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domenica 31 ottobre 2021

TUTTI I SANTI – 1 Novembre 2021

 


 

Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a

 

Se a Pasqua abbiamo celebrato il Cristo vivente per sempre alla destra del Padre, oggi, grazie alle energie sprigionate dalla risurrezione di Cristo, contempliamo quelli che sono con Cristo alla destra del Padre: i santi. La prima lettura ci dice che questi santi sono “una moltitudine immensa”. La seconda lettura descrive la radice della santità cristiana: essa consiste nell’essere figli di Dio e nel vivere come tali. Nella lettura evangelica Gesù ci offre la “magna charta” della santità, dove troviamo la fisionomia del perfetto discepolo di Cristo tratteggiata nel messaggio delle Beatitudini.

 

I santi non sono superuomini, ma persone che si sono realizzate umanamente seguendo la via indicata da Cristo, sintetizzata nelle Beatitudini. San Matteo colloca le Beatitudini all’inizio del Discorso della montagna (Mt 5,1-7,29). La tradizione ecclesiale considera questi capitoli di Matteo le basi fondanti dell’etica cristiana, il modo di vivere di chi si dice cristiano. Le Beatitudini sono una proclamazione messianica, l’annuncio che il Regno di Dio è arrivato per tutti. I profeti avevano descritto il tempo messianico come il tempo dei poveri, degli affamati, dei perseguitati, degli inutili. Gesù proclama che questo tempo è arrivato. Per Gesù le Beatitudini si riducono a una sola: la gioia del Regno arrivato. Ed è alla luce del Regno arrivato (Regno che ha capovolto i valori umani) che si giustifica la paradossalità delle sue affermazioni.

 

Dopo una lettura rapida delle Beatitudini, dentro di noi risuona come un’eco la parola “beati” che Gesù pronuncia otto volte, all’inizio di ogni beatitudine. È una parola nota alla tradizione biblica, una parola augurale, un’invocazione di tutti quei beni che vengono da Dio. Beato è l’uomo che riceve la salvezza. Essa richiede come presupposto la fede (Mt 16,17; Lc 11,28), la perseveranza nella fede (Gc 1,12) e la vigilanza per attendere il Signore (Lc 12,37). Gesù chiama beati i poveri, i miti, gli afflitti, gli affamati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati a causa della giustizia. Ogni augurio è accompagnato da una promessa. E notiamo subito che l’ultima corrisponde alla prima: “di essi è il regno dei cieli”. Mentre l’Antico Testamento giungeva ad identificare la beatitudine con Dio stesso, Gesù si presenta a sua volta come colui che porta a compimento l’aspirazione alla beatitudine: il regno dei cieli è presente in lui. Più ancora, Gesù “incarna” le Beatitudini vivendole perfettamente. Ecco perché la proclamazione delle Beatitudini è preceduta da un’annotazione generale che riassume l’attività di Gesù (Mt 4,23-24): lo circondavano ammalati di ogni genere, sofferenti, indemoniati, epilettici, paralitici. Ha cercato i poveri e li ha amati con amore di predilezione. Egli fu povero, sofferente, affamato, perseguitato: eppure amato da Dio e salvatore. La vita di Cristo dimostra che i poveri sono beati, perché essi sono al centro del Regno e perché sono essi, i poveri, i crocifissi, che costruiscono la salvezza. Gesù ha vissuto l’ideale delle Beatitudini e in lui tutte le promesse di Dio si sono realizzate. Non siamo quindi di fronte ad una pura utopia, ma a un programma di vita che è possibile per ogni discepolo. Ce lo dimostra la schiera immensa dei santi che oggi la Chiesa venera come modelli e intercessori (cf. il prefazio).

 

La festa odierna costituisce inoltre un forte richiamo a riscoprire il santo che è accanto a noi, a sentirci parte di un unico corpo che è la Chiesa santa, cattolica e apostolica.

venerdì 29 ottobre 2021

DOMENICA XXXI DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 31 ottobre 2021

 



 Dt 6,2-6; Sal 17; Eb 7,23-28; Mc 12,28b-34.

