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domenica 27 novembre 2022

I LUOGHI DELLA CELEBRAZIONE

 



Diego Giovanni Ravelli, La Domus Ecclesiae. I luoghi della celebrazione, San Paolo, Cinisello Balsamo 2022. 271 pp. (€ 20.00).

Nella Domus Ecclesiae sono distribuiti con sapienza e armonia i luoghi della celebrazione dell’Eucaristia e dei sacramenti: l’altare, l’ambone, la sede presidenziale, il battistero e il fonte battesimale, la custodia eucaristica, il portale, il luogo della riconciliazione.

Molto probabilmente sono spazi da noi abitualmente frequentati e ben conosciuti nelle dinamiche celebrative. Tuttavia, sembra che oltre alla loro funzionalità non ci dicano più nulla: rimangono per noi spazi “insignificanti”. Romano Guardini, nel suo famoso e prezioso libretto I santi segni, fa un’amara constatazione: “Viviamo in un mondo di segni, ma la realtà che essi significano l’abbiamo perduta”. Sappiamo forse bene a cosa servono e a quale funzione sono destinati, ma non ci dicono altro. Rimangono segni muti, ingrigiti dall’abitudine e di cui abbiamo perso quel ricco senso intrinseco da essi significato.

Il percorso di questo libro si propone come una via mistagogica che ci introduce nei luoghi liturgici dell’edificio cultuale, arricchiti dall’arte e dal genio umano, per interrogarli e riscoprirli come “segni” che, ancora prima del loro compito funzionale, ci “parlano” – come direbbe proprio Guardini – con la loro stessa presenza, attraverso un linguaggio simbolico che, senza servirsi della parola, sa arrivare alla mente e al cuore del credente.

(Quarta di copertina)

1. Varcare il portale della chiesa.

2. L’ambone, luogo dell’annuncio della Parola.

3. Il battistero e il fonte battesimale, luogo e memoria della rinascita dall’acqua e dallo Spirito Santo.

4. L’altare, segno visibile del mistero di Cristo e mensa sacrificale del convito pasquale.

5. Una custodia per l’Eucaristia.

6. La sede della presidenza liturgica.

7. Un luogo per celebrare la Penitenza e la Riconciliazione.

  

 

venerdì 25 novembre 2022

DOMENICA I DI AVVENTO (A) – 27 Novembre 2022

 



 

 

Is 2,1-5; Sal 121; Rm 13,11-14a; Mt 24,37-44

 

In questa domenica I di Avvento, ricordiamo che noi tutti siamo in cammino verso la Gerusalemme celeste e ne esprimiamo la gioia quando diciamo col salmista: “Quale gioia, quando mi dissero: «andremo alla casa del Signore»” (salmo responsoriale). All’inizio dell’Anno liturgico siamo invitati a riprendere con rinnovato coraggio il nostro cammino verso la patria del cielo, in un gioioso contesto di comunione e di pace, ma anche in attesa vigilante del Signore che viene.

 

L’Avvento ricorda le due venute del Signore e le mette in intimo rapporto, la prima nel mistero della incarnazione e la seconda alla fine dei tempi: “Al suo primo avvento nell’umiltà della condizione umana egli portò a compimento la promessa antica, e ci aprì la via dell’eterna salvezza. Quando verrà di nuovo nello splendore della gloria, ci chiamerà a possedere il regno promesso che ora osiamo sperare vigilanti nell’attesa” (prefazio dell’Avvento I). Questa I domenica è tutta quanta incentrata sulla venuta del Signore alla fine dei tempi, alla quale siamo invitati a prepararci. Quando facciamo delle scelte nella vita di ogni giorno, le facciamo avendo davanti l’immagine di un futuro che intendiamo raggiungere: economico, sociale, culturale, ecc. Oggi siamo invitati a farle guardando anche al futuro di Dio, di un Dio che è venuto, viene e verrà per noi.

