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domenica 28 gennaio 2018

GLI UOMINI MANGIANO SIMBOLI






Il segno, il simbolo, non è solo una via di comunicazione o, prima ancora, un momento o una componente dell’atto conoscitivo; è molto di più, è un nutrimento. Gli uomini mangiano simboli, si nutrono di simboli. Se noi guardiamo attorno a noi, nelle cose e nei gesti circostanti, vediamo che le cose che non hanno valore di segno, che non sono insieme cose e simboli, sono cose che non significano nulla; sono chiuse nella loro identità di cose; non sono tramite, non conversano. E cose come queste, se ci sono, non entrano nella nostra vita, non ci alimentano.

Gli uomini mangiano simboli. C’è chi è portato a pensare che i segni eucaristici risultino da una scelta sostanzialmente arbitraria: un arbitrio garantito dal Mistero, ma del tutto convenzionale. Invece, il simbolo che si lascia mangiare è un fatto di tutti i giorni. C’è chi ha ingurgitato anche troppi simboli in vita, a differenza di altri che hanno patito di fame. Il discorso sul “verbalismo” si riduce appunto a questo.

Esiste di fatto – ed è così vicino a noi da essere più o meno identico a noi – un personaggio che fa per mestiere il “verificatore di simboli”. Oltre l’atto di parlare, non ha altro: assorbe il simbolo e lascia in disparte la cosa. Anche un cristiano che ha una vita spirituale esteriormente intensa può risultare vuoto di cose e ubriaco di simboli; può accadere perfino che si venga via via svuotando in lui, a ogni nuovo sorger di sole, quel simbolo infinitamente colmo che è la Messa. La quale può ridursi a recita (per un sacerdote) o a spettacolo (per un laico), cioè a vita nel simbolo: la cosa, che è Dio medesimo, si allontana di volta in volta, sublimata in simboli.

I simboli sono un cibo necessario, ma rischioso. Ufficialmente i segni significativi, senza le cose significate, sono nutrimento per esteti, per tutto il sottopopolo delle culture preraffaellita, parnassiana e dannunziana; in effetti sono il cibo quotidiano di chi dà per fare le cose di cui possiede i segni espressivi.

Ma gli uomini mangiano soltanto simboli. L’eros è un simbolo dell’appropriazione, della ricapitolazione, della divinità dell’io empirico, del dono di sé. Segni contrastanti, immediatamente contraddittori, perché le medesime cose, i medesimi gesti, le medesime ragioni possono essere assunte nel modo più diverso. La conversazione è un simbolo della solitudine di chi parla, della sua soddisfatta e loquace presenza in mezzo agli uomini (“agli altri ed a se stesso amico), della compassione di sé, del rimorso. Andare a caccia è un simbolo: di noia provinciale, di virilità, di continuità ancestrale, di possesso o di conquista.

Comunicarsi sacramentalmente è anche un simbolo dell’amore in Cristo per il comunicante, un amore accettato o sbeffeggiato a seconda che ci si comunichi in grazia di Dio o con intento sacrilego. Perfino chi uccide cerca un simbolo di liberazione, di invasione, di affermazione della propria mortalità e della propria salvezza.

Non c’è atto umano che non sia simbolo: perché l’uomo, ogni volta che si impegna, perciò stesso si esprime, si pronuncia, comunica se stesso ad altri (anche se poi questo altro è, in modo aberrante, solo egli stesso, replicato al di fuori di sé, trasferito in un altro da sé e poi riconosciuto e verificato in questo processo di alienazione).

Non c’è atto umano che non sia discorso, e quindi alimento per simboli. Non c’è atto umano che passi per cose che non sono simboli. Può passare per simboli lontani e distratti dalle cose, per simboli che si danno come equivalenti delle cose a cui si sostituiscono; ma per cose che non sono simboli, questo no.


Fonte: Saverio Corradino, L’uomo e la parola: la tentazione del verbalismo, in “La Civiltà Cattolica”, n. 4019 (2/16 dicembre 2017), pp. 455-456.

venerdì 26 gennaio 2018

DOMENICA IV DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 28 Gennaio 2018







Dt 18,15-20; Sal 94 (95); 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28.