 

La tradizione giudaica aveva catalogato ben seicentotredici precetti della legge biblica, sulla cui gerarchia di valori e importanza si discuteva aspramente. Alla domanda che gli fa lo scriba su quale sia il primo comandamento, Gesù riprende la professione di fede che ogni giorno ripeteva l’ebreo nella sua preghiera, testo che inizia con le parole “Ascolta, o Israele”, ed è riportato nella prima lettura. Ma Egli arricchisce il testo in modo considerevole. Infatti, Gesù commenta insieme due comandamenti e li rende una sola cosa. Più in concreto, Gesù propone non solo l’amore di Dio, ma anche del prossimo nonché l’amore di se stesso: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Colui che non è capace di amare se stesso, non è capace di amare il prossimo e, di conseguenza, non sa amare Dio. Sono tre amori che hanno una sola e identica radice.

 

Ma cosa significa amare, in particolare, cosa significa amare Dio? Possiamo rispondere riprendendo le parole della preghiera ebraica citata da Gesù: “Ascolta, o Israele”. L’ascolto è già un movimento di amore in quanto ascoltando mi apro all’altro e accolgo in me la sua presenza. L’ascolto fonda un legame, una relazione in cui io esco dal mio egoismo, dal mio isolamento e mi apro alla relazione verso un altro. L’ascolto ci pone nella situazione di relazione e di libertà che è essenziale per amare. Un amore imposto è un amore falso.

 

Amare Dio, poi, non consiste in un ricordo passeggero di Dio all’inizio o alla fine della giornata; non consiste neppure in invocarlo nel momento del bisogno. Nelle parole di Gesù ritorna insistente una parola che esprime totalità e continuità: “con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima”, “con tutta la tua mente”, “con tutta la tua forza”. Si tratta quindi di un amore che si impadronisce di tutta la nostra esistenza, che invade ogni nostro pensiero e ogni azione, che dà forma alla vita. Quando l’amore a Dio non ha queste caratteristiche, la nostra fede e la nostra pratica religiosa si impoveriscono, diventano formalismo, legalismo, forse addirittura superstizione. Gesù, poi, nella sua risposta offre la prospettiva di fondo con cui vivere l’intera legge di Dio.

 

Ricordiamo, finalmente, che l’amore è soprattutto un dono che Dio ci elargisce. Lo abbiamo affermato all’inizio della messa quando abbiamo pregato nell’orazione colletta del giorno: “O Padre, donaci la grazia dell'ascolto, perché i cuori, i sensi e le menti si aprano al comandamento dell'amore”. Chiediamo questo dono.

 


domenica 24 ottobre 2021

IL CONCETTO DI “RELIGIONE”

 



 

L'uomo religioso, secondo Cicerone, è colui che riconsidera (da relegere) con cura tutto ciò che riguarda il culto degli dèi e pratica questo culto con diligenza; non è colui che “crede”, ma colui che celebra nelle forme dovute i riti tradizionali. Su questa posizione si rivelerà netta la differenza cristiana espressa dalla teologia di Lattanzio e di Agostino.

Secondo Lattanzio, a Dio noi siamo connessi strettamente e legati da un vincolo di pietà dal che la religio prese questo nome, non come ha interpretato Cicerone da “riprendere” (a relegendo, “raccogliere di nuovo, considerare con attenzione”).

Secondo Agostino, avevamo perduto Dio trascurandolo: è evocata in questo modo la storia della salvezza cristiana, di una umanità che alle origini abbandona il suo Creatore cadendo nel peccato e che ritorna a Lui nel processo di conversione. Religio per Agostino e un re-eligere, è uno scegliere di nuovo Dio, un ritornare a legarsi a Lui. Si parla, infatti, di un “tendere”, di un “rivolgersi” a Dio. E se in Lattanzio questo rivolgersi a Dio è pietas, con Agostino diventa dilectio.

In Tommaso D'Aquino è evidente l'ispirazione agostiniana, però Tommaso aggiunge che questo nuovo legame è dato dalla fede.

Gli autori citati pur appartenendo a una medesima area linguistica culturale sono testimoni di profondi mutamenti di significato del termine religio senza che peraltro si dimentichi una certa continuità. La grande svolta avvenuta con Agostino, il quale ha dato un'impronta più specifica dal punto di vista della fede religiosa illuminata dalla rivelazione cristiana e, infine, con il grande Tommaso d'Aquino, con la sistematicità della comprensione del dato di fede nel più ampio contesto della ragione.

