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sabato 25 giugno 2016

SACRO E PROFANO, DUE MONDI OPPOSTI?



 
Non c’è dubbio che uno dei temi che agitano la questione liturgica è il rapporto tra sacro e profano, questione che interessa non solo alla ricerca teologica, ma anche alla filosofia, all’antropologia… Senza grandi pretese, in questo blog più volte ci siamo interessati dell’argomento. In questi giorni ho avuto tra le mani un piccolo libro classico sull’argomento: Jean-Jacques Wunenburger, Le sacré (Que sais-je?), Presses Universitaires de France, Paris 20136. 126 pp. L’autore è un noto professore di filosofia.

Sul rapporto tra sacro e profano, ecco in stringata sintesi quanto afferma l’autore nella seconda parte del volumetto:

L’opposizione assoluta tra sacro e profano sembra ad alcuni autori rivelatrice della struttura stessa del sacro. Secondo É. Durkheim, la divisione del mondo in due settori comprendenti l’uno tutto ciò che è sacro, l’altro tutto ciò che è profano…, è il tratto distintivo del pensiero religioso.

Ma, ci domandiamo, il sacro e il profano costituiscono veramente due tipi di fatti indipendenti ed opposti? I riti sacri implicano sempre una rottura tra due situazioni della coscienza, due luoghi, due momenti, segnati da gesti o parole simboliche. Ma i comportamenti sacri fanno appello al corpo, all’affettività o allo spirito, come d’altronde anche i comportamenti profani. La differenza tra un gesto rituale profano e un gesto rituale sacro non è sempre chiara. Questa difficoltà spiega fino a che punto il sacro è sempre minacciato da deviazioni, e spiega anche come un rito religioso possa degenerare in condotta gratificante di piacere.

Il vissuto sacro è un equilibrio sempre difficile di conservare tra due aspirazioni contrarie, ma sempre mescolate. Possiamo quindi affermare che l’opposizione tra sacro e profano sia stata sopravalutata. Si potrebbe dire che sacro e profano, più che essere due mondi separati, esprimono due poli di valutazione della vita e del mondo. 

La desacralizzazione dei fenomeni sociali e culturali mette in evidenza il carattere labile, fragile, ambivalente del sacro, frequentemente a vantaggio di una affermazione e legittimazione di altre forme di relazione con la trascendenza come la fede, la mistica o la stessa speculazione teologica.

venerdì 24 giugno 2016

XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 26 Giugno 2016


1Re 19,16b.19-21: Eliseo si alzò e seguì Elìa, entrando al suo servizio.

Sal 15: Sei tu, Signore, l’unico mio bene.

Gal 5,1.13-18: Cristo ci ha liberati per la libertà

Lc 9,51-62: Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio 

Il messaggio di questa domenica è un invito a seguire il Signore Gesù, a fare di lui l’unico punto di riferimento della nostra vita.

La prima lettura racconta la vocazione di Eliseo. Elia, “passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello”. Il mantello è segno di colui che lo indossa, prolungamento della sua personalità. Nel caso di Eliseo, la consegna del mantello significa la trasmissione del carisma profetico. Ma non è il semplice mantello a fare il profeta. Dio attende la risposta di Eliseo, il quale lascia i suoi buoi e corre dietro Elia.

Sulla stessa lunghezza d’onda si pone il brano evangelico, soprattutto nella sua seconda parte. San Luca racconta di tre che vogliono seguire Gesù e diventare suoi discepoli. Che significa seguire Gesù, diventare suoi discepoli? E’ lo stesso Gesù a spiegarlo e a indicarci le condizioni per seguirlo. Al primo che si avvicina a lui con volontà di seguirlo, Gesù risponde: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Seguire Gesù significa distacco dalle cose e dagli appoggi umani e materiali. E’ necessaria poi la prontezza e l’abbandono del passato, come ricorda il Signore al secondo che intende seguirlo  affermando al tempo stesso che prima vuole andare a seppellire suo padre. Finalmente, chi sceglie il Cristo lo fa definitivamente, per sempre. Sul cammino di colui che diventa discepolo di Gesù c’è una chiamata che spezza i legami con il passato e traccia un nuovo e definitivo percorso per il futuro. Possiamo constatare come Gesù sia più esigente che Elia. Eliseo ha il tempo di andare a salutare i familiari e allestire un banchetto di commiato da quelli del suo clan; il distacco è quindi progressivo. Gesù invece vuole una risposta immediata e senza ripensamenti di nessun genere. Con la venuta del Messia, non si è più nel tempo dell’attesa ma in quella del compimento.