Il salmo responsoriale evoca l’evento centrale della storia biblica, la liberazione offerta da Dio nell’esodo dall’Egitto. La storia di Israele ci è posta dinanzi come ammonimento: “La maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto” (1Cor 10,5), e non entrarono nella terra promessa. Come Israele nel deserto, anche noi siamo in cammino verso una terra promessa. In tutte le circostanze della vita, nelle gioie e nelle privazioni, nel lavoro e nel riposo, nel rischio e nella tentazione, soltanto la luce e la forza della fede possono aiutarci a realizzare pienamente il nostro esodo verso la nuova Gerusalemme, verso la patria eterna. Ecco perché proclamiamo con il salmista che il Signore è “la roccia della nostra salvezza”. La parola di Dio illumina i sentieri del nostro pellegrinaggio. Per questo, il salmo ci invita a non chiudere il cuore alla voce del Padre che conduce e protegge “il popolo del suo pascolo” nel cammino della vita.

La prima lettura contiene una promessa divina annunziata da Mosè: Dio non farà mai venir meno il dono della profezia in Israele attraverso la parola di molti nei quali questo dono s’incarnerà. La rilettura giudaica e cristiana di questo testo interpreterà in chiave individuale e quindi messianica tale promessa: il profeta promesso è il Messia che porterà a Israele la parola definitiva di Dio, una parola detta con autorità, con la stessa efficace di quella di Dio. Quindi dopo Mosè e gli altri profeti Dio invierà il suo profeta per eccellenza, Cristo Gesù: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2).

Il brano evangelico parla degli inizi del ministero di Gesù a Galilea e dello stupore suscitato dal suo insegnamento. L’evangelista ci invita ad accompagnare, per una intera giornata, Gesù e i discepoli che egli ha appena scelto. È un giorno di sabato, a Cafarnao. Gesù va alla sinagoga e si mette ad insegnare. Marco non riferisce nessuna parola del predicatore, ma annota che parla come uno dotato di una sorprendente autorità e che fin da quel primo giorno, guarisce un uomo “posseduto da uno spirito impuro”. La missione di Gesù è come quella dei profeti, che insegnavano a nome di Dio e quindi con l’autorità che veniva da lui. L’autorità con cui parla Gesù si manifesta nell’efficacia della sua parola. Se ne ha una conferma nell’episodio di liberazione dell’indemoniato. L’effetto della parola di Gesù è immediato: “E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui”. Dunque l’autorità di Gesù coincide con l’efficacia della sua parola che libera e risana. Gesù si mostra potente e vincitore contro le forze che schiavizzano l’uomo.

Anche se il brano della seconda lettura si muove fuori del quadro finora tratteggiato, qualche punto di contatto con le altre letture non manca. Vediamo infatti che san Paolo si mostra fedele alla parola di Dio affrontando il tema del matrimonio e della verginità con grande prudenza, senza imporre una o l’altra via. Stato verginale e stato coniugale di per sé non costituiscono la perfezione; essi sono mezzi idonei, anche se a livelli diversi, per la dedizione a quella “vita celeste” a cui siamo chiamati già in questa esistenza intra-mondana. Anche se Paolo esalta la scelta verginale, non intende con ciò gettare un’ombra negativa sul matrimonio. Egli vuole semplicemente ricordarci quelle particolari scelte radicali di vita che come segno profetico ci richiamano la precarietà delle realtà presenti.

domenica 21 gennaio 2018

NULLA DI NUOVO SOTTO IL SOLE




Il Motu proprio Magnum Principium (MP) di papa Francesco, in vigore dal 1° ottobre scorso, ha riorganizzato le competenze, sia della Sede Apostolica sia delle Conferenze Episcopali nelle traduzioni dei testi liturgici alle lingue nazionali. Nei mesi scorsi, il documento ha provocato diverse reazioni, alcune delle quali molto critiche. Un esempio per tutti, Don Nicola Bux il 26 novembre 2017 sulla Bussola Quotidiana parlava del “rovesciamento delle gerarchie” e lamentava che con questo Motu proprio “la Sede Apostolica rinuncia alla sua fondamentale competenza sulle traduzioni dei libri liturgici”. Pochi si sono resi conto che la sostanza del documento di papa Francesco non fa altro che ripristinare quanto l’edizione tipica del Missale Romanum del 1970 diceva nel Decreto con cui la Sacra Congregazione per il culto divino pubblicava il Messale:


“… curae autem Conferentiarum Episcopalium committitur editiones lingua vernacula apparare, atque diem statuere, quo eaedem editiones, ab Apostolica Sede rite confirmatae, vigere incipiant”.


