Nel corso dei lavori della Commissione liturgica
preparatoria al Concilio Vaticano II, il card. Gaetano Cicognani ha voluto che
fossero consultati alcuni noti teologi, non membri della Commissione, sulla
natura e valore della preghiera fatta “in nomine Ecclesiae”. Karl Rahner,
consultato, rispose distinguendo in primo luogo la glorificazione oggettiva di
Dio da quella formale. La prima viene data a Dio da ogni creatura per il solo
fatto di esistere, la seconda quando la creatura, dotata di spirito e libera,
riconosce spontaneamente e amorosamente l’infinita superiorità di Dio.
Questa distinzione è letta da Rahner in relazione
all’opus operatum e all’opus operantis. Circa la preghiera
infatti – quoad substantiam – anche se
fatta senza devozione può valere come soddisfazione dell’obbligo di recitare il
breviario, quindi anche una preghiera di questo genere risulta compiuta “in
nome della Chiesa”. In realtà però solo una preghiera suscitata e vivificata
dalla grazia soprannaturale si può chiamare per Rahner atto salvifico: è la
divinizzazione dell’uomo che consiste nell’autocomunicazione di Dio tramite la
grazia increata. Questa divinizzazione si attualizza in chi prega attraverso
quei gemiti inesprimibili coi quali lo Spirito Santo stesso divinizza questa
preghiera nei cuori dei giustificati. Ne consegue che ogni preghiera
soprannaturale che viene fatta attingendo alla grazia di Cristo e quindi in
seno al suo Corpo mistico può a buon diritto venire detta un atto della Chiesa.
Non possiamo qui non segnalare il valore di questa affermazione sul versante
ecumenico. Rahner infatti rifugge da quello che definisce un “Nestorianimus ecclesiologicus” che enumera nel concetto
complessivo di Chiesa solo le note che rientrano nella sua struttura esteriore
e sociale. Nel concetto di Chiesa non si deve trascurare l’interiore animazione
dello Spirito Santo, grazie alla quale non è lecito dire “simpliciter extra
Ecclesiam esse, qui Spiritum hunc huius Ecclesiae possident”. Da questa
prospettiva la preghiera degli acattolici giustificati dalla grazia, che hanno
ricevuto un battesimo valido e fruttuoso, “licet visibilia membra Ecclesiae visibilis
non sint simpliciter, oratio (absolute loquendo, i.e. si oratio mensuratur
secundum mensuram ultimam dignitatis et valoris
orationis, quae est gratia) eiusdem dignitatis et valoris est quam
oratio membrorum simpliciter et strictissime dictorum. Nam horum oratio
summam et decisivam dignitatem obtinet
ex illa gratia et illa coniunctione cum Christo et cum eius corpore
mystico, quibus etiam illi acatholici iustificati donati sunt, et non precise
ex eorum vinculis iuridicis et externis cum Ecclesia”.
Ogni preghiera soprannaturale infatti, che viene
fatta in seno al Corpo mistico di Cristo e attingendo alla grazia del Capo, può
venir detta rettamente un atto della Chiesa. Similmente e a maggior ragione
questo vale per quanto riguarda la preghiera comune dei fedeli, anche parlando
di quella “quae iuxta strictissimum conceptum liturgiae hodie usitatum ‘liturgica’
dici nequit”. In qualsiasi preghiera comune di questo genere infatti, risaltano
visibilmente tutte le proprietà essenziali insite in ogni preghiera. A questo
atto ecclesiale, un esplicito assetto liturgico imposto dalla Chiesa non
aggiunge alcuna dignità superiore davanti a Dio, perché non dà dignità più
grande da quella conferita alla preghiera dallo Spirito col suo gemito
inesprimibile. L’assetto liturgico non rende la preghiera del cristiano più
grande, ma atto della Chiesa in quanto società visibile, fa sì che la preghiera
comune avvenga effettivamente, degnamente e frequentemente. Per Rahner quindi
ogni preghiera del cristiano attinge il proprio valore dalla grazia increata,
dallo Spirito Santo che prega in noi e divinizza la preghiera. L’assetto
liturgico fa semplicemente sì che i cristiani abbiano la certezza, siano più
sicuri che questa preghiera per la sua oggettività risulti effettivamente
gradita a Dio, ma questo “valore aggiunto” è incomparabilmente più esiguo dal
valore della preghiera che viene fatta nello Spirito Santo.