 

Fonte: questo testo è ispirato all’opera di Antonio Ascione – Dario Sessa, In ascolto del sacro, Un itinerario di fenomenologia della religione, Roma 2020, pp. 14-31.

venerdì 22 ottobre 2021

DOMENICA XXX DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 24 Ottobre 2021

 



 

Ger 31,7-9; Sal 125; Eb 5,1-6; Mc 10,46-52

 

La prima lettura parla del popolo d’Israele in esilio che viene consolato dalle parole di speranza del profeta Geremia, il quale annuncia a tutti coloro che “erano partiti nel pianto” l’intervento salvifico di Dio che li riporterà in patria “tra le consolazioni”. L’evento, nella rilettura che ne fa la liturgia, diviene la profezia della grande restaurazione messianica, espressa simbolicamente nel brano evangelico odierno dalla narrazione della guarigione del povero cieco Bartimeo, compiuta da Gesù lungo la strada che porta a Gerusalemme. Due situazioni che illustrano assai bene la condizione della creatura umana alla ricerca della salvezza. Alla luce del disegno salvifico di Dio, tutti i personaggi e gli eventi della Bibbia possono essere considerati paradigmatici, cioè esemplari. In essi possiamo ritrovare noi stessi con i nostri problemi e le nostre attese.

 

Prendiamo il personaggio Bartimeo. È seduto sulla strada a mendicare. Non è neppure in grado di vedere Gesù. Il cieco però, attraverso la fitta coltre delle tenebre che lo avvolge, riesce a sentire che Gesù Nazareno è lì di passaggio, e grida fiducioso invocando da lui pietà. Gesù lo fa chiamare, gli domanda cosa vuole e, alla richiesta del cieco che chiede di riavere la vista, Gesù lo guarisce con queste parole: “Va, la tua fede ti ha salvato”. La risposta di Gesù va oltre la richiesta del povero cieco. Egli grazie alla sua fede, non è solo liberato dalla sua infermità, ma “salvato”. Il racconto di san Marco si chiude con questa annotazione: “E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada”. Ormai Bartimeo vede in Gesù non solo il “benefattore” (Figlio di Davide) capace di guarirlo, ma anche il Maestro da seguire per la strada. La guarigione di questo cieco ha quindi una dimensione fisica, ma nello stesso tempo una dimensione spirituale: è stato liberato dalla cecità per poter diventare discepolo di Gesù. Il rilievo dato alla fede come causa della guarigione e la sequela da parte di questo “emarginato” hanno un significato paradigmatico: la salvezza è donata all’uomo nella fede e nella sequela lungo la strada verso la croce (questo miracolo è l’ultimo compiuto da Gesù in cammino verso Gerusalemme). Chi incontra il Cristo, chi si fida di lui, come il cieco Bartimeo, incontra la salvezza, viene cioè liberato dal suo male. Ma non basta incontrare il Cristo, occorre mettersi anche al suo seguito e condividere la sorte del Maestro che porta alla croce ma anche alla risurrezione.

 

Alla luce della seconda lettura, che parla di Gesù “sommo sacerdote”, che “è in grado di sentire giusta compassione” per le nostre sofferenze e debolezze,  la guarigione del cieco di Gerico assume le caratteristiche di un’opera di misericordia con la quale Gesù rivela l’amore misericordioso del Padre per noi. Da soli non riusciamo a vedere il cammino che conduce alla salvezza. Incontrare Cristo significa incontrare la luce che illumina il cammino che conduce alla salvezza attraverso i sentieri tortuosi della vita.

 

UN DECRETO PER L’APPLICAZIONE DI “MAGNUM PRINCIPIUM”

 



Quattro anni fa, il 3 settembre 2017, papa Francesco pubblicava il Motu proprio Magnum principium (MP), con cui modificava il can. 838 del Codice di Diritto Canonico e restituiva alle Conferenze episcopali un potere che appartiene loro.

Infatti, il Motu proprio MP rappresenta un ritorno al dettato conciliare, che in Sacrosanctum Concilium 36 § 4 afferma: “La traduzione del testo latino in lingua viva, da usarsi nella liturgia, deve essere approvata dalla competente autorità ecclesiastica territoriale”.