L’ultima edizione tipica del Missale Romanum, del 2002/2008, ha riprodotto in prima pagina il suddetto Decreto della prima edizione, ma in seguito ha aggiunto il Decreto con cui la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti pubblica la terza edizione tipica, in cui si stabilisce che la Sede Apostolica "riconosce" (non più "conferma") la traduzione preparata dalle Conferenze Episcopali:


“… Conferentiae Episcoporum curabunt ut, intra congruum tempus, novae versiones vernaculae Missalis Romani fideliter atque adamussim fiant, praecedentibus versionibus adhuc in usum accurate emendatis ad fidem textus originalis Latini, a Sede Apostolica ad normam iuris recognoscendae”. In questo testo si percepisce l’influsso della Istruzione Liturgiam authenticam, entrata in vigore il 25 aprile del 2001.


Non è vero quindi che col Motu proprio MP la Santa Sede rinuncia alla sua fondamentale competenza sulle traduzioni dei libri liturgici, come è stato scritto. Papa Francesco non ha fatto altro che ripristinare quanto aveva stabilito la stessa Santa Sede nel pubblicare la prima edizione tipica del Missale Romanum di Paolo VI in fedeltà a ciò che determina il Vaticano II nella Costituzione Sacrosanctum Concilium 36.


sabato 20 gennaio 2018

DOMENICA III  DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 21 Gennaio 2018






Gn 3,1-5.10; Sal 24 (25); 1Cor 7,29-31; Mc 1,14-20.

Il Sal 24 è una preghiera per il perdono e la salvezza; il salmista, fiducioso non nei suoi meriti ma nella divina misericordia, invoca protezione contro i nemici e perdono per i propri peccati. L’atteggiamento spirituale che il testo suppone è quello dei cosiddetti “poveri di Jhwh”, di coloro cioè la cui ultima fiducia e speranza è solo in Dio. Riprendendo le parole del salmo, noi gridiamo aiuto a Dio e insieme ci abbandoniamo con fiducia assoluta al Signore che è giusto e misericordioso, ma soprattutto buono. Nel farlo, siamo consapevoli che è Dio stesso colui che ci guida nella sua verità e ci indica la “via giusta” da seguire. Il tema della via giusta fa riferimento al tema centrale di questa domenica: la conversione.

Domenica scorsa abbiamo visto che Dio ci si manifesta e chiama ciascuno di noi per nome. Oggi ci viene proposto il contenuto fondamentale di questa chiamata. Nel brano evangelico, san Marco riassume la predicazione di Gesù con queste parole: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel vangelo”. La chiamata che Dio rivolge a tutti noi è un pressante invito alla conversione e alla fede. Le altre due letture d’oggi illustrano i due motivi per cui è necessaria questa conversione. San Paolo fa un forte richiamo alla precarietà della condizione terrestre delle cose: “il tempo si è fatto breve”. Da parte sua, il profeta Giona ci ricorda che la conversione è necessaria per evitare il giudizio di condanna da parte di Dio. L’invito di Dio a mutare vita non è caduto invano per i niniviti che ascoltarono le parole del profeta, fecero penitenza e furono salvi. Così pure l’invito di Gesù è stato prontamente accolto da Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni che, lasciate le reti e il loro padre, “andarono dietro a lui”.