Nella seconda lettura, Paolo dice che “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi”. La libertà non si conquista, è un dono che viene dall’alto, ma è altrettanto un impegno concreto. Il discepolo di Gesù è un uomo libero che aderisce a Dio attraverso lo Spirito con tutto il suo cuore e la sua anima. Solo chi segue il dinamismo dello Spirito è libero, perché attingendo alla fonte profonda dell’amore, vive in armonia con se stesso, con gli altri e con Dio.

domenica 19 giugno 2016

TUTTA L’ASSEMBLEA È ‘LITURGA’


 


Fin dai primi paragrafi delle tre redazioni della fase preparatoria della costituzione liturgica emerge non solo l’intima relazione tra la liturgia e il mistero della Chiesa, ma soprattutto il fatto che la celebrazione liturgica stessa è eminente manifestazione della natura della Chiesa: “Liturgia enim, per quam opus Redemptionis exercetur, summe confert ut fideles vivant et aliis manifestent mysterium Christi et genuinam verae Ecclesiae naturam” (PCP, 461).

 

Questa manifestazione non può che avvenire nel momento della celebrazione stessa, per cui, come aveva affermato Jounel nella sua relazione, il radunarsi del popolo di Dio è il primo “segno” liturgico. È impossibile infatti definire la liturgia come atto sacerdotale della Chiesa e sua epifania senza evocare l’assemblea liturgica. Essa, infatti, sempre secondo Jounel, “est à la fois la manifestation visible, de signe sensible du Corps mystique du Christ, et le moyen privilégié par laquel se contruit chaque jour davantage le Corps du Christ. Mysterium nostrum in mensa dominica positus est, selon l’expression célèbre de S. Augustin, que rapporte Pie XII (ibid. p. 559). L’Église fait l’Eucharistie et l’Eucharistie bâtit l’Église. Or cette double activité essentielle, dans laquelle se fondent la glorification de Dieu et la sanctification de l’homme, c’est dans l’assemblée liturgique qu’elle se déroule. Telle est la raison pour laquel le chrétien qui veut glorifier le Seigneur et s’unir intimement au mystère rédempteur doit considérer come son summum officium et sa summa dignitas le fait d’apporter une participation ‘active et intelligente’ (AAS 1956, p. 716) à l’assemblée liturgique”.

 

In quegli anni il tema dell’assemblea liturgica era stato particolarmente approfondito da E.-G. Martimort con alcuni articoli apparsi nella rivista La Maison-Dieu, si capisce quindi come Jounel proponga di considerare l’assemblea liturgica come “segno globale” della celebrazione. Anche se negli schemi delle tre redazioni preparatorie non troviamo un esplicito riferimento all’assemblea liturgica come segno globale, appare però con sufficiente chiarezza che se la liturgia è epifania del mistero della Chiesa e se la natura comunitaria dell’azione liturgica è indissolubilmente legata alla natura stessa della liturgia, essa richiede l’azione di tutta l’assemblea riunita. Leggiamo nella declaratio del paragrafo 107 della redazione dell’agosto 1961: “Olim quidam putabant liturgiam rem esse cleri. Renascentia liturgica hodierna in lucem posuit veram naturam liturgiae requiri actionem totius cristiani coetus congregati una cum sacerdote. Huic principio omnia liturgiae elementa inservire debent”.