Il Decreto odierno della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti attuativo delle disposizioni del can. 838 del Codice di Diritto Canonico, nella prima parte, richiama di nuovo, interpreta ed emenda le norme, la disciplina, le procedure in materia di traduzione dei libri liturgici e del loro adattamento, in particolare quanto alle competenze della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e delle Conferenze Episcopali. Nella seconda parte si indicano alcune “variationes”, dopo quelle già pubblicate nel 1983 (cf. Notitiae 19 [1983] 540-541), da introdurre nelle nuove edizioni dei libri liturgici.

 

domenica 17 ottobre 2021

Salmo 90 (89) Eternità di Dio e brevità della vita dell'uomo

 


 

1 Preghiera. Di Mosè, uomo di Dio.

Signore, tu sei stato per noi un rifugio
di generazione in generazione.

2 Prima che nascessero i monti
e la terra e il mondo fossero generati,
da sempre e per sempre tu sei, o Dio.

3 Tu fai ritornare l'uomo in polvere,
quando dici: «Ritornate, figli dell'uomo».

4 Mille anni, ai tuoi occhi,
sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte.

5 Tu li sommergi:
sono come un sogno al mattino,
come l'erba che germoglia;

6 al mattino fiorisce e germoglia,
alla sera è falciata e secca.

7 Sì, siamo distrutti dalla tua ira,
atterriti dal tuo furore!

8 Davanti a te poni le nostre colpe,
i nostri segreti alla luce del tuo volto.

9 Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua collera,
consumiamo i nostri anni come un soffio.

10 Gli anni della nostra vita sono settanta,
ottanta per i più robusti,
e il loro agitarsi è fatica e delusione;
passano presto e noi voliamo via.

11 Chi conosce l'impeto della tua ira
e, nel timore di te, la tua collera?

12 Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.

13 Ritorna, Signore: fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi!

14 Saziaci al mattino con il tuo amore:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.

15 Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti,
per gli anni in cui abbiamo visto il male.

16 Si manifesti ai tuoi servi la tua opera
e il tuo splendore ai loro figli.

17 Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l'opera delle nostre mani,
l'opera delle nostre mani rendi salda.

 

Questo salmo nel titolo viene attribuito a “Mosè, uomo di Dio” (v. 1); è l’unico salmo del Salterio attribuito a Mosè. Non si tratta di un dato storico, ma della volontà di porre sotto la sua paternità una meditazione sorta in un periodo di crisi e di rinascita di Israele, probabilmente quello del ritorno dall’esilio babilonese. Con questo capolavoro, per la profondità dei concetti e la forza delle immagini, si apre il quarto libro del Salterio, il più corto (Sal 90-106). Il centro di gravità di questi salmi ruota intorno a coloro che proclamano il Signore re. Domina nel nostro salmo il simbolismo del tempo. Da una parte vi è il riconoscimento della stabilità di Dio, il suo tempo è l’eternità; dall’altra la constatazione dell’inconsistenza e fragilità dell’uomo, il suo tempo è breve come un soffio.

 

La struttura. Il salmo si apre con una profonda riflessione sulla durevole protezione di Dio (vv. 1-2). Prosegue con una generale affermazione sulla caducità umana (vv. 3-6). La causa di questa caducità e miseria va ricercata nelle nostre colpe, che attirano su di noi l’ira di Dio (vv. 7-11). Dopo queste considerazioni, il salmo si conclude con una richiesta a Dio di mandare il suo conforto e la sua benedizione (vv. 12-17).

Il contenuto. Il salmista inizia riconoscendo che il Signore è stato una dimora, un rifugio per il popolo “di generazione in generazione” (v. 1). Si comincia con la lode di Dio, affinché tutte le avversità che in seguito accadranno all’uomo sembrino dovute non alla durezza del Creatore, ma alla colpa della creatura. Dal v. 3 si sposta la riflessione sull’uomo. Dio è Dio “da sempre e per sempre” (v. 2), ma gli esseri umani siamo fragili ed effimeri. Creati dalla “polvere” (Gen 2,7), ad un ordine di Dio alla polvere ritorneremo. D’altra parte, siamo come “erba” (vv. 5-6) sotto il caldo sole della Palestina: appena cresciuta al mattino, avvizzisce e muore alla sera. Il tempo di Dio è senza limiti; il tempo dell’uomo è “come un turno di veglia nella notte”.