Gesù introduce l’invito alla conversione con le parole “il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino”. Abbiamo visto che anche san Paolo parla di un tempo ormai fattosi breve. Ci possiamo domandare cosa significano queste affermazioni e perché sono presentate come qualcosa che invita alla conversione. L’affermazione di Gesù sul tempo compiuto presuppone un progetto di Dio che si compie appunto nel tempo: c’è quindi un tempo dell’attesa o della preparazione, ed un tempo del compimento o della realizzazione. Ebbene, con l’incarnazione del Figlio di Dio, il progetto del Padre annunciato dai profeti dell’Antico Testamento si è compiuto: il “regno di Dio” è vicino. Vicino è ciò che incomincia già a influire sulla vita dell’uomo e con cui egli si deve misurare. Il progetto che Dio ha nella storia è il “regno di Dio”, il quale intende ristabilire la sovranità di Dio e quindi un nuovo rapporto tra Dio e l’uomo. Ciò significa che l’uomo non può più continuare a vivere come prima, secondo la scala di pseudo-valori che ha privilegiato. Il messaggio viene rivolto a tutti noi: dobbiamo cambiare di rotta e indirizzare la nostra vita verso i valori di vita proposti dal vangelo, che è la buona novella o il lieto annunzio della salvezza che Gesù porta all’umanità. L’invito a “convertirsi” e a “credere” al vangelo non sono due realtà separate: non c’è fede senza vita morale e non c’è morale cristiana che non sia fondata nella fede. Credere vuol dire abbracciare l’intero messaggio portato da Cristo e renderlo programma del proprio pensare, del proprio amare e del proprio agire.

L’eucaristia a cui partecipiamo ogni domenica è un traguardo della conversione e della fede. Essa è però anche un rilancio su questa via perché è “sorgente inesauribile di vita nuova” (preghiera dopo la comunione).

domenica 14 gennaio 2018

UNO SGUARDO SULL’ANNO LITURGICO



Pietro Sorci (ed.), L’anno liturgico anno della misericordia del Signore (ho theológos 9), Città Nuova, Roma 2017. 337 pp.

Il volume raccoglie gli interventi del Convegno sull’argomento organizzato dalla Facoltà Teologica di Palermo a marzo del 2016.

Introduzione (Pietro Sorci).
I.La conversione del tempo in salvezza: per una teologia dell’anno liturgico (Hélène Bricout).
II. Le origini e l’organizzazione dell’anno liturgico nel secolo IV (Matias Augé).
III. L’anno liturgico actuosa enarratio “narrazione attuativa” (Cipriano Valenziano).
IV. Nell’attesa della sua venuta: il tempo dell’Avvento (Domenico Messina).
V. Il misterioso scambio che ci ha redenti: la celebrazione del Natale (Rita Di Pasquale).
VI. “Lasciatevi riconciliare con Dio”: la Quaresima (Pietro Sorci).
VII. In Cristo nostra Pasqua l’universo risorge e si rinnova: l’anno liturgico memoriale del mistero pasquale ed epiclesi dello Spirito Santo: il tempo di Pasqua (Valeria Trapani).
VIII. Il giorno del Signore e le problematiche pastorali oggi (Rosario La Delfa).
IX. In comunione con la Beata Vergine Maria e i Santi (Rino Lauricella Ninotta).
X. Celebrazione dell’anno liturgico e unità pastorali (Daniele Piazzi).
XI. Anno liturgico e pietà popolare. Verso una teologia affettuosa (Cosimo Scordato).

Conclusioni (Pietro Sorci).

venerdì 12 gennaio 2018

DOMENICA II DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 14 Gennaio 2018  





1Sam 3,3b-10.19; Sal 39 (40); 1Cor 6,13c-15a.17-20; Gv 1,35-42.

Il brano del Sal 39 scelto come salmo responsoriale celebra la speranza, la fiducia in Dio che, come un padre, si china sulla creatura, e nel contempo il testo salmico proclama la piena disponibilità dell’uomo ad assecondare il volere divino. La Lettera agli Ebrei applica i vv. 7-9 al Cristo, il quale ubbidisce al Padre venendo al mondo per la salvezza dell’uomo: “Entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato...” (Eb 10,5). Cristo risponde con il sacrificio perfetto e definitivo del suo corpo alla chiamata del Padre che l’ha inviato nel mondo.