 

Se da un lato, per quanto riguarda la validità, la liturgia può essere celebrata senza un’assemblea radunata, dall’altro però la celebrazione richiama sempre la riunione dei fedeli, perché l’assemblea liturgica è la manifestazione più espressiva della Chiesa, perché nell’assemblea liturgica Cristo stesso è presente. Scrive Martimort: “I Padri dicono dell’assemblea liturgica particolare ciò che è proprio della Chiesa intera: che essa è il Corpo di Cristo, al punto che non venire all’assemblea è diminuire il Corpo di Cristo; i cristiani sono invitati a radunarsi ‘come in un solo Tempio di Dio’; la voce dell’assemblea è la voce della Chiesa, sposa di Cristo; il sacrificio offerto nell’assemblea è la Messa, memoriale della presenza del sacrificio della Croce che fa la Chiesa”.

 

L’idea passerà successivamente nella Costituzione liturgica conciliare e verrà esplicitata in modo chiaro e inequivocabile nel Catechismo della Chiesa Cattolica: “L’assemblea che celebra [celebrans congregatio] è la comunità dei battezzati” (n. 1141), quindi “nella celebrazione dei sacramenti, tutta l’assemblea è ‘liturga’ [tota congregatio ‘liturgus’ est], ciascuno secondo la propria funzione, ma nell’ ‘unità dello Spirito’ che agisce in tutti” (n. 1144).

 

Fonte: Angelo Lameri, Alla ricerca del fondamento teologico della partecipazione attiva alla liturgia. Il dibattito nella commissione liturgica preparatoria del Concilio Vaticano II, Edizioni Liturgiche, Roma 2016, pp. 52-54 (Le note a pie pagina non sono riportate qui).  

sabato 18 giugno 2016

XII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 19 Giugno 2016



Zc 12,10-11: Guarderanno a me, colui che hanno trafitto

Sal 62: Ha sete di te, Signore, l’anima mia

Gal 3,26-29: Voi siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù

Lc 9,18-24: Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua

Se vogliamo riassumere in poche e semplici parole il contenuto della parola di Dio di questa domenica, possiamo dire che ci viene ricordato che, sull’esempio di Gesù, si entra nella gioia passando attraverso la prova della croce. La prima lettura  riporta un breve testo del profeta Zaccaria in cui si parla profeticamente del Cristo “trafitto” (cfr. Gv 19,37). Nella liturgia di questa domenica, questo brano profetico ha lo scopo principale di preparare le parole di Gesù riportate dal vangelo (Lc 9,18-24), dove il Signore afferma: “se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”. Dopo l’annuncio della passione Gesù invita tutti a seguirlo portando ogni giorno la propria croce anche a rischio di perdere la propria vita. Si tratta di assumere esistenzialmente il destino di Gesù come destino nostro. Il testo di san Luca parla di un atteggiamento perseverante, bisogna cioè portare la propria croce “ogni giorno”. Ciò significa che il legame con Gesù deve mostrarsi indissolubile e dev’essere rinnovato di fronte a ogni nuova situazione di ostacolo o di prova.

Il messaggio della seconda lettura  si collega facilmente al tema del vangelo odierno che abbiamo brevemente illustrato sopra. San Paolo ricorda che l’esperienza battesimale opera una ricostruzione radicale del nostro essere (cfr. Rm 6), per cui si può affermare che non siamo più noi che viviamo, ma Cristo in noi (cfr. Gal 2,20).

Alla luce della parola di Dio di quest’oggi il mistero della sofferenza trova un senso in Cristo. Chi soffre per una giusta causa partecipa alla sofferenza del Cristo e collabora con lui alla continua trasformazione e liberazione degli uomini.

mercoledì 15 giugno 2016

UN CATECHISMO PER GLI IGNORANTI COLTI


 
Pierre Riches, Note di catechismo per gli ignoranti colti (Introduzione di Giorgio Manganelli), Gallucci, Roma 2016. 223 pp.

Pierre Riches, è nato in Alessandria di Egitto. Di famiglia ebrea, si è convertito al cristianesimo a 23 anni. Diventato sacerdote e poi studioso di teologia, ha insegnato in diverse università del mondo. Durante il concilio Vaticano II è stato consigliere del cardinale Eugène Tisserant.

