Dt
18,15-20; Sal 94 (95); 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28.
Il
salmo responsoriale evoca l’evento centrale della storia biblica, la liberazione
offerta da Dio nell’esodo dall’Egitto. La storia di Israele ci è posta dinanzi
come ammonimento: “La maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò
furono sterminati nel deserto” (1Cor 10,5), e non entrarono nella terra
promessa. Come Israele nel deserto, anche noi siamo in cammino verso una terra
promessa. In tutte le circostanze della vita, nelle gioie e nelle privazioni,
nel lavoro e nel riposo, nel rischio e nella tentazione, soltanto la luce e la
forza della fede possono aiutarci a realizzare pienamente il nostro esodo verso
la nuova Gerusalemme, verso la patria eterna. Ecco perché proclamiamo con il
salmista che il Signore è “la roccia della nostra salvezza”. La parola di Dio
illumina i sentieri del nostro pellegrinaggio. Per questo, il salmo ci invita a
non chiudere il cuore alla voce del Padre che conduce e protegge “il popolo del
suo pascolo” nel cammino della vita.
La
prima lettura contiene una promessa divina annunziata da Mosè: Dio non farà mai
venir meno il dono della profezia in Israele attraverso la parola di molti nei
quali questo dono s’incarnerà. La rilettura giudaica e cristiana di questo
testo interpreterà in chiave individuale e quindi messianica tale promessa: il
profeta promesso è il Messia che porterà a Israele la parola definitiva di Dio,
una parola detta con autorità, con la stessa efficace di quella di Dio. Quindi
dopo Mosè e gli altri profeti Dio invierà il suo profeta per eccellenza, Cristo
Gesù: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato
ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi
per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2).
Il
brano evangelico parla degli inizi del ministero di Gesù a Galilea e dello
stupore suscitato dal suo insegnamento. L’evangelista ci invita ad
accompagnare, per una intera giornata, Gesù e i discepoli che egli ha appena
scelto. È un giorno di sabato, a Cafarnao. Gesù va alla sinagoga e si mette ad
insegnare. Marco non riferisce nessuna parola del predicatore, ma annota che
parla come uno dotato di una sorprendente autorità e che fin da quel primo
giorno, guarisce un uomo “posseduto da uno spirito impuro”. La missione di Gesù
è come quella dei profeti, che insegnavano a nome di Dio e quindi con
l’autorità che veniva da lui. L’autorità con cui parla Gesù si manifesta
nell’efficacia della sua parola. Se ne ha una conferma nell’episodio di
liberazione dell’indemoniato. L’effetto della parola di Gesù è immediato: “E lo
spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui”. Dunque l’autorità
di Gesù coincide con l’efficacia della sua parola che libera e risana. Gesù si
mostra potente e vincitore contro le forze che schiavizzano l’uomo.
Anche
se il brano della seconda lettura si muove fuori del quadro finora
tratteggiato, qualche punto di contatto con le altre letture non manca. Vediamo
infatti che san Paolo si mostra fedele
alla parola di Dio affrontando il tema del matrimonio e della verginità con
grande prudenza, senza imporre una o l’altra via. Stato verginale e stato
coniugale di per sé non costituiscono la perfezione; essi sono mezzi idonei,
anche se a livelli diversi, per la dedizione a quella “vita celeste” a cui
siamo chiamati già in questa esistenza intra-mondana. Anche se Paolo esalta la
scelta verginale, non intende con ciò gettare un’ombra negativa sul matrimonio.
Egli vuole semplicemente ricordarci quelle particolari scelte radicali di vita
che come segno profetico ci richiamano la precarietà delle realtà presenti.