Dio si presenta nella nostra vita come un vero interlocutore che ci chiama per nome. Questo è il messaggio che emerge dalle letture odierne. La prima lettura racconta la vocazione di Samuele alla missione profetica e sacerdotale. Vediamo che il giovane Samuele viene chiamato di notte. Aiutato dal suo maestro Eli, egli discerne in quella voce la chiamata di Dio. L’atteggiamento del giovane è di piena disponibilità: “Parla, perché il tuo servo ti ascolta”. Tutta la vita di Samuele sarà poi contrassegnata da questa apertura alla parola di Dio: egli “non lasciò andare a vuoto una sola delle sue [del Signore] parole”.

Il brano evangelico ci parla della vocazione di due discepoli di Giovanni Battista che, spronati dalle parole del Precursore che indica in Gesù il Messia atteso, si mettono alla sequela di Gesù. Uno di questi due, Andrea, si fa portavoce dell’avvenuto incontro con Pietro, che diviene anch’egli discepolo di Gesù. Anche qui c’è prontezza nella risposta alla chiamata, la quale arriva attraverso delle mediazioni, quella di Giovanni prima e quella di Andrea poi.

Abbiamo visto sopra che la Lettera agli Ebrei interpreta i vv.7-9 del salmo responsoriale come riferiti a Gesù, il quale all’inizio della sua esistenza esprime con le parole del salmo una totale disponibilità a portare a termine il disegno che il Padre ha su di lui a servizio degli uomini. Anche noi, sulle orme di Samuele, degli apostoli e, soprattutto, di Gesù, siamo chiamati a vivere in atteggiamento di continua disponibilità al volere di Dio: “Ecco, io vengo, Signore, per fare la tua volontà”. San Paolo ci ricorda nella seconda lettura che apparteniamo a Cristo, anzi siamo “tempio dello Spirito Santo”. L’apostolo aggiunge che non si deve tradire la propria vocazione cristiana alienando al Cristo la nostra esistenza e vendendola all’impudicizia. La vocazione cristiana abbraccia e coinvolge non solo l’anima e lo spirito ma anche il nostro corpo. Il corpo, infatti, non è altro che l’uomo stesso in quanto vive e opera nel mondo ed è questo uomo che è toccato dalla redenzione di Cristo.

La chiamata di Gesù non si esaurisce nel primo incontro con lui attraverso l’atto di fede. Egli ci parla continuamente attraverso molteplici mediazioni. Quindi la fedeltà alla prima chiamata dev’essere continuamente confermata e si deve manifestare anche nella concreta disponibilità a testimoniare la nostra fede. Abbiamo visto che colui che sceglie di seguire Cristo diventa anche suo testimone. Chi ascolta solo sé stesso o i miti del mondo, chi pensa di avere già trovato la verità, di sapere tutto sul senso della vita, chi pensa solo ai soldi, alla carriera, alla salute, certamente costui non afferra che ci possa essere una parola diversa, superiore, capace di cambiare e arricchire sempre più la sua esistenza.

 

domenica 7 gennaio 2018

UN’OPERA SU I RE MAGI






Franco Cardini, I Re Magi. Leggenda cristiana e mito pagano tra Oriente e Occidente, Marsilio Editori, Venezia 2000, 2017 (nuova edizione aggiornata), pp. 191.

La storia dei magi, i misteriosi pagani che l’evangelista Matteo convoca “dall’Oriente” al cospetto del Figlio di David, viene da lontano. Al pari di tutti gli autentici misteri, il suo significato è inesauribile e ogni nuova acquisizione chiude un problema e ne apre altri mille.