Dopo questa descrizione sulla caducità dell’uomo, si passa senza soluzione di continuità a quella sul fuoco bruciante dell’ira di Dio (vv. 7, 9, 11).  Ci domandiamo: la brevità e fragilità della vita umana va intesa come punizione di Dio per i nostri peccati? Qui bisogna dare uno sguardo ad altri testi della Bibbia, in particolare dello stesso Salterio: “la sua collera [del Signore] dura un istante, la sua bontà per tutta la vita” (Sal 30,6); “tu, Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà” (Sal 86,5). L’ira di Dio va interpretata nel contesto della sollecitudine di Dio per noi, del suo amore per noi, un amore esigente.

Se agli occhi di Dio “mille anni sono come il giorno di ieri che è passato” (v. 4), che cosa sono i brevi anni della nostra vita umana: “settanta, ottanta per i più robusti” (v. 10)? Oggi possiamo aggiornare questi numeri, ma la situazione non cambia, ben descritta al v. 9: “consumiamo i nostri anni come un soffio”.

Dopo queste considerazioni, dal v. 12 in poi, il salmo diventa una pressante preghiera di supplica, aperta da una domanda che racchiude in sé il vero messaggio dell’intero salmo: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio” (v. 12). Contare i propri giorni, ovvero accogliere la consapevolezza del proprio limite, della propria morte, è fonte della vera sapienza, quella che dimora nel cuore umano o lo rinnova costantemente. Riconciliati con i nostri limiti, ci apriamo al disegno divino e chiediamo: “Ritorna, Signore…” (v. 13). La nostra caducità si rifugia nell’Infinito. Chiediamo al Signore che abbia pietà di noi, ci sazi con il suo amore, ci renda la gioia “per gli anni in cui abbiamo visto il male” e “sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio”. Alla fine del salmo invochiamo la benedizione del Signore sulle nostre opere: “rendi salda per noi l’opera delle nostre mani” (v. 17).

Dimensione cristiana. Sulla fragilità e caducità umana, nel Nuovo Testamento troviamo diversi testi che confermano quanto afferma il nostro salmo. Gesù nel suo discorso sulla provvidenza divina, dice, tra l’altro, “chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?” (Mt 6,27). E nelle parabole, abbiamo quella sul ricco stolto soddisfatto perché ha accumulato molti beni per il futuro, che si sente dire da Dio: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita” (Lc 12,20). San Pietro riprende il v. 4 del nostro salmo quando invita a non dimenticare che “davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno” (2 Pt 3,8). E nella sua prima lettera, citando Is 40,6-8, afferma: “ogni carne è come l’erba e tutta la usa gloria come un fiore di campo. L’erba inaridisce, i fiori cadono, ma la parola del Signore rimane in eterno” (1 Pt 124-25).

Il riconoscimento della fragilità e della caducità della nostra esistenza di fronte all’infinita grandezza di Dio, è la condizione prima per stabilire la verità dei nostri rapporti con Dio nella vita. Ma il Nuovo Testamento, pur affermando questa nostra radicale caducità, ci ricorda che siamo stati scelti in Cristo secondo un disegno d’amore: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà” (Ef 1,4-5).

 

Preghiera: O Dio, tu sei l’immenso e l’eterno, noi invece, polvere, attimo fuggente, fieno che appassisce; volgiti a noi con la tua grazia, e colmerai di gioia la brevità delle nostre giornate e la fatica delle nostre povere mani.

 

Bibliografia: Spirito Rinaudo, I salmi preghiera di Cristo e della Chiesa, Elle Di Ci, Torino-Leumann 1973; Vincenzo Scippa, Salmi, volume 1. Introduzione e commento, Messaggero, Padova 2002; Ludwig Monti, I salmi: preghiera e vita, Qiqajon, Comunità di Bose 2018; Temper Longman III, I salmi, 2018.

venerdì 15 ottobre 2021

DOMENICA XXIX DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 17 Ottobre 2021

 



 

