitivamente alla salvezza.

 

Dire regno di Cristo significa dire giustizia, pace, libertà, dignità umana, amore, liberazione dal peccato e da ogni forma di male (cf. il prefazio). Nella misura in cui questi valori s’impadroniscono di noi e della storia, il regno di Dio si compie o, meglio, il regno di Dio accelera il suo compimento. Ecco, quindi, che il regno di Cristo cresce in noi nella misura in cui diamo spazio a questi valori, nella misura in cui ne siamo protagonisti nella storia.

 

domenica 14 novembre 2021

LE ORAZIONI SALMICHE

 



 

I Principi e norme per La liturgia delle Ore parlano più volte delle “orazioni sui salmi o salmiche” (PNLO, nn. 110, 112, 202). Queste orazioni, proposte per i singoli salmi, aiutano a interpretare i salmi in senso soprattutto cristiano e si possono usare ad libitum. Secondo un’antica tradizione, sono recitate terminato il salmo e fatta una breve pausa di silenzio. I PNLO affermano che tali orazioni si troverebbero in un Supplemento della Liturgia delle Ore che, però, non è stato mai pubblicato.

 

In ogni modo, sono state molteplici le iniziative private al riguardo. Ne cito alcune in lingua italiana: C.A.L. (a cura di), Ascolta la mia voce. Lodi mattutine e Vespri secondo la Liturgia delle Ore, Marietti, Casale Monferrato 1983; David M. Turoldo - Gianfranco Ravasi, "Lungo i fiumi...." I Salmi. Traduzione poetica e commento, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1987; Giambattista Montorsi, Salmi. Preghiera di ogni giorno, Edizioni Messaggero, Padova 1991 (quarta ristampa); Paolino Beltrame Quattrocchi, I salmi preghiera cristiana. Salterio corale, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 199412; Angel Aparicio – José Cristo Rey García, I Salmi preghiera della comunità. Per celebrare la Liturgia delle Ore, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995; Angelo De Simone, Guida alla Liturgia delle Ore. Commenti e orazioni per la celebrazione corale, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996; Luigi Della Torre, Il canto di lode. Monizioni e orazioni per salmi e cantici. Lodi e Vespri, Paoline, Milano 1997; Ludwig Monti, I Salmi: preghiera e vita. Commento al Salterio, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose 2018; I Salmi. Pregarli, cantarli, comprenderli, Paoline – San Paolo, Edizioni San Paolo 2020.

 

Sono opere con impostazione e valore diversi. Alcune, oltre ad offrire le orazioni salmiche, contengono anche una introduzione ai singoli salmi. Fra tutte queste pubblicazioni, è da apprezzare il volumetto di Giambattista Montorsi, in cui troviamo, oltre alle preghiere salmiche, una breve introduzione al singolo salmo e cantico biblico, divisa in quattro parti che fanno riferimento al salmo come preghiera del popolo ebraico, di Cristo, della Chiesa e della comunità che lo prega. Montorsi inoltre segue la struttura del Salterio liturgico diviso in quattro settimane e offre questo materiale per tutte le Ore dell’Ufficio divino nonché per la Salmodia complementare e per i diversi Comuni e l’Ufficio dei defunti. Contiene anche una preziosa Appendice con altri elementi pratici.

 

Ci auguriamo che la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti pubblichi il promesso Supplemento della Liturgia delle Ore. Si sa che da anni esiste un materiale al riguardo.

 

venerdì 12 novembre 2021

DOMENICA XXXIII DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 14 Novembre 2021

 



Dn 12,1-3; Sal 15; Eb 10,11-14.18; Mc 13,24-32

 

Soltanto nel Signore possiamo trovare la fonte della gioia, della pace e la promessa sicura di una vita eterna, al di là della morte. Dio non ci abbandona, ma ci fa partecipi della sua eterna felicità. Come san Paolo, in catene a Roma a motivo del Vangelo, possiamo dire anche noi con grande fiducia: “So in chi ho posto la mia fede” (2Tm 1,12).

 

Avviandoci ormai alla conclusione dell’anno liturgico, le letture bibliche di questa penultima domenica ci invitano a riflettere sulle ultime realtà, sulla fine della storia e del mondo, quando cioè si compirà in modo definitivo la salvezza che ora possediamo solo nella speranza. Il Catechismo della Chiesa Cattolica riassume la fede della Chiesa su questo punto con le seguenti parole: “Il giudizio finale avverrà al momento del ritorno glorioso di Cristo. Soltanto il Padre ne conosce l’ora e il giorno, egli solo decide circa la sua venuta. Per mezzo del suo Figlio Gesù pronunzierà allora la sua parola definitiva su tutta la storia” (n.1040). Le letture bibliche odierne ci invitano ad approfondire alcuni aspetti di queste ultime realtà.

