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venerdì 26 aprile 2024

DOMENICA V DI PASQUA (B) – 28 Aprile 2024

 



 

At 9,26-31; Sal 21; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8

 

 

La Pasqua è un evento paradigmatico, simbolo di vita, di vita ritrovata, di vita piena, quella di Gesù e quella nostra. Il brano evangelico d’oggi ci ricorda che la fecondità della nostra vita dipende dalla relazione vitale con il Signore. Gesù illustra questa verità con l’immagine della vite e dei tralci, immagine presente già nell’Antico Testamento. Gesù si presenta come la “vite vera”, di cui noi siamo i “tralci”. La condizione essenziale perché la nostra vita porti frutto è la comunione vitale con Gesù: “Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me”. Gesù si pone quindi come centro significativo della nostra vita e come condizione essenziale per una nostra vita significativa e feconda. Ma notiamo che occorre “rimanere” in lui: il verbo ricorre otto volte negli otto versetti dell’odierno brano evangelico.

 

San Giovanni ribadisce la stessa dottrina nella seconda lettura, quando afferma che il frutto fondamentale che specifica la morale pasquale è l’amore “con i fatti e nella verità”, e cioè mediante l’osservanza dei comandamenti, in particolare di quelli riguardanti la fede e l’amore fraterno: “Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e egli in lui”. La fede e l’amore sono i costitutivi essenziali della nostra realtà di cristiani, sono “il comandamento” per eccellenza, il frutto essenziale che il fedele, innestato in Cristo – vite vera, deve produrre. Un esempio concreto di questo rapporto vitale con Cristo l’abbiamo nella vita di san Paolo, che dopo la sua conversione, trasformato dall’incontro con Cristo, dà testimonianza coraggiosamente della sua fede nella città di Gerusalemme mettendo a repentaglio la propria vita per amore di Gesù (prima lettura).

 

La parola di Dio ci invita oggi a ritornare alle radici del nostro essere cristiano. Il successo della nostra vita è possibile solo se radicato in Cristo. Senza di lui non possiamo fare nulla, la nostra esistenza diventa sterile. Dietro l’immagine del tralcio secco e arido, perso ai bordi del campo, c’è il mistero del rifiuto che possiamo opporre alla vita e all’amore, c’è la vicenda del confronto tra la luce e le tenebre. Chi volesse rivendicare un’impossibile autonomia si troverebbe a fare i conti con la sua assoluta pochezza e sterilità. Contro una cultura antropocentrica, che rifiuta Dio e colloca l’uomo al centro di tutto, la Parola di Dio ci propone una vita ancorata in Cristo. Uniti a Cristo, la nostra vita porterà frutti abbondanti. Questa unione si rinsalda nell’ascolto della Parola e nella partecipazione all’Eucaristia, le due mense in cui si nutre la vita cristiana (cf. Dei Verbum, n.21). Si tratta di un frutto che riguarda sia la vicenda terrena che la vita eterna promessa a quelli che restano uniti vitalmente a Gesù.

 

domenica 21 aprile 2024

IL CORPO

 



“Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai suoi discepoli, disse: Prendete e mangiate: questo è i mio sôma” (Mt 26,26). Sulla scia di questa frase di Cristo ripetuta ogni volta dal sacerdote nella celebrazione eucaristica, proponiamo proprio quella parola greca che indica il “corpo” e che risuona 142 volte nel Nuovo Testamento. È evidente che nelle parole pronunciate da Gesù nel Cenacolo in quest’ultima sera della sua vita terrena, sôma à la sua stessa persona che si dona in un abbraccio di comunione col suo fedele attraverso il segno del pane e del vino.

Ora, a differenza della cultura greco classica – che pone una netta divisione e distinzione tra l’anima spirituale e il corpo materiale, simili a due poli che si respingono pur essendo forzosamente costretti a coesistere – la Bibbia considera l’essere umano come un’unità ove carne, vita, spirito, coscienza sono tra loro compatti. Per i semiti, infatti, noi siamo un corpo perché è in esso e con esso che viviamo e comunichiamo, mentre noi occidentali abbiamo un corpo che controlliamo, detestiamo oppure idolatriamo. In questa luce è comprensibile come sia rilevante la corporeità nelle pagine della Bibbia.

Come si diceva, essa in pratica coincide con la persona e non si ferma alla sola carnalità, segno di debolezza, fragilità e miseria, che pure è un aspetto del corpo. Il Cantico dei cantici non ha nessun imbarazzo nel celebrare la bellezza e l’eros dei corpi dei due innamorati (cc. 4; 5; 7). Così non ci deve stupire che già nell’Antico Testamento e in forma unica e altissima nel Nuovo il destino ultimo della creatura redenta sia la risurrezione dei corpi (Ez 37 e la Pasqua di Cristo e dei cristiani) e non tanto l’immortalità della sola anima. Similmente è significativo che l’attività pubblica di Cristo sia stata dominata oltre che dalla predicazione, dalla guarigione dei malati.

Il ministero pubblico di Gesù, attraverso i miracoli, si è concentrato per una metà proprio sul corpo umano per riportarlo al suo splendore. Inoltre, come si è detto, attraverso l’eucaristia, egli offrirà il suo corpo come cibo, creando così una comunione non genericamente spirituale ma personale, tra sé e il fedele, essendo – come si diceva – il corpo espressione della persona. Paolo concepirà, poi, nella Prima Lettera ai Corinzi, la Chiesa come corpo del Cristo risorto e ai Corinzi domanderà retoricamente: “Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo?” (6,19; 12,12-30).

Certo, nel nostro corpo c’è lo stigma della morte e la ferita del peccato. L’Apostolo usa, infatti, le espressioni “corpo di morte” e “corpo di peccato”. Ma con l’Incarnazione del Figlio di Dio, il nostro corpo mortale e peccatore è sepolto e viene fatto rinascere il “corpo spirituale”, cioè animato dallo stesso Spirito di Dio. “Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso” (Fil 3,21). Infatti, la meta a cui tendiamo, quella della risurrezione, è segnata già in noi attraverso l’anelito verso una salvezza piena dell’adozione a figli e della “redenzione del nostro corpo” (Rm 8,23).

Anche se è difficile definire come sarà il destino del nostro corpo glorioso nella creazione rinnovata (si leggano le argomentazioni paoline nel capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi), sappiamo che esso ha un destino di gloria. Per questo già fin d’ora dobbiamo consacrare a Dio i nostri corpi perché essi, espressione della nostra persona e della nostra esistenza, sono “il sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, il nostro culto spirituale (Rm 12,1).