Is 53,10-11; Sal 32; Eb 4,14-16; Mc 10,35-45


Nel brano evangelico odierno possiamo distinguere due momenti. Nel primo, vediamo gli apostoli e fratelli Giacomo e Giovanni che si avvicinano a Gesù per chiedergli l’onore dei primi posti accanto a lui nella gloria. Notiamo che la richiesta degli apostoli segue immediatamente il terzo annuncio della passione, morte e risurrezione fatto da Gesù ai Dodici sulla strada per Gerusalemme (cf. Mc 10,32-34). Con la Ioro incosciente richiesta, i due figli di Zebedeo dimostrano, da un lato, la loro incomprensione delle parole che Gesù ha appena pronunciato sul futuro di sofferenza e di morte e, dall’altro, rivelano di vivere la comunità come finalizzata alla loro personale riuscita. Evidentemente gli interessi dei discepoli si muovono su un livello del tutto diverso da quello su cui si muove Gesù, totalmente proteso a fare la volontà del Padre. Nel secondo momento, troviamo la risposta di Gesù, il quale rifiuta le pretese dei discepoli e al tempo stesso propone un nuovo ordine di valori ai quali si deve attenere colui che intende seguirlo: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse […] Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”. Gesù dice come orientare la tendenza a primeggiare in modo che l’agire del discepolo sia una vera contestazione del comune agire degli uomini e serva a costruire una comunità di fratelli: ognuno deve mettere i propri doni, i carismi ricevuti, al servizio del bene comune, senza ricerca di privilegi.

 

Il discepolo, quindi, deve distanziarsi dalle logiche mondane e conformarsi al comportamento del Figlio dell’uomo, che “non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (cf. anche la prima lettura). In queste lapidarie parole di Gesù sono racchiuse quattro avvertenze: la prima è che servire è una dimensione dell’intera esistenza, non un frammento del nostro tempo o del nostro agire. Servire cioè è un modo di esistere, uno stile che nasce dal profondo di se stessi. La seconda avvertenza è che lo stile del servizio si oppone nettamente alla logica del farsi servire. Non si possono vivere alcuni spazi come servizio e altri come ricerca di sé. La terza avvertenza è che servire significa in concreto vivere sentendosi responsabile degli altri. La quarta avvertenza e forse la più importante: il vero servizio non raggiunge soltanto i bisogni, ma accoglie la persona. Si potrebbe essere efficienti per quanto riguarda i bisogni, trascurando poi del tutto le persone. Per Gesù i “molti” per i quali dona la vita sono persone, volti, non masse anonime o semplicemente problemi da risolvere.

 

L’insegnamento di Gesù punisce la nostra ambizione, il nostro pensare incentrato sull’esito personale, sulla nostra inconfessata brama di potere, la nostra ricerca di prestigio, il nostro vaneggiare di grandezza. I discepoli di Gesù siamo chiamati a porre nella società i germi concreti di uno stile di vita nuovo, di una generosità grande e piena. La parola di Gesù stigmatizza la logica dei poteri mondani, ma soprattutto si rivolge alla Chiesa. La prima testimonianza “politica” della Chiesa consiste nella sua strutturazione interna, nell’organizzazione delle sue strutture di autorità e nel modo di vivere l’autorità, che dev’essere conforme a quanto vissuto da Cristo e da lui richiesto ai discepoli.


domenica 10 ottobre 2021

IL SACRO





Antonio Ascione – Dario Sessa, In ascolto del sacro, Un itinerario di fenomenologia della religione, Angelicum University Press, Roma 2020. 260 pp. (€ 15,00).

 

Il presente contributo si propone di cogliere all’interno del l’amplissima pluralità di manifestazioni dell’Assoluto gli elementi unificanti, servendosi degli strumenti offerti dalla fenomenologia della religione, che ha il compito di comparare e di interpretare tali fatti così come essi si esprimono (“appaiono”) all’interno della coscienza dell’uomo.

La conclusione è l’esigenza indistruttibile che gli uomini hanno di legare la loro vita a qualcosa di superiore e di sacro, che è una costante storica e non si estingue neppure in contesti di forte secolarizzazione, come quello dell’uomo contemporaneo. Questo, pur essendo evoluto e forte di un progresso scientifico e tecnologico senza precedenti, non solo non sa più andare oltre le barriere del tempo e della mortalità, ma non sa più dare senso e significato alla sua avventura storica, pagando a caro prezzo la disintegrazione dello slancio mistico (Quarta di copertina).