Franco Cardini narra la genesi e la diffusione delle varie versioni che hanno fatto dei “tre santi re”, di volta in volta, il simbolo delle razze primigenie scaturite dai tre figli di Noè; dei tre continenti del mondo antico: Asia, Africa ed Europa; dei tre momenti dell’esistenza: giovinezza, maturità e vecchiaia; delle tre scansioni temporali: passato, presente e futuro. Alla luce delle ultime scoperte, si rafforza il ruolo dei magi come figure “ponte” tra Oriente e Occidente, cerniera tra vari culti e religioni. Non a caso oggi acquistano nuovo rilievo: sul piano religioso e devozionale sono stati proposti da papa Benedetto XVI come copatroni d’Europa; su quello antropologico e storico-filologico molti studiosi da una parte ne hanno indicato la presenza nel mondo indoiranico fra il I secolo a. C., dall’altra parte ne hanno ribadito il nesso con gli astrologi-sacerdoti originari della Media e con gli insegnamenti di Zarathustra.

(Risvolto)

sabato 6 gennaio 2018

BATTESIMO DEL SIGNORE ( B ) - 7 Gennaio 2018





Is 55,1-11; Is 12,2-6; 1Gv 5,1-9; Mc 1,7-11

Il testo del salmo responsoriale è un cantico che si trova nel libro del profeta Isaia a conclusione degli oracoli del cosiddetto libro dell’Emmanuele. Si tratta di un inno di ringraziamento al Signore per le “opere grandi” da lui compiute nella storia del popolo eletto. Se il cantico inneggia alla liberazione pasquale antica, noi riprendendolo lodiamo il Signore per la salvezza pasquale attuata da Cristo, il vero Emmanuele, e donata a noi dallo Spirito nel battesimo. I brani della Scrittura che sono proposti oggi alla nostra attenzione ci aiutano a riscoprire il senso del nostro battesimo alla luce del battesimo di Cristo. Sulla stessa linea, il prefazio afferma: “Nel battesimo di Cristo al Giordano tu hai operato segni prodigiosi per manifestare il mistero del nuovo lavacro...”

Gesù si sottomette al battesimo penitenziale proposto dal Battista non certo perché avesse  bisogno di purificarsi, ma per esprimere la sua piena solidarietà con gli uomini alla ricerca di Dio e per anticipare il nuovo battesimo nello Spirito che avrebbe sostituito quello di Giovanni. Il battesimo di Gesù è da leggersi quindi nel contesto del mistero dell’Incarnazione che abbiamo celebrato nel periodo appena trascorso. Il battesimo di Gesù esprime la piena immersione del Figlio di Dio nella nostra condizione umana, affinché noi tutti possiamo essere rinnovati a sua immagine. Nelle acque del Giordano si rivela in pienezza il senso ultimo della realtà e della missione di Gesù, della sua persona e della sua vocazione. Non si tratta soltanto dell’inizio del suo ministero; è anche la rivelazione della sua presenza trascendente incarnata nella trama della storia umana, mistero che si è consumato nell’evento della morte e risurrezione del Signore. 

Il battesimo d’acqua al quale Cristo si sottomette si riallaccia al suo dovere essenziale: quello della morte e della risurrezione, di cui è un primo abbozzo. Gesù sperimenta la sua morte e risurrezione con l’immersione e l’emersione battesimale. “Uscendo dall’acqua vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba”. Al tempo stesso si sentì la voce del Padre: “Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”. La riflessione susseguente collegherà la benevolenza del Padre e l’effusione dello Spirito alla glorificazione di Gesù. Perciò il racconto del battesimo di Gesù rievoca anticipatamente tutto il dramma della redenzione e ci permette di vedere nel sacramento dell’acqua l’estensione su di noi dell’avvenimento decisivo della morte e risurrezione di Gesù. Ciò è confermato dal testo denso e profondo della seconda lettura, in cui Giovanni ricorda che Gesù “è venuto con acqua e sangue”, e cioè con l’acqua del suo battesimo e col sangue della sua morte in croce. Ma l’apostolo aggiunge che ora, nel tempo presente, sono “tre quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue”. In parole più semplice, possiamo dire che il dono dello Spirito che riceviamo nel battesimo fa riferimento sia all’acqua del battesimo di Cristo che al sangue della sua morte in croce. La prima lettura, interpretata alla luce del salmo responsoriale, è un invito ad attingere acqua a questa sorgente della salvezza.