 

Fonte: Gianfranco Ravasi, L’alfabeto di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023, pp. 283-285.

venerdì 19 aprile 2024

DOMENICA IV DI PASQUA (B) – 21 Aprile 2024

 



 

 

At 4,8-12; Sal 117; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18

 

Il brano evangelico presenta Gesù come buon pastore che spontaneamente offre la vita per le pecore, a differenza di tutti gli altri, semplici mercenari che badano soltanto nel loro egoismo a sé stessi. Per questo, san Pietro afferma in pieno sinedrio, dopo aver guarito lo storpio nel nome di Gesù Cristo, che “non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (prima lettura). Grazie a lui, aggiunge san Giovanni, siamo “chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente” (seconda lettura). Questa è la “buona notizia” che annuncia la Pasqua. Il contenuto di questa notizia lo possiamo esprimere con queste altre parole: Dio in Cristo viene incontro a noi per offrirci la sua amicizia, senza badare ai nostri meriti, alla nostra bontà o cattiveria. La morte di Gesù è un atto di amore e di libertà. Gesù è l’insuperabile manifestazione dell’assoluto amore di Dio per tutti gli uomini senza distinzioni, anche per quelli che non appartengono a “questo ovile”. La prospettiva universale dell’amore salvifico del Signore si estende a tutto il genere umano. Nell’Antico Testamento, Dio si esprime per bocca del profeta Osea con queste parole: “Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Os 11,8). Il cuore di Dio non cessa di ripeterci queste parole attraverso il cuore trafitto del Figlio.

 

Nel brano evangelico odierno, Gesù non si paragona solamente a “un” buon pastore, ma è “il” buon Pastore. Intrattiene con le sue pecore relazioni di conoscenza reciproca, fondate sull’amore che il Padre ha per loro come per lui. Poiché gli appartengono, si prende cura di loro e le difende coraggiosamente da ogni pericolo. Ha dato la sua vita per loro, per far sì che non vi sia più che un solo gregge, così come non vi è che un solo Pastore. Questo insieme di tratti rinviano al mistero pasquale che ne svela pienamente il significato. L’immagine del buon pastore forse dice poco a noi, figli di una società industriale e democratica; per alcuni anzi potrebbe risultare offensivo l’essere paragonati ad un “gregge”. Dobbiamo quindi soffermarci sulla sostanza sempre attuale tramandata dall’immagine del buon pastore, che è il dono della vita. Gesù ha come fondamentale obiettivo non la difesa della propria vita, ma quella degli altri; per la nostra redenzione ha impegnato tutto se stesso. Di conseguenza “gregge” e “pecore” non evocano assolutamente una folla di discepoli senza personalità, che seguono il loro pastore e gli obbediscono passivamente belando. Ognuno di noi è chiamato a diventare partecipe della realtà di Cristo nella misura in cui la sua vita diventa veramente dedita, offerta, data per gli altri. C’è più gioia nel dare che nel ricevere!

 

Nell’assemblea eucaristica, convocata e riunita dal buon Pastore che la presiede, Egli nutre con il suo corpo e il suo sangue coloro che hanno ascoltato la sua voce.

domenica 14 aprile 2024

ANNO LITURGICO ED EVANGELIZZAZIONE

 



 

La liturgia, celebrata nel corso dell’Anno liturgico, ha una speciale efficacia per alimentare la fede dei partecipanti. Certamente l’Anno liturgico non può essere strumentalizzato e trasformato in un “programma” di evangelizzazione fatto a tavolino, né in una prima catechesi di iniziazione cristiana, perché l’Anno liturgico è il luogo dove i fedeli già convertiti e credenti, celebriamo il mistero che nutre la nostra fede (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 9). In ogni modo, il ciclo annuale dei tempi e delle festività dell’Anno liturgico contiene in sé stesso una grande forza evangelizzatrice, e può diventare il luogo ideale di una permanente evangelizzazione del popolo di Dio. Infatti, quale scopo ha l’evangelizzazione? Nella prima Lettera ai Corinzi, san Paolo afferma che il Vangelo che egli ha annunciato ed i Corinzi hanno ricevuto è: “che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture…” (cf. 1Cor 15,1-5). Si tratta del mistero centrale della storia della nostra salvezza, che noi proclamiamo nel Credo.

Questa storia di salvezza è narrata dalla Bibbia e celebrata dalla liturgia. Quanto la Bibbia racconta dal Libro della Genesi a quello dell’Apocalisse, la liturgia lo ri-presenta lungo il cammino che dalla prima domenica di Avvento porta all’ultima domenica del Tempo Ordinario, e cioè l’unico piano salvifico di Dio. Nella Bibbia esso si svolge “con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto” (Dei Verbum [DV], n. 2). Secondo i modi ad esso propri l’Anno liturgico ri-narra questo cammino, lo interpreta e lo annuncia realizzato nel mistero di Cristo, “il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione” (DV, n. 2). L’Anno liturgico conferisce quindi un particolare realismo alla parola di Dio in quanto l’attesta compiuta nel nostro oggi: “La Chiesa, specialmente nei tempi di Avvento, di Quaresima e soprattutto nella notte di Pasqua, rilegge e rivive tutti i grandi eventi della storia della salvezza nel ‘oggi’ della sua liturgia” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.1095). Conseguentemente “l’evangelizzazione richiede la familiarità con la Parola di Dio” (Evangelii gaudium, n.175). Giustamente papa Francesco ha stabilito recentemente che la III Domenica del Tempo ordinario “sia dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio” (Aperuit illis, n.3). 