 

Il brano del libro di Daniele, proposto come prima lettura, è uno dei testi più caratteristici dell’Antico Testamento sul tema della retribuzione finale: la salvezza verrà data in modo pieno e definitivo a quanti hanno operato il bene. Il brano evangelico descrive il ritorno del Figlio dell’uomo alla fine dei tempi che verrà a “radunare i suoi eletti”. Siamo invitati a vegliare ed essere pronti (cf. canto al vangelo) perché “quanto a quel giorno o a quell'ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre”. Queste misteriose parole, con cui si conclude il brano evangelico odierno, danno una vigorosa lezione ai profeti di sventura intenti a determinare la fine del mondo. Chi ha fede e fiducia, non ha bisogno di fare questi calcoli.

 

Ascoltando le parole con cui Gesù descrive la fine dei tempi, siamo talvolta presi dallo spavento. Notiamo però che il linguaggio usato dal Vangelo, chiamato linguaggio apocalittico, proprio della tradizione ebraica, in fondo è un linguaggio che viene adoperato per rivelare (apocalisse significa “rivelazione”) il senso della storia e il destino dell’uomo. Dio ha su di noi “progetti di pace e non di sventura” (antifona d’ingresso - Ger 29,11.12.14). La seconda lettura apre il cuore alla fiducia in Cristo, nostro giudice, il quale sta alla destra di Dio, ma ha offerto se stesso per il perdono dei nostri peccati. Il perdono acquistato con il sangue di Cristo è sempre più grande di tutte le nostre infedeltà. Ciò che all’esterno appare come catastrofe e rovina in verità è il compimento della salvezza. Questo mondo va verso una fine, verso quel “giorno del Signore” già invocato dai credenti di Israele, giorno di salvezza e di giudizio. E ciò avviene per un preciso disegno di Dio che è Signore della storia e del tempo.

 

Chi prende sul serio l’incertezza e caducità di ogni cosa terrena, si apre al dono della salvezza. Ma il pensiero della morte, della fine della nostra esistenza terrena non ci deve indurre ad un atteggiamento di disimpegno nei confronti della vita presente. Il servizio fedele e responsabile prepara “il frutto di un’eternità beata” (orazione sulle offerte). Il futuro, quindi, appartiene anche alle nostre mani, e ogni carenza di impegno diventa anche carenza di salvezza. Vivere l’attesa del Signore significa vivere in stato di conversione.

 

         

domenica 7 novembre 2021

LA CELEBRAZIONE LITURGICA FA LA CHIESA

 



 

Pierangelo Sequeri, Gloria della liturgia forza del credere. La celebrazione è la forma della Chiesa: non si tratta di nutrire nostalgie ma di restituire incanto e bellezza a quel “luogo” che apre il “tempo”, in “Luoghi dell’infinito”, ottobre 2021, 26-30.

 

Di questo interessante articolo del Prof. Sequeri, offro in seguito ciò che sembra essere lo schema fondamentale e minimo del suo discorso. Raccomando la lettura del testo intero.

 

Il Professore inizia affermando: “La celebrazione liturgica, prima ancora di ‘comunicare’ una forma di Chiesa, la ‘fa’. La imprime e la esprime nel suo stesso esercizio”. Il mistero accade nonostante la nostra pochezza, che spesso riduce il rito a mesta incombenza disciplinare o a fantasiosa animazione dopolavoristica. Il passaggio alla contemporaneità dell’ethos che deve ospitare e confermare la bellezza di una celebrazione cristiana eloquente, nell’habitat della città secolare, non è ancora avvenuto. Non si tratta di espedienti per “animare” la liturgia, spesso così “creativi” da configurare una ritualità parallela a quella prevista.

 

L’appello all’incanto perduto del rito sacro, anche se erroneamente fissato sul blocco della tradizione preconciliare e sull’uso della lingua latina, ha qualche ragione. La traduzione e l’aggiornamento che ci mancano riguardano la pratica mistagogica del rito. Troppo lunga è stata la sottovalutazione dell’estetico (il rito); troppo precipitosa appare la sua conciliazione. Manca la sapienza fine di un’estetica dell’intensità – non dell’animazione – della scena liturgica, della memoria biblica, della fantasia ecclesiale.