Il titolo di questo piccolo libro è curioso, ma è espressione di una situazione reale. Infatti, sono rari i cattolici (anche eruditi nei diversi campi delle scienze) capaci di enunciare con chiarezza i principi fondamentali della propria fede, o che sappiano dire come e perché essa sia diversa, per esempio, dall’islamismo.

Lo stile del testo è leggero. Si tratta però di un libro concettualmente denso. Tratta sinteticamente una settantina di temi. Propongo in seguito quanto si dice sulla Chiesa pp. 87-89:

“Cristo non è più sulla terra. Dio sa che noi uomini abbiamo bisogno di contatti costanti: quando amiamo, vogliamo la persona che amiamo sempre presente; e se non è presente, vogliamo sempre un segno: una lettera, una telefonata, (non solo per ‘sentimento’ ma per potere continuare il nostro rapporto che si sviluppa anche – necessariamente – attraverso il ‘materiale’).

Proprio per questo, Cristo ha lasciato due segni visibili di se stesso: la Chiesa ed i Sacramenti, vivificati entrambi dallo Spirito Santo che è ancora Dio.

Una cosa che mi ha sempre colpito e che non ho mai visto trattata teologicamente (se non un poco nella teologia della Chiesa orientale) è che nella dottrina cristiana si parla correntemente di tre corpi di Cristo: il corpo del Gesù storico ora ‘in cielo’, il corpo ‘mistico’ che è la Chiesa, il corpo presente realmente nel sacramento dell’Eucaristia.

Su ognuno di questi corpi sono stati scritti volumi e volumi, ma sul rapporto fra i tre, conosco ben poco. Mi sembra invece di enorme interesse: qui non possiamo che accennarne dando un rapido sguardo alla Chiesa e ai Sacramenti.

La Chiesa è il Corpo di Cristo rimasto fra noi; i Sacramenti sono uno dei modi in cui questo Corpo agisce visibilmente ed efficacemente. E’ lì che oggi bisognerebbe vedere e sentire Cristo. Non bisognerebbe mai dividere queste tre cose: Cristo, Chiesa, Sacramenti.

Purtroppo le vicende storiche hanno fatto della Chiesa in tempi diversi e in paesi diversi, un mostro che per molti è difficile guardare senza reazioni passionali negative. Non avendo una visione generale, non si vede più Cristo, non si sente più Cristo. Invece di essere via, la Chiesa, nel suo contesto storico, è qui ostacolo. Non è di quella Chiesa che parlo qui, o meglio è anche di quella Chiesa, ma non solo di quella (v. cap. 60).

La Chiesa è certo una istituzione, è certo anche un complesso di edifici visibili, ma è soprattutto testimone di Cristo e distributrice di sacramenti.

E’ il corpo di Cristo che si fa vedere e, nelle sue punte, nei suoi santi, agisce come Cristo, cioè con amore; testimoniando, insegnando e operando sul piano umano, distribuendo Grazia nei sacramenti sul piano soprannaturale.

La Chiesa non è soltanto il papa ed i vescovi, i preti e le suore; non gli edifici, ma è tutto il ‘popolo di Dio’ come insiste a chiamarla il concilio Vaticano II. E’ la totalità di tutti i battezzati nel tempo e nello spazio, o meglio ancora, nella dizione antica, è la totalità di tutti gli uomini della Chiesa militante – quella ancora in terra – della Chiesa purgante – quella in purgatorio – e della Chiesa trionfante – quelli in paradiso. Queste tre parti della Chiesa sono indissolubilmente legate e insieme formano il Corpo di cui Cristo – risorto e trionfante – è il Capo”.     

domenica 12 giugno 2016

PREGARE “IN NOMINE ECCLESIAE”


 

Nel corso dei lavori della Commissione liturgica preparatoria al Concilio Vaticano II, il card. Gaetano Cicognani ha voluto che fossero consultati alcuni noti teologi, non membri della Commissione, sulla natura e valore della preghiera fatta “in nomine Ecclesiae”. Karl Rahner, consultato, rispose distinguendo in primo luogo la glorificazione oggettiva di Dio da quella formale. La prima viene data a Dio da ogni creatura per il solo fatto di esistere, la seconda quando la creatura, dotata di spirito e libera, riconosce spontaneamente e amorosamente l’infinita superiorità di Dio.