 

venerdì 12 aprile 2024

DOMENICA III DI PASQUA (B) – 14 Aprile 2024

 



 

At 3,13-15.17-19; Sal 4; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48

 

 

Il filo conduttore delle letture bibliche di questa terza domenica di Pasqua è l’invito a convertirsi per avere il perdono dei peccati. Giovanni Battista, i Precursore, iniziò la sua predicazione con l’invito alla conversione. Così pure Gesù diede inizio alla sua vita pubblica invitando tutti a convertirsi. Lo stesso fanno il Signore risorto e la prima comunità cristiana: intraprendono la loro attività col medesimo annuncio. Infatti, il tema della conversione risuona nelle tre letture di questa domenica: Gesù risorto appare ai discepoli, li istruisce e li manda a predicare a tutti i popoli “la conversione e il perdono dei peccati”; san Pietro, dopo aver guarito lo storpio presso la porta del tempio di Gerusalemme, alla folla che si è radunata attorno a lui annuncia Cristo morto e risuscitato ed esorta tutti a convertirsi e cambiare vita; infine, san Giovanni dopo aver presentato Cristo come nostro “Paraclito (avvocato) presso il Padre” e come “vittima di espiazione per i nostri peccati”, esorta ad “osservare i suoi comandamenti”. Il dono della salvezza si attua attraverso un duplice movimento. Il primo è quello di Dio che si mette in cammino verso noi peccatori attraverso il Figlio. All’azione di Dio che ci giustifica attraverso il Figlio subentra la risposta dell’uomo che si impegna nella conoscenza di Dio. Nella Bibbia si tratta sempre di una conoscenza non astratta o meramente speculativa, ma affettiva, volitiva ed effettiva. Non per nulla il suo criterio di autenticità è l’osservanza dei comandamenti (cf. seconda lettura).

 

La conversione è uno specifico tema pasquale. Infatti, la Pasqua è un nuovo inizio, non solo per Cristo, che dalla morte passa alla vita, ma per tutti coloro che credono in lui. La missione che Gesù affida agli apostoli riguarda tutte le nazioni, anche se debbono iniziare da Gerusalemme. La gloria del Risorto è destinata a riverberarsi su tutti gli uomini come una forza di rinnovamento. Lo stesso Gesù ricorda ai discepoli che la sua morte rientra nel disegno di Dio che lo ha risuscitato dai morti e lo ha costituito fonte di salvezza di tutti noi mediante il perdono dei peccati. Gesù nel mistero della sua Pasqua è come un nuovo Mosè che attraverso la morte-risurrezione libera e salva i credenti in lui donando loro accesso alla libertà e alla vita, guidandoli verso una vita nuova e definitiva. La missione della Chiesa ha quindi la sua sorgente nel Cristo risorto, il suo contenuto nella predicazione della conversione per il perdono dei peccati, e come orizzonte l’umanità intera. La Pasqua ci parla quindi di una conversione che ha come traguardo la pienezza di una vita rinnovata nell’amore del Signore. San Paolo ci ricorda che ciò inizialmente si realizza nel battesimo: “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a Cristo nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Nona, lettura breve – Rm 6,4). Cristo nella gloria è in permanenza la risurrezione e la vita, per la potenza sempre attuale e sempre attiva dello Spirito e della Gloria del Padre: egli è l’eterna Pasqua.

 

domenica 7 aprile 2024

L’ASSEMBLEA

 



Nel tempio di Gerusalemme i vari membri delle tribù d’Israele si incontravano tra loro, costituendo l’assemblea della comunità fedele. Vorremmo ora proporre il vocabolo ebraico che designa proprio quell’assemblea: qahal, che è sostantivo e verbo, cioè “assemblea, adunanza” e “convocare”, presente 173 volte. L’elemento più suggestivo è, però, da ricercare nell’antica versione greca della Bibbia, detta “dei Settanta” a causa del numero leggendario dei traduttori.

Ora, anche chi non sa il greco, comprenderà il valore del termine da loro usato: ekklêsía, donde il nostro “chiesa”. Qahal- ekklêsía è, perciò, il popolo di Dio che si riunisce soprattutto nell’atto di culto, nella professione della fede e nella carità fraterna. È la comunità fedele che è convocata da Dio per l’incontro e il dialogo orante. Essa, nell’antico Israele, si riuniva in adunanza attorno all’arca dell’alleanza, segno della presenza divina.

Quest’ultima era una cassa di legno d’acacia rivestita d’oro. Sul coperchio una lastra d’oro, sorretta da due cherubini anch’essi d’oro, era considerata lo “sgabello dei piedi del Signore” che scendeva dal cielo per incontrare il suo popolo. L’arca è descritta due volte nel libro dell’Esodo (25,10-20; 37,1-9), si ricorda anche il nome del suo artefice, Besalel, e si descrive pure la modalità del suo uso nelle processioni. Al suo interno erano custodite le due tavole di pietra di Mosè e, secondo la Lettera agli Ebrei (9,4), anche un vasetto di manna e il bastone di comando del sacerdote Aronne, una sorta di scettro rituale.

Il termine qahal diventa quasi una definizione della comunità ebraica, soprattutto mentre è in marcia nel deserto del Sínai. Così, ad esempio, quando gli Israeliti si lamentano per la fame accusano Mosè e Aronne con queste parole: “Ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa assemblea (qahal)” (Es 16,3). Core, Datan e Abiram, tre membri del popolo, ordiscono una rivolta contro Mosè e Aronne, seguiti da un forte gruppo di ribelli. Il loro atto d’accusa è chiaro: “Basta con voi! Tutta la comunità, tutti sono consacrati e il Signore è in mezzo a loro. Perché vi innalzate sopra l’assemblea (qahal) del Signore?” (Nm 16,3).

Quando Mosè giunge alle soglie della terra promessa e sa che la sua missione è compiuta, “pronuncia davanti a tutta l’assemblea (qahal) d’Israele un cantico” d’addio (Es 31,30). Infine, secoli dopo, quando Israele, dopo l’esilio babilonese, ritorna nella sua terra e si costituisce in un nuovo stato retto dal sacerdote Esdra, “un’immensa assemblea (qahal) si riunì attorno a lui, uomini, donne e fanciulli” (Esd 10,1).

Una nota in appendice. Ci si è ormai abituati al titolo ebraico di un libro biblico sapienziale piuttosto originale nel suo messaggio: è il Qohelet, che una volta era chiamato Ecclesiaste sulla base della versione greca che sopra abbiamo spiegato. Sì, quel termine è uno pseudonimo che significa “presidente di un’assemblea (qahal)”, in questo caso di discepoli che lo ascoltano.

 

Fonte: Gianfranco Ravasi, L’alfabeto di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023, pp. 129-130.

venerdì 5 aprile 2024

DOMENICA II DI PASQUA (B) – 7 Aprile 2024 o della Divina Misericordia

 



 

At 4,32-35; Sal 117; 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31

 

Il brano del Vangelo di questa domenica è ricco di contenuti. In questa breve riflessione però ci limiteremo ad approfondire il dubbio di san Tommaso. Notiamo anzitutto che al di là delle apparenze, il dubbio non è affatto il contrario della verità. In un certo senso, ne è la ri-affermazione. È incontestabile che solo chi crede nella verità può dubitare, anzi: dubitarne. Perché il dubbio è un atteggiamento di ricerca, di esplorazione. Il dubbio, dal quale sant’Agostino fu spesso tormentato, è stato per il santo un passaggio obbligato per approdare alla verità. E così per altri grandi santi. Un noto filosofo britannico del secolo scorso, Bertrand Russell, diceva che “il problema dell’umanità è che gli stupidi sono sempre sicurissimi, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi”.