 

Il brano evangelico raccoglie alcune parole di Gesù in cui egli afferma che l’incontro con lui alla fine del nostro pellegrinaggio terreno sarà improvviso e inatteso. Il testo evangelico è tutto focalizzato sull’incertezza del quando, che viene ripetuta tre volte: “vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà…”. Siamo invitati quindi a risvegliare in noi uno spirito vigilante. La vigilanza è la capacità di essere presenti a ciò che si vive. Non si tratta di una vigilanza passiva e inoperosa, ma attiva e dinamica; dobbiamo andare incontro al Cristo che viene e dobbiamo farlo “con le buone opere” (colletta). Tutta la vita deve essere una preparazione prolungata e fedele ad accogliere Cristo che viene. Un messaggio simile lo troviamo nella prima lettura, in cui il profeta ci esorta a percorrere il nostro cammino “nella luce del Signore”. Nella lettura apostolica, san Paolo, riprendendo il simbolismo della luce e, dopo aver ricordato che siamo nella notte in attesa dell’alba luminosa dell’avvento di Cristo, ci invita a svegliarci perché il giorno della salvezza è vicino. In questo contesto, l’Apostolo aggiunge che dobbiamo gettare via le “opere delle tenebre” e comportarci “come in pieno giorno”. Il futuro verso il quale camminiamo deve innestare nel presente la tensione per l’impegno nei valori che, vissuti nel presente, conducono al possesso di quelli futuri e definitivi. Ogni attimo della nostra vita è impastato di eternità. Perdere la memoria del futuro equivale ad appiattire il presente. Il cristiano essendo un uomo di memoria, è un uomo di attesa. La nostra esistenza di credenti è destinata a svolgersi, come è naturale, in seno alla storia concreta degli uomini ma allo stesso tempo è chiamata a far lievitare la storia con la novità della speranza, cioè con la fede nel progetto di salvezza che Dio compie nella storia.

 

La partecipazione all’eucaristia è “pegno della redenzione eterna” (orazione sulle offerte), ci sostiene nel nostro cammino e ci guida ai beni eterni (cf. orazione dopo la comunione).

domenica 20 novembre 2022

ALMA REDEMPTORIS MATER

 



 

"O santa Madre del Redentore, porta dei cieli, stella del mare, soccorri il tuo popolo che anela a risorgere. Tu che accogliendo il saluto dell’angelo, nello stupore di tutto il creato, hai generato il tuo Creatore, madre sempre vergine, pietà di noi peccatori".

È considerato probabile autore di questa antifona, così come della Salve, Regina, Hermann der Lahme (1013-1054) (in latino, Hermannus Contractus), cronista tedesco, monaco dell'abbazia benedettina di Reichenau. Compose, oltre a vari scritti di matematica, astronomia e teoria musicale, una Cronaca Universale.  L'antifona riprende temi e titoli mariani dal più antico inno Ave, maris stella (IX secolo).  Nel XII secolo fu cantata come antifona dell’Ora sesta nella festa dell'Assunzione della Vergine Maria.

Il testo elogia l'eccellenza della Madre del Redentore, illustrata con due titoli: "porta dei cieli" e "stella del mare" (simboli poetici popolari nel XII secolo), e invoca la sua intercessione: "soccorri il tuo popolo che anela a risorgere". Maria, avendo accolto con fede le parole dell'angelo, ha generato – "nello stupore di tutto il creato" – il Creatore e di conseguenza, rimanendo sempre vergine, è fonte di misericordia per tutti noi peccatori. Per la memoria dell'annuncio dell'angelo e della divina maternità della Vergine, l'antifona viene solitamente cantata preferibilmente nel tempo di Avvento e Natale.

La Vergine Maria è chiamata "la porta dei cieli". La porta che ci introduce nello spazio divino è Cristo (cfr. Gv 10,7). Con la metafora della porta (porta, ostium, ianua, limen), i Padri della Chiesa indicano anche Maria Santissima, evidenziando il suo ruolo di nuova Eva. Tra gli autori medievali, possiamo citare alla fine del IX secolo, Milón de Saint-Amand (809-872), monaco, autore di una Vita Sancti Amandi e di un Carmen de sobrietate, antologia di esempi tratti dalla Bibbia. In quest'ultima opera, l'autore invoca Maria con queste parole: "Tu portas paradisi aperis quas clauserat Eva...” Per quanto riguarda la tipologia Eva-Maria, il Medioevo riflette una lunga tradizione che ritroviamo già nel II secolo: per la prima volta in Giustino e con maggior peso teologico in Ireneo di Lione. Il nodo della disobbedienza di Eva ha trovato una soluzione grazie all'obbedienza di Maria. Ciò che Eva aveva legato con la sua incredulità, Maria lo ha sciolto con la sua fede obbediente.