 

venerdì 5 novembre 2021

DOMENICA XXXII DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 7 Novembre 2021

 



1Re 17,10-16; Sal 145; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44

 

È donando dalla nostra povertà che noi diventiamo veramente ricchi davanti a Dio. In sintesi, è questo il messaggio che sembra emergere dalle letture bibliche. La prima lettura e il brano evangelico parlano della generosità di due povere vedove. La povera vedova di Zarepta, che aiuta il profeta Elia e la vedova lodata da Gesù perché i pochi spiccioli gettati nella cassetta delle offerte del Tempio rappresentano tutto quanto essa ha per vivere. Malgrado la loro povertà le due donne che la parola di Dio ci presenta trovano ancora qualcosa da dare: la prima accetta di condividere il poco che ha con uno straniero, mentre lei e suo figlio sono sulla soglia della morte; l’altra, in un atto di omaggio a Dio e di adorazione, dà il denaro di cui aveva bisogno per vivere. Ambedue si rivelano adorne delle qualità che devono caratterizzare la figura del discepolo di Cristo: disponibilità ad accogliere la parola di Dio, abbandono incondizionato al suo volere, prontezza a donare e a perdere anche la vita. L’offerta povera di queste donne è offerta amorosa e totale della vita.

 

Soffermiamoci brevemente sulla scena evangelica. Nel cortile del Tempio, al quale avevano accesso anche le donne, erano allineate tredici ceste, in cui venivano gettate le offerte. Ci sono molti ricchi che fanno laute offerte, di cui il sacerdote ripete ad alta voce l’entità, suscitando l’ammirazione dei presenti. E c’è una povera vedova che offre pochi spiccioli e non suscita nessun mormorio di ammirazione. Gesù però la scorge e richiama l’attenzione dei discepoli contrapponendo la condotta della vedova alla vanità, ambizioni e privilegi degli scribi, che erano i maestri della legge dell’Antico Testamento, e alla ostentazione vanitosa di tanti ricchi che gettavano molte monete nella cassetta delle offerte. Questi, dice Gesù, danno del loro superfluo, mentre invece la povera vedova dà tutto quanto possiede. A partire dalle azioni più semplici e quotidiane Gesù sa leggere l’intenzione profonda del cuore; egli giudica non secondo le apparenze ma in verità, poiché è capace di vedere in profondità ciò che tutti vedono, grazie ad uno sguardo diverso sulla realtà, uno sguardo secondo il sentire di Dio. A parte la sete di potere e di arrivismo che ovunque regna, bisognerebbe vedere fino a che punto noi cristiani siamo capaci di gesti generosi di ospitalità e di partecipazione alle sofferenze dei nostri simili. Dio non ci chiede il nostro denaro, ma chiede la nostra persona, e cioè la nostra disponibilità a donarsi per il bene degli altri.

 

Il vero dono non è dono di qualcosa, ma simbolizza il dono di sé, il dono della vita. In questo contesto, possiamo collocare l’esempio supremo di Cristo di cui parla la seconda lettura. E, il gli ci rende partecipi della sua vita divina offrendo se stesso: “Cristo si è offerto una volta per tutte per togliere i peccati di molti”. È donando noi stessi che ciascuno di noi partecipa veramente al dono della salvezza che Gesù ci offre. Il senso dell’eucaristia è questo: l’innesto sempre nuovo della nostra vita dentro all'unico e perfetto sacrificio di Cristo.

 

martedì 2 novembre 2021

I PARAMENTI LITURGICI. QUALE COMUNICAZIONE?

 



 

I paramenti liturgici sono aperti a sempre nuove interpretazioni e devono essere letti oggi in conformità con il contesto nuovo della liturgia comunitaria, che il Concilio ha delineato programmaticamente, ma che non è ancora praticata con tutta la coerenza necessaria. I paramenti liturgici di oggi sono paramenti con una lunga tradizione storica. Il materiale, in parte il taglio, più raramente la decorazione, sono rimasti gli stessi per lunghi periodi di tempo.

 

Ma l'interpretazione continua a svilupparsi. I paramenti vengono reinterpretati continuamente in contesti liturgici ed ecclesiastici che mutano, assicurando così la loro pertinenza rispetto alla liturgia, per l'autocomprensione e l'attribuzione del ruolo ecclesiastico al prete e agli altri soggetti, per la comprensione della liturgia da parte dei fedeli, sempre che non si tratti di puro anacronismo.

 

L'ermeneutica scaturisce dalla liturgia (e dalla teologia liturgica) di ogni tempo. Il paradigma ermeneutico del presente è la liturgia vissuta da tutti i battezzati. Questo deve essere sottolineato al massimo nell'attuale crisi della Chiesa. Questo tratto di teologia battesimale della comunione liturgica deve caratterizzare in modo fondamentale e sempre di più ogni azione liturgica

 

È, per così dire, il di DNA della liturgia cattolica di oggi. Nulla nella liturgia è mera esteriorità o semplice accessorio. L'estetica della liturgia non è qualcosa di secondario. Il modo in cui si celebra rivela che cosa si sta celebrando. E mostra chi sta celebrando e con quale comprensione di sé. I paramenti liturgici devono quindi essere compresi coerentemente in termini di liturgia celebrata comunitariamente. In questo modo possono assumere un nuovo significato o almeno una variazione di significato.