 

Questa distinzione è letta da Rahner in relazione all’opus operatum e all’opus operantis. Circa la preghiera infatti – quoad substantiam – anche se fatta senza devozione può valere come soddisfazione dell’obbligo di recitare il breviario, quindi anche una preghiera di questo genere risulta compiuta “in nome della Chiesa”. In realtà però solo una preghiera suscitata e vivificata dalla grazia soprannaturale si può chiamare per Rahner atto salvifico: è la divinizzazione dell’uomo che consiste nell’autocomunicazione di Dio tramite la grazia increata. Questa divinizzazione si attualizza in chi prega attraverso quei gemiti inesprimibili coi quali lo Spirito Santo stesso divinizza questa preghiera nei cuori dei giustificati. Ne consegue che ogni preghiera soprannaturale che viene fatta attingendo alla grazia di Cristo e quindi in seno al suo Corpo mistico può a buon diritto venire detta un atto della Chiesa. Non possiamo qui non segnalare il valore di questa affermazione sul versante ecumenico. Rahner infatti rifugge da quello che definisce un “Nestorianimus  ecclesiologicus” che enumera nel concetto complessivo di Chiesa solo le note che rientrano nella sua struttura esteriore e sociale. Nel concetto di Chiesa non si deve trascurare l’interiore animazione dello Spirito Santo, grazie alla quale non è lecito dire “simpliciter extra Ecclesiam esse, qui Spiritum hunc huius Ecclesiae possident”. Da questa prospettiva la preghiera degli acattolici giustificati dalla grazia, che hanno ricevuto un battesimo valido e fruttuoso, “licet visibilia membra Ecclesiae visibilis non sint simpliciter, oratio (absolute loquendo, i.e. si oratio mensuratur secundum mensuram ultimam dignitatis et valoris  orationis, quae est gratia) eiusdem dignitatis et valoris est quam oratio membrorum simpliciter et strictissime dictorum. Nam horum oratio summam et decisivam dignitatem obtinet  ex illa gratia et illa coniunctione cum Christo et cum eius corpore mystico, quibus etiam illi acatholici iustificati donati sunt, et non precise ex eorum vinculis iuridicis et externis cum Ecclesia”.

 

Ogni preghiera soprannaturale infatti, che viene fatta in seno al Corpo mistico di Cristo e attingendo alla grazia del Capo, può venir detta rettamente un atto della Chiesa. Similmente e a maggior ragione questo vale per quanto riguarda la preghiera comune dei fedeli, anche parlando di quella “quae iuxta strictissimum conceptum liturgiae hodie usitatum ‘liturgica’ dici nequit”. In qualsiasi preghiera comune di questo genere infatti, risaltano visibilmente tutte le proprietà essenziali insite in ogni preghiera. A questo atto ecclesiale, un esplicito assetto liturgico imposto dalla Chiesa non aggiunge alcuna dignità superiore davanti a Dio, perché non dà dignità più grande da quella conferita alla preghiera dallo Spirito col suo gemito inesprimibile. L’assetto liturgico non rende la preghiera del cristiano più grande, ma atto della Chiesa in quanto società visibile, fa sì che la preghiera comune avvenga effettivamente, degnamente e frequentemente. Per Rahner quindi ogni preghiera del cristiano attinge il proprio valore dalla grazia increata, dallo Spirito Santo che prega in noi e divinizza la preghiera. L’assetto liturgico fa semplicemente sì che i cristiani abbiano la certezza, siano più sicuri che questa preghiera per la sua oggettività risulti effettivamente gradita a Dio, ma questo “valore aggiunto” è incomparabilmente più esiguo dal valore della preghiera che viene fatta nello Spirito Santo.