1. Definire la religione.

2. Il sacro.

3. Simbolo e simbolismo.

4. Il mito e il racconto delle origini.

5. Il rito nella vita dell’uomo religioso.

6. Le grandi figure della fenomenologia della religione.

7. Il “sacro” nell’era secolare.   

venerdì 8 ottobre 2021

DOMENICA XXVIII DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 10 Ottobre 2021

 



Sap 7,7-11; Sal 89; Eb 4,12-13; Mc 10,17-30

 

La prima lettura è un invito a formarsi la giusta scala dei valori. Il testo parla di ricchezza, onore, potere, salute, bellezza, tutte cose in sé positive e quindi appetibili. Tuttavia tutte queste realtà non sono capaci di appagare la nostra sete di felicità, perché il loro valore rimane essenzialmente limitato e appunto per questo, non di rado, a chi le possiede lasciano il cuore vuoto. Ecco quindi che la parola di Dio ci esorta a colmare il vuoto del nostro cuore con un bene che non tramonta, “lo spirito della sapienza”, l’unica vera ricchezza. Colui che cerca instancabilmente questa sapienza senza lasciarsi incantare da altre bellezze è una persona veramente saggia. Colui che incontra la sapienza, la conosce e ne fa il centro della propria vita sarà felice, perché con essa vengono tutti gli altri beni.

 

Ma cos’è questa sapienza di cui parla la prima lettura. La risposta la troviamo nel brano evangelico d’oggi. La vera sapienza consiste nell’accogliere la chiamata di Gesù e seguirlo collocando in lui ogni nostra speranza. L’uomo che si avvicina a Gesù viene presentato come un giusto osservante dei comandamenti di Dio e, al tempo stesso, molto ricco. Si tratta apparentemente quindi di un uomo a cui non manca nulla per essere felice. Ciò nonostante, quest’uomo sente il bisogno di qualcosa di più per assicurarsi la vera felicità, la vita eterna. Ecco perché si rivolge a Gesù in cerca di un consiglio: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. Alla risposta di Gesù che gli chiede di donare i suoi beni ai poveri e seguirlo, il nostro uomo non ha la forza di rinunciare alle ricchezze e preferisce la sicurezza di queste ad una vita totalmente donata a Cristo. Il saggio invece è colui che dinanzi a questo dilemma, sceglie Cristo. Naturalmente, non tutti sono chiamati a fare un gesto così radicale, ma tutti siamo chiamati, quando ciò sia necessario per la nostra salvezza, a posporre i beni terreni ai valori del vangelo o, in altre parole, tutti siamo chiamati ad acquisire quella sapienza, alla luce della quale siamo in grado di valutare le cose terrene ed eterne diventando interiormente liberi e quindi aperti ai valori del regno di Dio. Nella sobrietà di quei beni che il Vangelo chiama ricchezze si trova la possibilità di altri beni ben più importanti.

 

Nell’ascolto assiduo della parola di Dio, ognuno di noi è chiamato a dare le sue risposte. La parola di Dio infatti non è semplice cronaca, ma è voce di Dio che ci interpella e ci sollecita ad una concreta risposta. Come ci ricorda la seconda lettura, “la parola di Dio è viva, efficace […]; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito […] e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore”. Sperimentare l’efficacia della parola di Dio significa aprire la propria vita ad un vero incontro con il Signore. Lasciamoci interpellare da questa parola. Non permettiamo che le loro sollecitazioni vadano a vuoto.

domenica 3 ottobre 2021

LA SOLITUDINE E L’ASCOLTO DELL’INFINITO

 



 

Ci si può sentire soli anche immersi in una grande folla, e non ci si può sentire soli nel deserto, se l’isolamento, in cui ci troviamo, è riscattato e redento dalla apertura a noi stessi e agli altri, siano o non siano presenti, e a Dio. Le cose sembrano semplici: non siamo soli quando siamo in compagnia di altri, e siamo soli quando non c’è nessuno accanto a noi; ma non è così. La solitudine ci consente di ascoltare l’infinito, che è un andare al di là dei confini del nostro io, e un sentire la precarietà e la inconsistenza, la finitudine, delle cose terrestri. Ma ascoltare l’infinito in noi è possibile solo quando non ci lasciamo affascinare e divorare dal tumulto e dal frastuono, non solo delle cose che sono al difuori di noi, ma anche, e soprattutto, da quelle che si agitano in noi, nella nostra vita interiore, così fragile e così impalpabile, così nascosta e così friabile, così sensibile e così inafferrabile.