La terza edizione tipica del Missale Romanum di Paolo VI ha aggiunto una nuova antifona, proveniente dall'ambiente della liturgia bizantina. Si canta in processione con i ceri nella festa della Presentazione del Signore; il testo inizia con queste parole: "Adorna thalamum tuum, Sion, et suscipe Regem Christum: amplectere Mariam, quae est caelestis porta: ipsa enim portat Regem gloriae novi hominis..." È l'unica volta che troviamo nel Missale Romanum il titolo mariano di "porta dei cieli" in un contesto che manifesta il carattere cristologico della festa.  Papa Francesco, all'Angelus della Solennità dell’Assunta, il 15 agosto 2019, si è rivolto ai fedeli con queste parole: "... Maria è assunta in cielo: piccola e umile, è la prima a ricevere la gloria più alta. Lei, che è una creatura umana, una di noi, raggiunge l'eternità nel corpo e nell'anima. E lì ci aspetta, come una madre aspetta che i suoi figli tornino a casa. Infatti, il popolo di Dio la invoca come 'porta del cielo'..."

L'origine del titolo "stella del mare", dato alla Vergine Maria, si ispira al brano di 1Re 18,41-45, che narra la fine della lunga siccità che il profeta Elia aveva annunciato. Il servo del profeta intravede, dalla cima del Monte Carmelo, una piccola nuvola che si alza dal mare e promette pioggia. Su questa base, San Girolamo, Sant'Isidoro di Siviglia, Alcuino, Rabano Mauro e molti altri hanno promosso l'uso di questo titolo mariano. La nuvoletta apparsa sul Monte Carmelo è stata considerata un annuncio di Maria. Quella piccola nuvola, contemplata da Elia come presagio della benedizione della pioggia, è stata vista come presagio della presenza benefica di Maria. Lei, la piccola "serva del Signore" (cfr. Lc 1,38), piccola e feconda come la piccola nuvola del Carmelo, con la sua fede e la sua disponibilità al progetto salvifico di Dio, ha rappresentato per l'umanità un nuovo inizio nella storia della salvezza. Da sempre scelta da Dio, ci ha donato il Verbo eterno fatto carne, pieno di grazia e di verità (cfr. Gv 1,14). 

Nelle Litanie della Vergine o "lauretane" troviamo la invocazione porta del cielo; per quanto riguarda il secondo titolo mariano analizzato, le Litanie contengono un titolo simile: stella del mattino. Nella Collectio Missaarum di B.M.V., pubblicata nel 1986, il formulario della Messa n. 46, l'ultimo del Tempo Ordinario e dell'intera Collectio, è dedicato alla Beata Maria Virgo, ianua caeli.

 

Fonte: Matias Augé, Análisis de algunas antífonas marianas, in  Ephemerides Mariologicae 72 (2022) 295-305 [qui 297-299]. Nella traduzione abbiamo ommesso le note.

sabato 19 novembre 2022

DOMENICA XXXIV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 20 Novembre 2022 NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

 


 

2Sam 5,1-3; Sal 121; Col 1,12-20; Lc 23,35-43

 

L’anno liturgico si chiude con questa domenica, dedicata a Cristo re dell’universo, chiave di lettura del mondo e della storia. In concreto, la solennità odierna propone la regalità di Cristo nella sua luce biblica e non in quella sociologica. Bisogna quindi evitare le ambiguità che hanno talvolta caratterizzato questa festa in un passato non lontano. Il dominio regale di Cristo si esercita sull’universo e sugli individui piuttosto che sulle società. Infatti, le letture bibliche insistono sull’aspetto escatologico, e cioè ultraterreno e spirituale della regalità di Cristo. “Il Regno non si compirà attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 677).

 

La prima lettura narra l’unzione di Davide consacrato a re d’Israele. La figura di Davide prefigura quella di Cristo, l’Unto per eccellenza (cf I Vespri, ant. Al Magn.). La dimensione universale e cosmica della regalità di Cristo è celebrata in modo particolare nell’inno della Lettera ai Colossesi che ci viene proposto come seconda lettura: “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui [Cristo] e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono”. Tra l’inno paolino e la descrizione della crocifissione di Gesù corre un abisso, a prima vista inconciliabile. Infatti, il brano del vangelo ci ricorda che Gesù esercita il suo dominio non tramite la forza, ma nella debolezza della croce. Il potere che Cristo rivendica sull’uomo non è di mondana potenza, ma proposta di valori liberanti, ai quali chiede un’adesione libera e personale promettendo a colui che li accoglie, come al buon ladrone del vangelo, la partecipazione al suo regno: “oggi con me sarai nel paradiso”.