  

Fonte: Angelo Lameri, Alla ricerca del fondamento teologico della partecipazione attiva alla liturgia. Il dibattito nella commissione liturgica preparatoria del Concilio Vaticano II (con testi inediti di G. Bevilacqua, P. Jounel, A.-M. Roguet, K. Rahner), Edizioni Liturgiche, Roma 2016, pp. 30-32.


 

sabato 11 giugno 2016

XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 12 Giugno 2016


2Sam12,7-10.13: Ho peccato contro il Signore!

Sal 31: Togli, Signore, la mia colpa e il mio peccato

Gal 2,16-19.21: Non vivo più io, ma Cristo vive in me

Lc 7,36-8,3: Sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato

Il messaggio dominante nelle letture bibliche di questa domenica è il perdono dei peccati da parte di Dio. La prima lettura  riporta le parole del profeta Natan, inviato da Dio a  Davide peccatore. Il re Davide si era innamorato di Betsabea, già sposa di Uria, e per averla aveva mandato questo valoroso soldato in prima fila così che venisse ucciso. E questo avvenne. Ciò nonostante Davide, ricondotto dalla parola del profeta alla sua autenticità e spogliato dalle difese dell’arroganza del potere, si apre totalmente e sinceramente a Dio confessando il suo peccato senza commenti ed attenuanti: “Ho peccato contro il Signore”. Ed il Signore pronuncia per mezzo del profeta l’ultima parola che è sempre quella del perdono: “Il Signore ha perdonato il tuo peccato”. Questo fatto illustra come nessuno si debba sentire totalmente schiavo del suo passato di peccato se sa accogliere il perdono di Dio che libera e salva.

Anche il brano evangelico  parla del perdono di Dio. Oltre a Gesù, i protagonisti del racconto sono due personaggi molti diversi: un uomo religioso, Simone il fariseo che invita Gesù a mangiare, e una donna peccatrice, che si avvicina a Gesù e piangendo bagna i suoi piedi con le lacrime, li asciuga con i suoi capelli, li bacia e li cosparge di olio profumato. Il fariseo, moralista intransigente, si scandalizza del fatto che Gesù lasci che una prostituta conosciuta nella zona compia un gesto di tenerezza nei suoi confronti. La risposta di Gesù allo scandalo del fariseo è data attraverso il racconto di una parabola, in cui si parla di due debitori insolventi ai quali il creditore condona il debito: il primo, il cui debito era più grande, è il simbolo della donna che ha coscienza del grande perdono ricevuto; il secondo è simbolo invece del fariseo che, convinto della sua superiorità morale, chiude il cuore alla riconoscenza e si attiene ad una minima e formale gratitudine nei confronti di Dio che perdona. Gesù allora gli svela l’insensibilità della sua coscienza rispetto alla tenera sensibilità della donna. 

Sulla stessa linea di pensiero si pone san Paolo nella seconda lettura  quando proclama che la giustizia del cristiano non proviene da una prassi autonoma della virtù. Non sono le opere della Legge che, eseguite alla perfezione, hanno reso giusto il credente; è stata piuttosto la sua fede in Cristo e cioè la disponibilità a ricevere attraverso Cristo il perdono di Dio.

venerdì 10 giugno 2016

LA MEMORIA DI SANTA MARIA MADDALENA ELEVATA AL GRADO DI “FESTA” (22 Luglio)


 

Con Decreto del 3 giugno 2016 della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, la memoria dei Santa Maria Maddalena è stata elevata al grado di “Festa”. I testi della Messa e della Liturgia delle Ore rimangono come si trovano negli attuali libri liturgici; viene aggiunto soltanto un prefazio proprio.

Il Calendario romano del dopo Vaticano II nella festività di santa Maria Maddalena non pensa né a Maria di Betania, né alla peccatrice anonima del Vangelo (Lc 7), ma solo a Maria Maddalena, a cui apparve Gesù dopo la risurrezione. Il Martirologio Romano, in data 22 luglio, si esprime in questi termini: “Memoria di santa Maria Maddalena, che, liberata dal Signore da sette demoni, divenne sua discepola, seguendolo fino al monte Calvario, e la mattina di Pasqua meritò di vedere per prima il Salvatore risorto dai morti e portare agli altri discepoli l’annuncio della risurrezione”.