Come salvare la solitudine, e aprirsi all’infinito che è in noi, quando viviamo assediati dalle televisioni sempre accese, e dal parlare senza fine, ad alta voce, dai telefoni cellulari, che nel loro nome sembrano indicare le prigioni in cui ci troviamo reclusi? Certo, se è facile mantenere viva la fiaccola della solitudine in montagna, al mare, o in un monastero, non lo è nel mondo di oggi, in cui la solitudine è ferita da mille cose, e il raccoglimento è lacerato dalla fretta e dalla indifferenza di persone, che non si salutano, anche se vivono in case le une vicine alle altre.

 

(Eugenio Borgna, In dialogo con la solitudine, Einaudi, Torno 2021, 39-40)

 

venerdì 1 ottobre 2021

DOMENICA XXVII DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 3 Ottobre 2021

 



Gen 2,18-24; Sal 127; Eb 2,9-11; Mc 10,2-16

 

E’ evidente che il tema delle letture bibliche odierne è quello dell’amore fedele come fondamento del matrimonio. Ma il testo del versetto del canto al vangelo sembra che allarghi in qualche modo la visuale quando propone come criterio di lettura del brano evangelico le parole di 1Gv 4,12: “Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi, e l’amore di lui è perfetto in noi”. L’amore fedele quindi non è solo fondamento della vita matrimoniale ma è anche principio di armonia tra i figli di Dio.

 

La prima lettura riporta il brano del libro della Genesi dove si narra la creazione della donna. Le immagini usate dal racconto mettono in risalto l’uguaglianza in dignità tra l’uomo e la donna. Inoltre il testo presenta l’incontro di amore tra l’uomo e la donna come una realtà che rientra pienamente nel disegno voluto da Dio. Il brano evangelico ci tramanda alcune affermazioni di Gesù sul matrimonio in risposta ad una domanda fattagli dai farisei. La domanda verte su se sia lecito o meno ad un marito ripudiare la propria moglie. Come evidenzia il testo, tale possibilità era prevista dalla legge di Mosè. Gesù, superando i termini angusti in cui viene posto il problema, va alla radice della questione ed afferma che questa norma era stata scritta “per la durezza del vostro cuore”, e colloca poi il rapporto uomo-donna nella visione originaria di Dio in cui un tale ripudio non era contemplato. Rientrati poi a casa, Gesù risponde ad una nuova interrogazione su questo argomento fatta questa volta dai discepoli riaffermando la natura indissolubile dell’amore matrimoniale e la pari dignità che in esso hanno l’uomo e la donna. Per capire meglio le parole di Gesù, è utile che ci soffermiamo sull’espressione: “Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma…”  Cosa intende affermare Gesù? 

 

L’immagine del “cuore indurito” richiama la denuncia profetica contro l’atteggiamento degli israeliti che non erano in grado di cogliere il senso dell’azione e della parola di Dio. I profeti però al tempo stesso che facevano questa denuncia, promettevano - almeno dopo l’esilio - che Dio  farebbe loro dono di un cuore nuovo. Così, ad esempio, è conosciuto il testo di Ezechiele che parla del dono che Dio farà di un cuore di carne in sostituzione del cuore di pietra affinché i figli d’Israele siano capaci di pulsare in sintonia con il progetto di Dio. Queste promesse si realizzano pienamente in Gesù Cristo. In lui siamo stati santificati (cf. seconda lettura). In lui possiamo quindi essere liberati dalla durezza del nostro cuore e comprendere e vivere le esigenze di Dio. L’amore umano è fragile, minacciato continuamente dalla debolezza. Ma se apriamo il nostro cuore a Dio riceviamo la forza per portare a compimento il progetto divino. Per i discepoli di Gesù, “sposarsi nel Signore” significa lasciarsi condurre dallo Spirito ed accettare una possibilità inedita, che Dio rende possibile con la sua grazia.

 

Il Salmo responsoriale mette in scena un padre soddisfatto del suo lavoro, una moglie piena di vita e di fecondità, dei figli pieni di energia e di vitalità. Un idillio colmo di pace, di serenità, di felicità. Il tutto offre un quadro ideale di una società fondata sul timore di Dio e benedetta dal Signore nella serenità operosa del lavoro, nella armoniosa integrità della famiglia e nella pace durevole.