 

Il regno di Cristo si stabilisce in “ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato” (colletta). Se vogliamo quindi che Cristo re eserciti il suo potere sul mondo, dobbiamo anzitutto far sì che il suo regno si stabilisca dentro di noi, nelle profondità del nostro essere, da dove prende origine la nostra espressione, la nostra parola, le nostre opere e il nostro dinamismo interiore. Cristo regna nei nostri cuori quando “viviamo secondo la verità nella carità e cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di Cristo” (Lodi mattutine, lettura breve: Ef 4,15).

 

La celebrazione eucaristica anticipa in noi i doni del regno di Dio. Già nell’Antico Testamento la comunione tra Dio egli uomini, che caratterizzava l’avvento definitivo del Messia e del suo regno, viene rappresentata con l’immagine di un banchetto sacro al quale il Dio di Israele inviterà tutti i popoli (Is 25,6-10). Questa immagine è ripresa anche dal vangelo nella parabola del banchetto nuziale (Mt 22,1-4; Lc 14,16-24) e delle dieci vergini (Mt 25,1-13; Lc 12,35-38).

domenica 13 novembre 2022

L’ARTE NELLA LITURGIA

 



 

 

L’arte nella liturgia. “Arte” e “liturgia” sono due parole che, nella celebrazione cultuale, costituiscono un’unica realtà. Quindi più che parlare dell’arte nella liturgia, si dovrebbe parlare della liturgia come un’opera d’arte. E quando parliamo di liturgia parliamo dell’“opera di Dio” (opus Dei) celebrata dal suo popolo. La liturgia è quindi anzitutto un’opera compiuta da Dio. Perciò Benedetto XVI ha potuto affermare che “la bellezza non è un fattore decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione” (Benedetto XVI, Sacramentum caritatis 35).  Ma la liturgia è opera di Dio in favore del suo popolo, il quale “risponde a Dio con il canto e la preghiera” (Costituzione Sacrosanctum Concilium 33). Possiamo affermare che l’arte, che è bellezza, comporta armonia. In musica, armonia indica accordo di voci e di suoni. Nella celebrazione liturgica la prima armonia è quella che si stabilisce tra l’azione di Dio e la risposta dell’assemblea celebrante. La superficialità, e talvolta perfino la banalità, addirittura la negligenza di alcune celebrazioni liturgiche distruggono questa armonia e conseguentemente minimizzano la funzione principale della liturgia: introdurci con tutto il nostro essere in un mistero che ci supera totalmente.    

Luogo proprio di riunione del popolo di Dio per le celebrazioni liturgiche, in particolare per l’Eucaristia, è l’edificio chiesa. Nella costruzione e adeguamento delle chiese, i principi artistici devono essere salvaguardati, ma vanno salvaguardate anche le esigenze del mistero in esse celebrato. Anticamente il luogo di culto era chiamato “domus ecclesiae”, cioè casa della chiesa o dell’assemblea comunitaria. Questa casa, quindi, deve costruirsi e organizzarsi in modo che rispecchi il mistero della chiesa che ivi celebra. Naturalmente, la chiesa è anche la casa del Signore: “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20), ha detto Gesù. La chiesa, quindi, non dovrebbe essere un’aula di scuola, né una sala di spettacolo, né un luogo per assemblee sindacali, né uno spazio polivalente. La chiesa è il luogo in cui la comunità cristiana si raduna per celebrare i misteri della sua fede. Ciò che importa quindi è che questo luogo esprima una relazione dinamica dei vari punti focali della celebrazione, incarnata in elementi diversi e in una loro armonizzazione coerente.

Ecco in brevissima sintesi le caratteristiche armoniche che dovrebbero avere questi diversi elementi nello spazio della celebrazione, che non è un semplice contenitore, ma un valore simbolico e iniziatico, cioè dice la fede della Chiesa e la comunica.

venerdì 11 novembre 2022

DOMENICA XXXIII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 13 Novembre 2022

 



 

 

Ml 3,19-20°; Sal 97; 2Ts 3,7-12; Lc 21,5-19

 

 

La fine del mondo e il giudizio universale, temi che ci propone oggi la parola di Dio, sono da considerarsi come un giorno di festa in cui Dio viene a stabilire definitivamente la giustizia. Dopo le severe parole di Gesù che abbiamo ascoltato nel vangelo, può sembrare fuori posto questa affermazione.