Tutti i testi del Messale Romano di Paolo VI fanno riferimento alla Maddalena a cui Gesù affida “il primo annunzio della gioia pasquale” (colletta). Il vangelo è quello di Gv 20,1-2.11-18, che narra appunto l’incontro della Maddalena col Cristo risorto. L’antifona d’ingresso riprende il testo di Gv 20,17: “Il Signore disse a Maria Maddalena: ‘Va dai miei fratelli, e dì loro: Io salgo al padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro’ ”. L’orazione sulle offerte fa riferimento a “Cristo risorto che accolse la testimonianza di riverente amore di Maria Maddalena”. E nella preghiera dopo la comunione chiediamo che il sacramento ricevuto “accenda anche in noi l’amore ardente e fedele di santa Maria Maddalena per il Cristo Maestro e Signore”.

Anche la Liturgia delle Ore del dopo Vaticano II pensa sempre a Maria Maddalena a cui apparve Gesù dopo la risurrezione. Noto che le Invocazioni delle Lodi e le Intercessioni dei Vespri sono lo stesso testo, che riprende le Invocazioni delle Lodi del Comune delle Sante con una significativa variante: al posto dell’invocazione che parla di Gesù che ha perdonato molto alla donna peccatrice (del Comune delle Sante), troviamo la seguente invocazione/intercessione: “Signore Gesù, che appena risorto ti sei mostrato alla Maddalena…”

Il Calendario romano anteriore al Vaticano II identifica Maria Maddalena con la peccatrice penitente e con Maria di Betania, la sorella di Lazzaro. Il Messale Romano del 1962, al 22 luglio celebra S. Mariae Magdalenae Paenitentis. L’oratio del formulario identifica Maria Maddalena con Maria, la sorella di Lazaro. Il vangelo è quello di Lc 7,36-50 in cui si parla della peccatrice che entra in casa del fariseo, dove si trova Gesù, e piangendo bagna con le sue lacrime i piedi del Signore. Lo stesso criterio segue il Breviario Romano. 

La distinzione delle tre Marie sembra che corrisponda meglio alla tradizione biblica, e permette di focalizzare meglio il messaggio della prima annunciatrice del kerigma pasquale. L’attuale Martirologio Romano fa memoria il 29 luglio di Maria di Betania insieme con sua sorella Marta e il loro fratello Lazzaro. La liturgia greca celebra Maria di Betania il 18 marzo; la peccatrice convertita il 31 dello stesso mese; e Maria Maddalena il 22 luglio, come fa la liturgia romana.

http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2016/06/10/0422/00974.html

M. Augé

domenica 5 giugno 2016

IL TRIDUO PASQUALE AMBROSIANO


Norberto Valli, Il triduo pasquale ambrosiano (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae” – “Subsidia” 176), CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2016. 260 pp.

Letture bibliche conservatesi inalterate lungo i secoli, testi eucologici, tra i quali due anafore peculiari, insieme a elementi non verbali consentono di riconoscere nel Triduo ambrosiano la sedimentazione di un’articolata comprensione del significato della Pasqua, che attinge alla riflessione patristica, risalendo fino ai primi secoli del cristianesimo.

La santa messa vespertina “nella cena del Signore”, caratterizzata da un ordinamento tipicamente vigiliare, costituisce il solenne ingresso nel primo giorno del Triduo pasquale, dedicato alla commemorazione della morte del Signore e chiuso con la celebrazione della sua sepoltura. Al tramonto del giovedì della “settimana autentica” si compie quello che può essere definito il primo atto dell’annuale memoria della passione. Gesù si consegna ai suoi nel dono inestimabile dell’eucaristia, mentre è consegnato da Giuda ai nemici e tradito da Pietro. A scandire il susseguirsi degli eventi rivissuti nelle celebrazioni è la proclamazione della passione secondo Matteo in progressione cronologica, secondo l’antico uso gerosolimitano.