Concentrando ora la nostra attenzione sul dubbio dell’apostolo san Tommaso, vediamo che egli non si lascia convincere dalla visione del Risorto che gli altri discepoli hanno avuto. Tommaso vuole personalmente vedere e toccare. Ma quando poi Gesù ricompare per la seconda volta e lui è presente, non si dice che abbia toccato né le mani né il costato trafitto. Al rimprovero di Gesù, un rimprovero pieno di bontà, Tommaso riconosce il Risorto, un riconoscimento pieno, il più alto ed esplicito dell’intero Vangelo: “Il mio Signore e il mio Dio”. La confessione di Tommaso non esprime soltanto il riconoscimento ma l’appartenenza, lo slancio e l’amore: non dice “Signore Dio”, ma “il mio Signore e il mio Dio”.

Tommaso ha conosciuto il dubbio, ma questo non gli ha impedito di giungere ad una fede piena. Nell’esperienza di Tommaso c’è stata però una pretesa dalla quale occorre purificarsi. Gesù gli rimprovera: “Tu hai creduto perché mi hai veduto”, e aggiunge: “Beati quelli che hanno creduto senza avermi veduto”. La normalità della fede riposa sul fondamento dell’ascolto, sul fondamento della testimonianza apostolica.

Gli uomini di oggi, come una volta san Tommaso, vorrebbero vedere e toccare, ma la loro fede è legata alla visibilità della nostra testimonianza, della nostra vita trasformata come quella dei primi cristiani di cui parla il brano degli Atti degli Apostoli proposto come prima lettura: questi cristiani – si dice – erano “un cuore solo e un’anima sola”. Dopo la risurrezione, Gesù è presente nella comunità dei credenti e si rende visibile al mondo attraverso i gesti di carità fraterna di coloro che credono in lui. L’amore non è fatto di parole. Gesù lo aveva detto ai discepoli nel discorso di addio: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).

La risurrezione si realizza ed è testimoniata là dove si porta la pace, si libera dal male, si dona speranza, si costruisce un futuro sereno, là dove l’amore si traduce in fatti, là dove il volto misericordioso di Dio si incarna nelle nostre parole e nelle nostre azioni.

 

 

domenica 31 marzo 2024

IL CONCETTO DI TEMPO

 



Per Parmenide il tempo è solo un’illusione figlia del divenire che contrasta con l’immutabilità dell’Essere. Egli considera assurda questa suddivisione che racchiude il presente, istantaneo e fuori dallo scorrere del tempo per definizione, fra un passato che non è, perché è già stato, e un futuro che non è, perché deve ancora essere. Platone risolverà, almeno in parte, accettando il tempo come sequenza di presente, passato, futuro per il solo mondo materiale, imperfetto e corruttibile, mentre al mondo delle forme, essenza perfetta e immutabile delle cose, competerà un eterno presente senza tempo. Nello stesso solco, Aristotele distinguerà fra tempo ciclico, definito dal movimento regolare e perfetto delle sfere celesti, e primo motore immobile collocato nell’eternità, al di fuori del tempo, concezione che dominerà il pensiero occidentale fino agli albori dell’era moderna.

Sarà un pensatore cristiano, Agostino d’Ippona, il primo a interiorizzare con profonda consapevolezza il concetto di tempo: “E’ in te, animo mio, che misuro i tempo”. Egli mette in discussione la realtà di passato, presente e futuro, dal momento che il primo non è più, il terzo non è ancora e anche lo stesso tempo presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo bensì eternità. Ma mentre ne disintegra la sostanza, Agostino recupera il concetto di tempo come successione di stati di coscienza: “Noi percepiamo gli intervalli di tempo”. I tre tempi esistono solo nel nostro animo: “Il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa”.

Interiorizzando il tempo e riducendolo a un’estensione dell’anima, nel IV secolo d.C. Agostino anticipa quello che lo sviluppo delle moderne neuroscienze ci ha fatto capire con una mole impressionante di evidenze: la presenza forte del senso del tempo nella percezione umana, come strumento indispensabile per la sopravvivenza della specie.

 

Fonte: Guido Tonelli, Tempo. Il sogno di uccidere Chrónos, Feltrinelli Editore, Milano 20234, p. 30

 

venerdì 29 marzo 2024

DOMENICA DI PASQUA: RISURREZIONE DEL SIGNORE – MESSA DEL GIORNO 31 Marzo 2024

 


 


 

At 10,34a.37-43; Sal 117; Col 3,1-4 (oppure: 1Cor 5,6b-8); Gv 20,1-9 (nella messa vespertina: Lc 24,13-35)

 

Il salmo responsoriale è tratto dal Sal 117, un inno di gioia e di vittoria, proclamato in ogni celebrazione eucaristica della settimana pasquale e nella liturgia delle ore di ogni domenica. Il salmo forma parte del “hallel egiziano”, così chiamato perché si cantava specialmente in occasione del memoriale della liberazione degli Israeliti dall’Egitto, durante il sacrifico dell’agnello e durante la cena pasquale. La liturgia della domenica di Pasqua ci ricorda che il nostro agnello pasquale è Cristo (cf. seconda lettura alternativa, sequenza, prefazione pasquale I e antifona alla comunione); nel mistero della sua risurrezione dai morti si compiono tutte le speranze di salvezza dell’umanità: è questo il giorno di Cristo Signore. La risurrezione di Cristo dai morti rappresenta il centro del mistero cristiano, è la base e la sostanza della nostra fede. “Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1Cor 15,14). Con queste parole l’apostolo Paolo esprime il cuore di tutto il messaggio cristiano.