Gesù è stato al tempo stesso servo e figlio. Servo fino al punto di dare la sua vita per noi; figlio che ha compiuto con immenso amore ogni suo gesto di servizio. Nel Figlio, anche noi siamo diventati per mezzo del battesimo figli per adozione. Perciò pure la nostra vita dev’essere contrassegnata dall’atteggiamento di servizio o, come dice Giovanni nella seconda lettura odierna, dalla pratica della legge dell’amore come legge autentica di libertà.

venerdì 5 gennaio 2018

EPIFANIA DEL SIGNORE – 6 Gennaio 2018









Is 60,1-6; Sal 71 (72); Ef 3,2-3a.5-6; Mt 2,1-12

Possiamo stabilire un raffronto tra il racconto di san Luca (2,8-20), che abbiamo letto nella notte di Natale e nella Messa dell’aurora, in cui l’evangelista parla dei pastori che si recano a Betlemme perché un angelo è apparso loro e ha detto che nella città di Davide è nato il Cristo Salvatore, e il racconto di san Matteo sui Magi proposto come brano evangelico del giorno dell’Epifania. Dal confronto, è facile capire che la stella apparsa ai Magi ha lo stesso compito dell’angelo apparso ai pastori. Non soltanto la gente povera e semplice è invitata dal cielo ad incontrare il Signore, ma anche i Magi, cioè i sapienti dell’epoca e per di più stranieri; anzi, anche ai sacerdoti e agli scribi di Gerusalemme, e persino allo stesso Erode viene dato l’annunzio. San Leone Magno in una delle sue omelie per l’Epifania, riportata dall’Ufficio delle letture d’oggi, afferma che “celebriamo nella gioia dello spirito il giorno della nostra nascita e l’inizio della chiamata alla fede di tutte le genti”. È questo il messaggio dell’Epifania.

La prima lettura è tutta incentrata sulla città di Gerusalemme, non tanto come realtà urbana, quanto come comunità dell’alleanza. Da essa sorgerà la luce che splenderà agli occhi di tutti i popoli e li attirerà a sé. Ancora segnato dal particolarismo religioso, il testo d’Isaia, accostato a quello della lettera agli Efesini, proposto dalla seconda lettura, acquista tutto il suo significato profetico: tutte “le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo”. L’Epifania del Signore è fondamento ed esigenza dell’annuncio del Vangelo a tutti i popoli, ai quali ormai è aperto l’accesso al Regno.

I Magi che vengono dall’Oriente accolgono l’annuncio. I sacerdoti e gli scribi di Gerusalemme restano distratti. Il re Erode trama segretamente di sopprimere il bambino. Il contrasto è violento e chiaramente intenzionale: con esso l’evangelista vuole mostrare come anticipato fin dalla nascita di Gesù il rifiuto dei giudei, e quindi la necessità di affidare ad altri, ai gentili, il Regno. L’Epifania è già un primo squarcio di luce che lacera il velo del tempio che separava e nascondeva il “Santo dei santi”. La lacerazione di quel velo sarà totale e definitiva nell’evento pasquale, quando l’urto dell’onda luminosa del Risorto romperà le anguste barriere di separazione tra cielo e terra, tra vita e morte, tra uomo e uomo. L’Epifania, come il Natale, è il primo bagliore di una Pasqua ormai annunciata.

Dio continua a manifestarsi per la salvezza di tutti. Solo chi vive nella disponibilità della fede e nell’attenzione ai segni dei tempi, riesce a superare i momenti bui della vita e giunge a incontrare il Signore. I Magi sono il simbolo di tutti coloro che affrontano un lungo percorso ad ostacoli senza cedere ai tentativi di depistaggio o disorientamento, senza lasciarsi catturare dagli ambigui sorrisi del potere.

I doni che i Magi offrono a Gesù bambino sono simbolo della nostra offerta eucaristica. Nella messa non offriamo più oro, incenso e mirra, ma “colui che in questi santi doni è significato, immolato e ricevuto: Gesù Cristo nostro Signore” (preghiera sulle offerte). La celebrazione eucaristica fa parte della nostra risposta fondamentale alla manifestazione di Dio nel Cristo, e postula ancora, di natura sua, la risposta di tutta la vita vissuta.