 

In passato la veste serviva soprattutto all'identità del clero, mentre oggi il suo significato per l'assemblea viene considerato ancora troppo poco.

 

Fonte: Gregor Maria Hoff, Julia Knop, Benedikt Kranemann, Il potere del sacro, in “Il Regno”, n. 14 Attualità (2021), 471. Meritano una lettura tutte le pagine dedicate al tema (469-471).

 

lunedì 1 novembre 2021

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI – 2 Novembre 2021

 



3° formulario di Messa

 

Sap 3,1-9; Sal 41-42; Ap 21,1-5a.6b-7; Mt 5,1-12a

 

Il Giorno dei fedeli defunti è anzitutto un giorno di speranza! Il brano del libro della Sapienza della prima lettura apre il nostro cuore alla speranza: le anime dei giusti sono “nelle mani di Dio” e “nella pace”. Anche la seconda lettura contiene un messaggio di speranza: a partire dall’esperienza del cammino percorso dal popolo d’Israele nel deserto prima di arrivare alla terra promessa, Giovanni annuncia che Dio “asciugherà ogni lacrima” e abiterà con noi per sempre. Pure il brano evangelico si chiude con parole che invitano alla fiducia, parole pronunciate dallo stesso Gesù alla fine del discorso sulle Beatitudini: “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”.

 

“Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento li toccherà”. Le mani sono come il prolungamento della realtà più intima dell’essere umano. Rappresentano una mirabile fusione del corpo e dello spirito. L’immagine delle “mani” è particolarmente adatta ad esprimere quanto grande sia l’amore con cui Dio ci circonda. Quando la Bibbia intende dare un simbolo al potere creatore di Dio, alle sue imprese di salvezza o alla sua vicinanza di Padre, ricorre spesso all’immagine delle mani. La mano è quindi simbolo del potere e dell’azione, ma anche della misericordia e dell’amicizia di Dio: “Ho teso la mano ogni giorno a un popolo ribelle” (Is 65,2), dice il Signore per bocca del profeta Isaia.

 

Il brano dell’Apocalisse che abbiamo ascoltato appartiene all’ultima parte o ultima visione del libro, che ha come tema di fondo il rinnovamento messianico dell’intera creazione, giunto ormai alla sua piena realizzazione. Ecco perché l’insistenza sul termine “nuovo” e sul fatto che ciò che era prima, col suo retaggio di male e di sofferenza, è ormai superato “perché le cose di prima sono passate”, e che le forze del male sono vinte definitivamente. Si parla della Gerusalemme futura, simbolo di un’umanità nuova, il traguardo a cui Dio vuol condurre la sua opera di salvezza. Gerusalemme è descritta con le due immagini della città e della sposa. La città degli eletti, contrariamente a quella di Babilonia, è un dono di Dio, che scende dal cielo, pronta come una sposa nel giorno delle nozze definitive col Creatore. Quel giorno l’amore, finalmente palese e condiviso, cancellerà ogni amarezza dal volto degli eletti. La terra e il mare, poi, simboli della schiavitù degli Ebrei in Egitto, lasceranno il posto alla terra promessa.

 

Nella lettura evangelica abbiamo ascoltato il discorso delle Beatitudini, cuore del messaggio neotestamentario. Gesù sale sulla montagna e pronuncia il discorso circondato dai dodici apostoli e dalle folle: si tratta di una folla venuta da ogni dove, persino dalla Decapoli e da oltre il Giordano. Si tratta quindi di un discorso rivolto a tutti, non solo ai dodici e non solo al popolo giudaico, ma a tutti. Questa pagina evangelica riassume l’oggetto totale della speranza cristiana di fronte alla morte. Gesù però non parla solo di un futuro lontano. Per i profeti le beatitudini erano al futuro, una speranza. Per Gesù sono al presente: “oggi” i poveri sono beati. I destinatari dell’augurio sono quindi già ora “beati”, sono cioè nella situazione giusta, nella corretta apertura a Dio. Resta vero in ogni caso che si tratta di un messaggio che si attua in pienezza solo se rimane aperto sull’eternità. Le Beatitudini sono la scommessa che il vero discepolo di Gesù fa su una “nuova umanità”, resa possibile non dai soli sforzi umani, ma dal Dio che ha scelto di stare dalla parte dei poveri, dei miti, dei giusti, di coloro che soffrono per il bene e per la pace.