 

Invece questo giorno, che la Bibbia chiama “giorno del Signore”, è descritto dalla prima lettura come “un giorno rovente come un forno”, in cui Dio annienterà i superbi e gli ingiusti, ma salverà coloro che hanno timore del suo nome, e cioè quelli che servono Dio con fedeltà. Per questi “sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia” (cf anche I Vespri, ant. al Magn). Il vangelo raccoglie le parole di Gesù sulla fine del Tempio di Gerusalemme. E quando gli chiedono: “Signore, quando accadrà questo…?”, Gesù non risponde, ma prende l’occasione per portare l’attenzione dei suoi discepoli sugli ultimi tempi, di cui ne rivela l’incertezza del giorno e dell’ora. In attesa del compimento della vicenda terrena, ci viene dato come codice di comportamento l’esortazione di san Paolo ai cristiani di Tessalonica: in attesa del trionfo della giustizia, in attesa che il male sia vinto, l’Apostolo ci invita a vivere la nostra vita nella pace lavorando, cercando di non essere di peso agli altri, guadagnandoci così il nostro destino. Questa esortazione coincide con l’affermazione di Gesù che conclude il discorso sulla fine dei tempi con queste parole: “Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime” (II Vespri, ant. al Magn.).

 

La perseveranza è frutto della grazia, è frutto dello Spirito, ma è anche risposta coerente e quotidiana della nostra volontà al dono di Dio. La vita cristiana non è passiva attesa di doni che piovono dal cielo; è invece ricerca appassionata, impegno generoso che si traduce in un concreto sforzo per testimoniare la giustizia e la salvezza di Dio. In questo mondo siamo di passaggio. Tante volte invece le realtà terrene ci si offrono in tutta la loro forza seducente, in modo che non è facile mantenersene liberi. Il nostro sguardo deve rivolgersi verso quei beni che ci procurano “felicità piena e duratura” (colletta). A questo proposito, sant’Agostino dice che il cristiano deve “servirsi del mondo, non farsi schiavo del mondo” (Ufficio delle letture, 2a lettura). Dio ha progetti di pace su di noi, non progetti di sventura (cf ant. d’ingresso, Ger 29,11). Infatti, dopo le severe parole di Gesù, abbiamo ascoltato che egli afferma: “Nemmeno un capello del vostro capo perirà”. Pertanto, il linguaggio immaginoso che usa la Scrittura per descrivere il giorno finale non deve incutere paura. Non serve vivere in attesa ansiosa e oziosa del futuro. L’attesa cristiana si chiama speranza, la quale non è né ansiosa né oziosa ma attiva. La vita è amministrazione di un dono che ci è stato -affidato, quindi è responsabilità. Bisogna prendere sul serio il tempo presente. Siamo chiamati non all’evasione dal mondo, ma a costruire qui e ora le premesse che preparano l’avvento definitivo del regno di Dio.

 

Il Signore che verrà alla fine dei tempi come giudice è realmente presente nell’Eucaristia sotto gli umili segni sacramentali del pane e del vino. Nell’Eucaristia quindi è racchiusa e già in atto la beata speranza che alimenta l’attesa e il desiderio della Chiesa e di ogni credente nel ritorno del Signore. Perciò possiamo gridare ai quattro venti con gli antichi cristiani: “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20).

 

 

domenica 6 novembre 2022

PERCHÉ LA LITURGIA È BELLA?

 



 

Il bello sensibile prodotto dalla creatività dell'uomo è al servizio della gloria di Dio e dell'incontro salvifico con Dio che i battezzati sono chiamati a vivere. La liturgia ha bisogno della bellezza non come una sovrastruttura ornamentale ma per sua intrinseca natura, perché l'“oggetto” stesso che celebra - il mistero di Dio che ha il suo culmine nella Pasqua di Cristo - è splendore di bellezza.

Come canta un antico inno “ci ha raccolti in unità l'amore di Cristo”: ecco ciò che conferisce alla liturgia la sua dimensione estetica. Dio è amore (1 Gv 4,8): questa è la vera bellezza divina. Ogni liturgia attualizza questa storia d'amore con Dio per l'umanità. Più che da quello che ci inventiamo, la bellezza della liturgia scaturisce dall’iniziativa divina, che spazza via tutte le nostre mediocrità e ci predispone, gli uni accanto agli altri, in vista di un fine che ci supera. La bellezza nella liturgia non è qualcosa di statico ma di dinamico, vivente: è Dio stesso presente. La liturgia è il luogo dove la preghiera dà spazio all’irrompere della bellezza e grandezza di Dio.