 

Nella prima lettura, ascoltiamo san Pietro che annuncia con decisione al popolo il mistero della risurrezione del Signore di cui egli e gli altri apostoli sono testimoni. Nella seconda lettura, san Paolo trae da questo evento le conseguenze per una vita cristiana rinnovata. Ci soffermiamo sul brano evangelico (Gv 20,1-9), che racconta lo stupore di Maria di Màgdala e di Pietro e dell’“altro discepolo, quello che Gesù amava”, dinanzi al sepolcro vuoto. Nel racconto si sottolinea anzitutto l’itinerario di fede di Maria e dei due discepoli nel Cristo risorto, una fede che non si impone come un’evidenza, ma nasce a partire da “segni” che bisogna decifrare. In primo luogo, l’itinerario di fede di Maria di Màgdala, che giunge di buon mattino al sepolcro “quando era ancora buio”. Sembra una donna avvolta nelle tenebre dell’incredulità: appena vede che la pietra è stata tolta, neppure lontanamente è sfiorata dall’idea della risurrezione; subito pensa e corre a dirlo a due discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Poi Maria ritorna al sepolcro: vede Gesù, ma lo confonde col giardiniere. Lo riconosce solo quando Gesù la chiama per nome (cf. Gv 20,11-18). Il racconto di Giovanni tende a relativizzare il vedere e, anche, l’esperienza del Gesù terrestre. Non basta vedere il Signore per riconoscerlo; è Lui che deve svelarsi.

 

L’itinerario di fede dei due discepoli ha altre caratteristiche, almeno quello del discepolo che Gesù amava. Simon Pietro guarda stupito, constatando che il corpo non è più nel sepolcro, ma che vi sono rimasti, accuratamente piegati, il lenzuolo e il sudario. L’altro discepolo, invece, vede e crede immediatamente. Non ha bisogno di vedere Gesù per credere. Egli constata che Gesù non è avvolto dai panni funebri. Quindi è vivo. Il racconto evangelico conclude con queste parole: “Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti”. È sempre alla luce della Scrittura che si rivela il senso dei segni, eclatanti o modesti, e che lo sguardo si apre alle cose della fede.

         

La risurrezione di Cristo, vertice del mistero della fede, inaugura l’era della salvezza offerta a tutti gli uomini. Chiunque crede nel Risorto riceve fin d’ora il perdono dei peccati, e vive in attesa che il Signore vincitore della morte si manifesti come “giudice dei vivi e dei morti”. Tale è, in tutta la sua ampiezza, l’oggetto della fede apostolica e della celebrazione pasquale.

 

 

domenica 24 marzo 2024

LA CHIESA CHE VIVRÀ

 



 

Vivrà la Chiesa dei piccoli passi fatti in tempo reale e senza inutili e dannosi ritardi.

Vivrà la Chiesa formata al rispetto di ogni vissuto concreto delle persone reali.

Vivrà la Chiesa capace di onorare tutti gli uomini e donne senza mai ridurli a una immagine stereotipata e mortificante per accogliere l’umanità nella sua interezza, complessità e ambiguità.

Vivrà la Chiesa della fede modesta capace di generare la piena fiducia nella libertà di ogni persona senza temere i fallimenti possibili di una vita.

Vivrà la Chiesa della compagnia nei cammini di umanità capace di grandi silenzi per far liberare una parola vera che guarisce.

Vivrà la Chiesa dell’integrazione di ogni razza, di ogni colore, di ogni lingua, di ogni cultura, di ogni percezione in umanità.

Vivrà la Chiesa che sa riconoscere modi diversi di vivere le alleanze tra persone senza sentirsi obbligati ad approvare o in dovere di disapprovare.

Vivrà la Chiesa dell’intelligenza del cuore con cui si cercano di capire i nuovi linguaggi, i nuovi alfabeti e i nuovi mutismi con sentimenti di venerazione del mistero dell’altro e nella consapevolezza che ciò che non si capisce comunque esiste.

Vivrà la Chiesa delle piccole cose, delle piccole comunità, dei mezzi semplici, della marginalità e della modestia gioiosa.

Vivrà la Chiesa capace di spalancare la porta dell’ammirazione per i semi di Vangelo presenti, nelle parole, nei gesti e nelle scelte dei nostri fratelli e sorelle in umanità per continuare ad abbattere “le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata” (Misericordiae Vultus 4).

Vivrà la Chiesa sempre meno romana e sempre più cattolica, apostolica ed escatologica.

 

Fonte: Fratel MichaelDavide, La Chiesa che morirà. L’arte di raccogliere i frammenti per impastare nuovo pane, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023, pp.137-138.

venerdì 22 marzo 2024

DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE (B) 24 Marzo 2024

 



 

 

Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mc 14,1 – 15,47

 

Gesù agonizzante attribuisce a sé la preghiera di lamentazione del Sal 21 riprendendone le prime battute, che noi ripetiamo oggi come ritornello del salmo responsoriale: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Questo salmo è un testo di grande desolazione, segnato da immagini forti prettamente orientali. L’orante, immerso nella sofferenza e vicino alla morte, sente il silenzio di Dio e l’ostilità degli uomini. Ma all’improvviso, la supplica diventa fiduciosa attesa dell’aiuto di Dio e poi ringraziamento festoso al Signore, re dell’universo. All’inizio della settimana di passione, questa preghiera ci introduce adeguatamente nella celebrazione del mistero pasquale di Gesù, che va dalla morte alla vita, dal sepolcro alla risurrezione.

 

L’Unto del Signore, il Messia che è stato accolto dalle folle di Gerusalemme osannanti è quello stesso Gesù che, pochi giorni dopo, è stato consegnato ai suoi nemici e messo in croce. I due momenti non sono dissociabili, come non lo sono il momento della morte in croce e quello della risurrezione. 

 

La prima lettura ci proietta dall’esperienza dolorosa e personale del profeta alla sofferenza redentrice di Cristo, narrata da san Marco nel lungo brano evangelico odierno con uno stile scarno e plastico e con particolari accentuazioni del carattere drammatico e sconcertante della passione di Gesù. Il racconto della passione viene interpretato come il compimento della missione storica di Gesù. Tutto il vangelo di san Marco è orientato alla passione di Gesù, a tal punto che qualcuno ha detto che questo vangelo è un racconto della passione con una lunga introduzione. Con grande consapevolezza e libertà, Gesù percorre il cammino della sua vita che ha come traguardo la morte in croce. La sua passione il Signore esteriormente l’ha subita, ma interiormente e volontariamente l’ha presa su di sé. Per lui la morte in croce non è un incidente inatteso, è una vera scelta. Questa libertà sovrana di Gesù è espressione della sua obbedienza totale al Padre. È ciò che ricorda san Paolo nella seconda lettura: “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. 