Nel venerdì santo la Chiesa milanese contempla Cristo che si offre vittima al Padre per liberare tutta l’umanità dal peccato e dalla morte; nella solenne azione liturgica, generalmente pomeridiana, si pone in ascolto delle profezie di Isaia e del loro compimento neotestamentario, adora la croce e intercede per tutte le necessità, sperimentando nella privazione della comunione l’assenza dello Sposo. Nelle ore serali rivive poi la sua deposizione nel sepolcro, sempre in conformità al paradigma agiopolita reperibile nelle testimonianze offerte dal diario di Egeria e dal lezionario armeno di Gerusalemme.         

L’analisi dettagliata dei diversi elementi rituali, nel loro sviluppo storico e nel loro significato teologico, mette in luce come nella Veglia pasquale ambrosiana si generi una tensione verso il momento in cui il triplice annuncio della risurrezione e la celebrazione dell’eucaristia restituiscono ai fedeli la gioia della presenza del Vivente.

Nei due formulari per la messa de sollemnitate e per la messa pro baptizatis della domenica “nella risurrezione del Signore” si coglie, in fine, nitidamente il rapporto tra sana traditio e legitima progressio che ha guidato la riforma post-conciliare del rito ambrosiano.

(Quarta di copertina)

venerdì 3 giugno 2016

X DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 5 Giugno 2016

1Re 17,17-24: Guarda! Tuo figlio vive

Sal 29: Ti esalto, Signore, perché mi hai risollevato

Gal 1,11-19: Il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano

Lc 7,11-17: Il Signore fu preso da grande compassione

Dio è il Signore della vita che vince la morte: questo è il tema centrale della presente domenica. La prima lettura  e il vangelo parlano di un fatto miracoloso molto simile, il primo compiuto dal profeta Elia, il secondo realizzato da Gesù: Elia, dopo aver invocato intensamente il Signore, risuscita il figlio della vedova di Zarepta che gli dava ospitalità; anche Gesù risuscita il figlio di una vedova, quella incontrata per le strade di Nain nel momento in cui essa, accompagnata da una grande folla, conduceva il suo unico figlio al sepolcro. Tra i due fatti miracolosi notiamo però una differenza fondamentale. Il profeta Elia per ridonare la vita al ragazzo si rivolge prima a Dio con un’intensa preghiera di supplica, a Dio che è l’unico padrone della vita e della morte. Gesù invece risuscita il giovinetto solo con la forza della sua parola. Diversa è anche la reazione dei testimoni di questi fatti miracolosi. La vedova di Zarepta riconosce in Elia un “uomo di Dio”; tutti coloro invece che sono testimoni della risurrezione compiuta da Gesù a Nain, riconoscono in lui non solo un grande profeta, ma acclamano in modo corale: “Dio ha visitato il suo popolo”. Il miracolo compiuto da Gesù rivela che la singolare presenza di Dio in Cristo è l’unica salvezza e redenzione e liberazione dalla morte; preannuncia inoltre la vittoria definitiva sulla morte realizzata dal Risorto in favore nostro.

Al centro del vangelo di Gesù c’è una speranza che illumina il mistero del dolore e della morte, l’unico vero grande mistero della nostra vita. San Paolo, nella seconda lettura d’oggi ci ricorda che il messaggio evangelico non è una pura invenzione degli uomini; l’Apostolo offre tutte le garanzie della sua chiara testimonianza per assicurarci che questa parola di speranza è vera “rivelazione di Gesù Cristo”. Se, come afferma la filosofia esistenzialistica moderna, l’angoscia dell’uomo è il prodotto di un incontro col nulla, il cristiano è chiamato a vincere quest’angoscia incontrando nella sua vita Cristo, che ha detto di se stesso: “Io sono la risurrezione e la vita” (canto al vangelo – Gv 11,25). E’ nel suo nome che la liturgia odierna ci invita a vincere la paura della morte.