Per estensione la liturgia e splendore di bellezza anche nei “santi segni” della sua ritualità: è bellezza nei canti, nella musica, nell’arte e nell'architettura sacra, nell'icone, nell'arredo e nelle vesti liturgiche, nella stessa arte di celebrare.

 

Fonte: Loris Maria Tomassini, Nel segno della bellezza. Bellezza, liturgia e sensi spirituali, Cittadella 2022, pp. 53-54.

venerdì 4 novembre 2022

DOMENICA XXXII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 6 Novembre 2022

 



 

2Mac 7,1-2.9-14; Sal 16; 2Ts 2,16-3,5; Lc 20,27-38

 

Il Sal 16 si presenta in forma di preghiera o supplica di un giusto falsamente accusato, il quale al tempo stesso che protesta la propria innocenza si dichiara sicuro e fiducioso di essere ammesso alla presenza di Dio nel tempio. Per noi cristiani, da questo testo emergono due certezze: Dio ci difende, anzi ci protegge all’ombra delle sue ali; superati i disagi del nostro pellegrinaggio, incontreremo il volto radioso di Dio e ci sazieremo della sua presenza. Quest’ultima verità è quella che il ritornello del salmo responsoriale mette in evidenza. 

 

La prima lettura, tratta dal secondo libro dei Maccabei, ci riporta alcuni tratti dell’epico racconto del martirio dei “sette fratelli”, detti appunto Maccabei; sette fratelli che, con la loro madre, vanno con fierezza incontro al martirio, per non rinnegare la propria fede, nella certezza che Dio li “risusciterà a vita nuova ed eterna”. E’ la prima volta che nella tradizione biblica dell’Antico Testamento appare in maniera esplicita la credenza nella “risurrezione dei morti”. Nel brano evangelico vediamo che Gesù in polemica con i sadducei, che non credevano alla risurrezione, afferma, facendo riferimento a Mosè, che “Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui”. Il fatto che Dio si presenta a Mosè nel roveto ardente come il “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe” (Es 3,6), vuol dire che nel momento stesso che egli parla si sente in rapporto “vitale” coi Patriarchi morti ormai da centinaia di anni. La seconda lettura contempla il disegno di Dio su di noi: all’origine della nostra vita c’è l’amore con cui Dio gratuitamente ci ha amato; al suo traguardo c’è il compimento della speranza che Dio ha posto nei nostri cuori; nel momento presente c’è il conforto con cui egli ci rende stabili “in ogni opera e parola di bene”. Il futuro appartiene alla vita, perché Dio è fedele ai doni fatti e ci libera da tutte le potenze del male e della morte. La vita oltre la vita esiste!

 

In queste ultime domeniche dell’anno liturgico siamo invitati a dare uno sguardo fiducioso alle ultime e misteriose realtà che ci attendono alla fine della nostra esistenza terrena. Andiamo incontro ad una vita nuova e definitiva, che sarà il superamento di tutto ciò che oggi ci limita, ci condiziona e ci opprime. Questa vita è una vita trasformata per la forza dello Spirito Santo, ed è partecipazione alla vita stessa di Cristo, “il quale è morto per noi, perché viviamo insieme con lui” (Ufficio delle letture, responsorio). Tra la situazione attuale in cui ci troviamo e lo stato di risorti che attendiamo si compia in noi, c’è continuità ma anche radicale diversità. Ora siamo in cammino verso i beni futuri (cf colletta). La nostra vita, quindi, non è allo sbaraglio, ma è orientata verso un traguardo ben definito.

 

L’eucaristia è nutrimento del nostro pellegrinaggio e pegno della vita futura. Gesù lo ha detto chiaramente nel discorso pronunciato nella sinagoga di Cafàrnao: “Chi mangia questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,58). Infatti, l’effetto proprio dell’eucaristia è la mutazione dell’uomo in Cristo per cui possiamo dire con san Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Questa reciproca immanenza ci fa camminare ancora sulla terra, ma già abbracciati e in comunione con Cristo, che ha detto: “Io sono la risurrezione e la vita” (Gv 11,25). Dice il Vaticano II che Cristo “col nutrimento del proprio corpo e del proprio sangue”, ci rende “partecipi della sua vita gloriosa” (Lumen Gentium, n.48). Nell’ora del nostro passaggio da questa vita riceviamo questo sacramento come viatico per la vita eterna e pegno della risurrezione.