 

Le ultime parole di Gesù sono quelle drammatiche con cui inizia il Sal 21: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Noi sappiamo che non ci sono salmi di disperazione né salmisti che credono in un vero abbandono di Dio; anzi, i salmi che esprimono la preghiera di un sofferente sono sempre colmi di fiducia, di fede e speranza. Qui è il Figlio che si lamenta e si abbandona al Padre. Come nel Getsemani, l’angoscia lo attanaglia, e come là chiede aiuto al Padre. È una invocazione a Dio in forma di domanda che avrà una risposta solo dopo la morte di Gesù. Il centurione che gli sta di fronte, vistolo spirare in quel modo, esclama: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”. Non sappiamo cosa il centurione pagano abbia potuto capire; nelle sue parole noi riconosciamo l’atto di fede della comunità cristiana. È lì e in quel momento che paradossalmente si rivela la vera identità di Gesù, e si verifica l’autenticità della fede cristiana. In questa scena si riassume quindi il percorso interiore che san Marco propone ai lettori del suo vangelo. Solo chi segue Gesù fino al luogo della crocifissione è in grado di riconoscerlo e proclamarlo Figlio di Dio. La croce è il vertice della rivelazione di Dio. È nel dono totale di Cristo che Dio rivela il suo amore gratuito e la strada della salvezza per ciascuno di noi.




domenica 17 marzo 2024

LITURGIA DEL FUTURO

 



 

Rivista Credere oggi, Anno XLIII, n. 3 maggio – giugno, n. 255: “Liturgia del futuro”.

Una liturgia che non parla più (Franco Garelli)

La relazione tra liturgia e ars celebrandi (Elena Massimi)

La rubrica come “non verbale”: una rivoluzione (Andrea Grillo)

La cura della forma rituale (Loris Della Pietra)

La potenza del simbolo. Il simbolo e la sua potenza (Maria Cristina Bartolomei)

Ripensare un passato recente: Casel e Guardini (Cyprian Krause)

Le lingue parlate e l’universalità complessa (Claudio Ubaldo Cortoni)

La discontinuità intorno alla “partecipazione attiva” (Donata Horak)

Un piccolo cantiere liturgico in rete (Ermanno Genre)

 

venerdì 15 marzo 2024

DOMENICA V DI QUARESIMA (B) – 17 Marzo 2024

 



 

 

Ger 31,31-34; Sal 50; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33

 

Vicini ormai alla celebrazione della Pasqua, la tematica di questa domenica quaresimale ci propone il mistero di Cristo che, morendo sulla croce, diventa principio di salvezza per tutti. È Gesù stesso a rivelare il senso salvifico della sua morte (cf. vangelo). Alcuni greci venuti a Gerusalemme per la festa della Pasqua esprimono il desiderio di vedere Gesù. Si tratta di uomini che, pur non appartenendo al popolo d’Israele, sono timorati di Dio e cercatori sinceri della verità. Il loro desiderio non è una semplice curiosità, non si esaurisce in un semplice vedere, ma è un desiderio di conoscere e di credere. Questi greci vengono presentati dall’evangelista come personaggi emblematici, che rappresentano in qualche modo tutti coloro che cercano Gesù. Così viene interpretato dallo stesso Gesù che, vedendo in questi greci il primo frutto della sua passione, si dilunga in un discorso sulla sua imminente morte concluso con queste parole: “Io quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. E l’evangelista aggiunge: “Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire”. Per mezzo di Gesù, l’uomo che si era allontanato da Dio ritorna a lui. All’antica alleanza ristretta al popolo d’Israele, succede la nuova e definitiva alleanza aperta a tutti i popoli.

 

Questa “alleanza nuova” è annunciata nel secolo VI a.C. dal profeta Geremia in una pagina che è uno dei vertici dell’Antico Testamento, proposta oggi come prima lettura. È la sola ed unica volta che una tale espressione ricorre nelle pagine dell’Antico Testamento. Tre sono i tratti caratteristici di questa nuova alleanza: l’interiorità (“porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore”); poi la spontaneità della relazione con Dio (“tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande”). Infine, il perdono del peccato che ha reso precaria l’antica alleanza (“perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”). La nuova alleanza è scritta nel cuore. La morte di Gesù in croce ci insegna che Dio scrive la sua legge nel cuore dell’uomo amandolo fino all’estremo. L’amore, infatti, si impone non con la minaccia della punizione ma con la dolcezza del desiderio.

 

Il breve brano della lettera agli Ebrei, proposto come seconda lettura, illustra la stessa dottrina riscontrata nelle altre letture bibliche. Il dono della nuova alleanza è fatto persona in Gesù. Nella solidarietà e fedeltà, vissute nella forma estrema in un contesto di sofferenza mortale, Cristo diventa “causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”. In altre parole, nel dono totale di sé al Padre Gesù sancisce la nuova ed eterna alleanza, diventa quindi il perfetto mediatore tra Dio e gli uomini. La croce ci insegna che l’efficacia della nostra vita è direttamente proporzionale alla capacità di dimenticare noi stessi. Nel mistero pasquale di morte e risurrezione si manifesta l’amore i Dio e si stabilisce l’alleanza nuova, che l’eucaristia continuamente ripresenta e realizza per noi.

domenica 10 marzo 2024

L’ALFABETO DI DIO



 

Gianfranco Ravasi, L’alfabeto di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023. 319 pp. (€ 20,00).

 

Santa Teresa di Gesù Bambino confessava: “Se io fosse stata prete, avrei studiato a fondo l’ebraico e il greco per conoscere il pensiero divino nella forma in cui Dio si è degnato di esprimerla nel nostro linguaggio umano”.

Il cardinale Gianfranco Ravasi ci prende per mano e con la consueta maestria ci guida nella conoscenza meditata e profonda delle parole bibliche su cui si fonda la nostra fede.

 

(Quarta di copertina)

  

venerdì 8 marzo 2024

DOMENICA IV DI QUARESIMA (B) “Laetare”– 10 Marzo 2024

 



 

 

2Cr 36,14-16.19-23; Sal 136; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21

 

Nei testi biblici di questa domenica si contrappongono il peccato dell’uomo e l’amore di Dio. Il Sal 136 è una meravigliosa e drammatica preghiera di lamentazione innalzata dagli ebrei esuli lungo i canali di Babilonia dopo la distruzione di Gerusalemme alla fine del VI secolo a.C. Questo testo esprime il dramma di tutto un popolo sradicato dalla sua terra e strappato ai suoi affetti più cari. La disperazione dell’esilio è controbilanciata dalla speranza del ritorno a Gerusalemme. Così come Babilonia è la personificazione della potenza del male, Gerusalemme rappresenta la patria definitiva in cui ogni lacrima sarà asciugata. Quella che fu esperienza d’Israele diventa drammaticamente esperienza di ciascuno di noi. Ma Cristo non ci ha abbandonato in balia del nostro peccato; con la sua vittoria sulla morte ha dato a tutti noi la possibilità di ritrovare il paradiso perduto. Il ricordo di questo evento è la nostra gioia.

 

La Pasqua ormai vicina, la Chiesa ci invita alla gioia (cf. antifona d’ingresso). Infatti, il Figlio dell’uomo è stato innalzato in croce, dice il brano evangelico, affinché chiunque crede in lui, abbia la vita eterna. Per far capire che cosa vuol dire credere nel Figlio dell’uomo, l’odierno brano del vangelo di Giovanni rimanda alla storia del popolo d’Israele che nel cammino del deserto si era ribellato contro Mosè e contro lo stesso Dio, per cui molti furono puniti con i morsi di serpenti velenosi e morirono. Avendo però gli israeliti riconosciuto il loro peccato, Dio promette che chiunque, morso dai serpenti, guarderà il serpente di rame collocato sopra un’asta, resterà in vita. La storia di Israele va interpretata come un messaggio profetico nel suo aspetto di severo giudizio sull’infedeltà del popolo e nel suo aspetto di accorato invito al pentimento fondato sulla fedeltà incondizionata di Dio. Il serpente innalzato da Mosè nel deserto è una prefigurazione di Gesù innalzato sulla croce. Il serpente di rame salvava perché presupponeva la fede nella parola di Dio che promette la salvezza. In modo analogo Gesù morto in croce è fonte di salvezza per chiunque vi riconosce la rivelazione dell’amore di Dio che “ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito; chiunque crede in lui ha la vita eterna” (canto al vangelo).

 

Alla nostra infedeltà e al nostro peccato si contrappongono la fedeltà e l’amore misericordioso di Dio. Al peccato che conduce l’uomo alla schiavitù e alla morte si contrappone l’amore di Dio che dona liberazione e salvezza. La prima lettura illustra lo stesso concetto: al peccato d’Israele che gli ha meritato la punizione della deportazione in Babilonia, si contrappone l’amore di Dio che, fedele alla sua parola, libera il suo popolo dall’oppressione e lo riconduce a Gerusalemme. La nostra salvezza non è fondata sui nostri meriti, ma sull’infinita ricchezza della misericordia di Dio. È ciò che ricorda san Paolo ai primi cristiani di Efeso: la salvezza “non viene da voi, ma è dono di Dio” (cf. seconda lettura). E tutto ciò, aggiunge l’Apostolo, trova pieno compimento in Cristo Gesù: “da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo”. L’ultima parola di Dio non è la morte ma la vita.

 

Quando si parla di “colpa” o di peccato si ha a che fare con il compimento o il fallimento di una esistenza: solo chi ha forte il senso della dignità dell’uomo davanti a Dio, del suo destino eterno, è capace di percepire quanto grande sia la tragedia del peccato. Paradossalmente però il peccato rivela chi è Dio: quanto più profondo è il rifiuto dell’uomo, tanto più grande appare l’abisso dell’amore divino, che la croce mostra in tutta la sua concretezza e veracità.

domenica 3 marzo 2024

L’EVOLUZIONE DEL MESSALE ROMANO DI PAOLO VI

 



 

Maurizio Barba, Il Messale Romano. Sviluppi dopo la terza edizione emendata (Theologia Uxentina 11), Edizioni Viverein, Roma 2023. 412 pp. (€ 20,00).

 

Cap. I. Il Giubileo d’oro del Messale Romano di Paolo VI: Da una lettura retrospettiva ad una riflessione in prospettiva.

Cap. II. La lavanda dei piedi.

Cap. III. Santa Maria Maddalena: prima testimone della risurrezione.

Cap. IV. La memoria di Maria Madre della Chiesa.

Cap. V. L’inserimento nel Calendario romano generale della memoria di santa Faustina Kowalska.

Cap. VI. La celebrazione della Beata Vergine Maria di Loreto nel culto della Chiesa universale.

Cap. VII. La memoria di san Paolo VI Papa nel ciclo eortologico della Chiesa.

Cap. VIII. L’iscrizione di nuove memorie dei santi Dottori della Chiesa nel Calendario romano.

Cap. IX. La memoria degli Hospites Domini di Betania nel Calendario romano generale.

Cap. X. Interazioni tra il Calendario romano generale e i Calendari propri: quali ambiti di attuazione delle tradizioni delle Chiese locali?

Indici biblico, dei nomi, generale.

venerdì 1 marzo 2024

DOMENICA III DI QUARESIMA (B) – 3 Marzo 2024

 



 

 

Es 20,1-17; Sal 18; 1Cor 1,22-25; Gv 2,13-25

 

La seconda parte del Sal 18, quella ripresa dalla liturgia odierna come salmo responsoriale, è un elogio della legge divina, fonte di vita e di gioia, di saggezza e giusto giudizio, di rettitudine, giustizia e purezza, più preziosa e dolce di ogni altra cosa. Il testo salmico trova compimento in Gesù. Egli stesso è legge per il nuovo popolo di Dio, indirizzo per la nostra esistenza, consolazione e conforto per le ore del dubbio. Perciò rinnoviamo a lui la professione di fede di Pietro: “Signore, tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68).

 

La liturgia odierna ci invita a rileggere, in chiave cristiana e pasquale, la pagina biblica dei dieci comandamenti o “dieci parole”, la cui promulgazione è riportata dalla prima lettura. Notiamo che il racconto non inizia con un comandamento ma col ricordo dell’opera divina di salvezza: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile”. Il comportamento etico dell’uomo viene proposto dalla Bibbia come risposta a Dio che si manifesta nella storia come liberatore e salvatore. D’altra parte, l’opera divina di salvezza ha il suo momento culminante nell’incarnazione, morte e risurrezione del Figlio Gesù Cristo, che ci ha liberati dalla schiavitù del peccato. Cristo è quindi colui che dà senso e qualità etica all’agire cristiano. Ciò viene confermato da san Paolo che nella seconda lettura afferma che la legge, o meglio la volontà salvifica di Dio non si manifesta né attraverso l’osservanza legale né attraverso la ricerca della ragione, ma in Cristo crocifisso: la croce, che testimonia l’amore folle di Dio per tutti gli uomini senza distinzione, contesta energicamente le idee correnti sul potere e sulla saggezza. La croce di Cristo, oltre che essere il frutto di una storia di iniquità e di peccato, è anche e soprattutto la storia di un amore assoluto che risplende proprio là dove si consuma l’odio.

 

Nel contesto delle due prime letture, il cui contenuto abbiamo succintamente illustrato, possiamo capire meglio il messaggio del brano evangelico di questa domenica. Apparentemente il racconto evangelico parla di tutt’altro argomento: Gesù scaccia i venditori e cambiamonete dal tempio. Possiamo interpretare questo gesto alla luce del messaggio dei profeti che avevano annunciato una futura purificazione del tempio (cf. Zc 14,21; Ml 3,1). Col suo modo di agire, provocato dallo zelo per la casa del Signore (cf. Sal 69,10), Gesù fa capire che il giorno annunciato dai profeti è venuto. Il gesto di Gesù che scaccia dal tempio i mercanti e i cambiamonete è quindi un gesto profetico che rivela l’identità di Gesù e il ruolo provvisorio del tempio e, in generale, il superamento delle istituzioni dell’Antico Testamento: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Con queste parole, Cristo dichiara superata la legge antica, di cui il tempio è simbolo centrale, e colloca se stesso come punto di riferimento dei nuovi rapporti dell’uomo con Dio. Cristo è egli stesso la nuova legge, colui che ha sancito l’alleanza definitiva tra Dio e gli uomini versando il proprio sangue sulla croce; il corpo di Cristo morto e risorto è il centro del nuovo culto e il tempio della nuova alleanza, in quanto è il luogo della presenza definitiva di Dio in mezzo agli uomini. Liberati in virtù di Cristo, possiamo vivere ormai una comunione profonda con Dio e con i fratelli. Tutto ciò è frutto della passione, morte e risurrezione di Gesù. È il segno che Gesù offre all’incredulità manifestata dai suoi interlocutori.

 

Gesù divenuto il nuovo tempio, inaugura un nuovo culto, il cui culmine è l’eucaristia, il suo corpo donato e il suo sangue versato per la nostra salvezza.

domenica 25 febbraio 2024

IL SACRO

 


 

 

Ho incontrato il sacro, gli sono andato incontro, in Bosnia. Erano pietre: di moschee, di chiese cattoliche e ortodosse, scombinate a terra a mucchio, là dove erano cadute. La materia di fabbrica spezzata conteneva l’intero, perché il residuo, il rimasuglio assorbe in sé il perduto. L’odio che abbatte il sacro in fondo lo restaura. Le solenni architetture che non mi avevano procurato l’accidente dell’incontro, ridotte in rovina dalle artiglierie, senza più polvere di crollo, lustrate dalle piogge e dalla neve, diventavano sacre. I sensi di un passante, uno straniero lento alle chiamate, avvisavano questo: che il sacro è crollo e poi risurrezione, non permanenza eterna di solidità, stabilità di luoghi e procedure. Abramo doveva alzare il coltello sulla nuda gola del figlio e Gesù non poteva morire di vecchiaia. Solo dopo i sensi, che hanno incontrato le macerie dei culti, si fa nitido il verso del profeta Michea/Micà che scrive: “Ki nafàlti kàmti” (7,8): “quando sono caduto mi sono alzato”. Dentro il frattempo dei crolli esiste e resiste il sacro, anche per uno senza credo, e che soltanto legge.

 

Fonte: Erri De Luca, Cercatori d’acqua (Le perline), Giuntina, Firenze 2023, pp. 70-71.

venerdì 23 febbraio 2024

DOMENICA II DI QUARESIMA (B) – 25 Febbraio 2024

 



 

 

Gen 22,1-2.9a.10-13.15-18; Sal 115; Rm 8,31b-34; Mc 9,2-10

 

 

Dio promette ad Abram una terra e una discendenza numerosa, però egli dovrà iniziare un cammino di obbedienza: Vattene dal tuo paese verso il paese che io ti indicherò. Dopo qualche tempo, Dio stesso gli cambierà il nome per indicare che Dio conferisce ad Abram una nuova personalità: non si chiamerà più Abram, ma Abramo, che significa “padre di una moltitudine di popoli”. Abramo si è fidato di Dio ed è partito per una terra sconosciuta. Ma dove l’obbedienza di Abramo appare in tutta la sua grandezza è quando si dispone, in obbedienza al comando di Dio, a rinunciare al suo unico figlio Isacco. Il sacrificio del proprio figlio è profezia del sacrificio di Cristo per la salvezza del mondo. Abramo non si ribella a Dio, non si mette a discutere, non dubita, si fida di Lui. Quando poi sta per immolare il proprio figlio Isacco, la sua mano è fermata dall’angelo e sente la voce di Dio che gli dice: Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato il tuo unico figlio. Abramo chiamò quel luogo “Il Signore provvede”. Anche Cristo, obbediente al disegno del Padre, si offre sulla croce fiducioso che Dio provvede.

 

La storia di Abramo illumina il racconto del brano evangelico d’oggi, in cui ci viene raccontato l’episodio della trasfigurazione. San Marco colloca questo racconto tra due predizioni della passione. È per far capire ai discepoli che la sua morte e la sua risurrezione costituiscono un mistero unitario, il mistero della nostra salvezza. Il momento culminante del brano evangelico, il vertice del racconto della trasfigurazione sono le parole del Padre ascoltate dai tre discepoli presenti: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo”.

 

Noi, come Abramo e come Gesù siamo invitati a percorrere un cammino di obbedienza nella certezza che Dio provvede. Anche se ci viene chiesto talvolta un cammino di sofferenza e di rinuncia, siamo invitati ad ascoltare la voce del Signore e ad aver fiducia in colui che ha “parole di vita eterna”.

 

Come sintesi di questo messaggio che la Parola di Dio oggi ci trasmette, possiamo ripetere nel nostro cuore più volte durante la giornata il versetto del salmo responsoriale di questa Messa: “Ho creduto anche quando dicevo: sono troppo infelice”. L’autore del salmo canta la sua totale fiducia nell’amore divino anche quando l’infelicità occupa l’orizzonte della sua vita. Ancora all’inizio della Quaresima, riaffermiamo la volontà di percorrere il nostro cammino battesimale fatto soprattutto di fede e di umile accettazione del progetto di Dio su di noi anche quando non riusciamo a comprendere sempre la logica dei percorsi che ci vengono proposti.