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venerdì 30 luglio 2021

DOMENICA XVIII DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 01 Agosto 2021

 



 

Es 16,2-4.12-15; Sal 77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35

Noi credenti siamo talvolta tentati di trattare Dio come colui che può e magari deve risolvere i nostri piccoli o grandi problemi quotidiani. E’ ciò che è capitato ad Israele nel deserto. La prima lettura ci racconta un momento di tensione vissuto dal popolo d’Israele dopo la liberazione dall’Egitto. Inoltrati nel deserto, gli israeliti devono affrontare l’incertezza del sostentamento quotidiano. E’ in qualche modo naturale che in una tale circostanza sorga il rimpianto della situazione precedente che se non offriva la libertà, garantiva almeno un cibo sicuro, un’esistenza in qualche modo tranquilla. Dio viene incontro al suo popolo con il nutrimento misterioso della manna. Si tratta di un cibo però che è dato giorno per giorno e quindi non garantisce il domani. Israele resta nella provvisorietà e nell’incertezza, non è dispensato del quotidiano impegno per la sopravvivenza.

 

Nel vangelo d’oggi Gesù si rivolge alla folla che lo seguiva perché aveva visto il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. A questa folla il Signore rimprovera di non aver capito il significato del gesto da lui compiuto: “voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati”. Anche questa gente ha la tentazione di confondere la religione con un modo comodo di risolvere i problemi quotidiani. Gesù cerca di indirizzare i suoi ascoltatori verso un cibo che “rimane per la vita eterna”. E lo fa contrapponendo alla manna che gli israeliti hanno mangiato nel deserto il vero cibo che dà la vita al mondo: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete mai!”. Ecco quindi che il Signore sposta l’attenzione dei suoi ascoltatori dal pane quotidiano alla sua persona, alla sua parola, al suo insegnamento. Come disse Egli stesso al tentatore: “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (canto al vangelo, Mt 4,4b). Il cibo che alimenta la vita del corpo finisce con la morte ed è quindi precario e di poco conto. Quello vero “rimane”, perché nutre in noi i valori eterni dello spirito. In altre parole, ciò che dobbiamo cercare in Gesù non è la soluzione dei problemi quotidiani, ma la forza per affrontare questi problemi e per costruire una vita che non perisca. Gesù si rivela come il dono di Dio che soddisfa in modo pieno e definitivo le esigenze vitali dell’essere umano rappresentate dal mangiare e bere.

 

San Paolo, nella seconda lettura, offre un insegnamento simile quando rivolgendosi ai cristiani di Efeso li invita a rinunciare a un comportamento da pagani, a una vita vana, che prescinde dal riferimento e dalle certezze provenienti da Cristo: “secondo la verità che è in Gesù”. Dobbiamo sforzarci di progredire, giorno dopo giorno, sulla strada che il Cristo ha aperto, ma il cui itinerario non è fissato a priori. In questo cammino ci nutre l’eucaristia, “il pane del cielo” (orazione dopo la comunione).

martedì 27 luglio 2021

UN MANTRA PER CONVINCERSI DI STARE DALLA PARTE GIUSTA

 



 

Tra le numerose reazioni alla pubblicazione del Motu proprio Traditionis custodes di Papa Francesco, mi ha colpito quella, particolarmente violenta, del Prof. Roberto De Mattei, dal titolo “Traditionis custodes: una guerra sull’orlo dell’abisso”, testo pubblicato nel sito “Corrispondenza Romana” il 19 luglio 2021. Secondo Roberto De Mattei, “l’intento del Motu proprio di Papa Francesco Traditionis custodes, del 16 luglio 2921, “è quello di voler reprimere ogni espressione di fedeltà alla liturgia tradizionale, ma il risultato sarà quello di accendere una guerra che si concluderà inevitabilmente con il trionfo della Tradizione della Chiesa”. E alla fine del lungo post, De Mattei rincara la dose: “Se la violenza è l’uso illegittimo della forza, il Motu proprio di Papa Francesco è un atto oggettivamente violento perché prepotente e abusivo”.

https://www.corrispondenzaromana.it/traditionis-custodes-una-guerra-sullorlo-dellabisso/

Meraviglia, poi, che un eminente professore di storia del cristianesimo affermi che l’ordinamento liturgico anteriore al Vaticano II sia l’autentica espressione della “liturgia tradizionale” e, in particolare, che l’Ordo Missae del Messale del 1962, sia la “Messa tradizionale”, la “Messa di sempre” che risale alla “tradizione apostolica” e perciò espressione della “lex orandi tradizionale” anzi della “immutabile lex orandi della Chiesa”. E che quindi “nessun Papa ha il diritto di abrogare o mutare un rito che risale alla Tradizione apostolica”. Non c’è da meravigliarsi, continuando la lettura del testo, che nel parlare della comunione in mano, la si consideri una “dissacrazione”, con buona pace di tutti coloro che si sono comunicato in questo modo durante i primi otto secoli. Naturalmente, per il professore, l’ordinamento liturgico anteriore al Vaticano II “non è stato mai giuridicamente abrogato”. Si tratta di affermazioni gravi e gratuite, tutte da provare, che i gruppi del cosiddetto “usus antiquior” ripetono da tempo come un mantra per convincere se stessi di trovarsi dalla parte giusta. Chi reagisce in questo modo “violento” dimostra di non sentirsi sicuro nella propria posizione e al tempo stesso “giustifica” abbondantemente il deciso intervento di Papa Francesco.

 

sabato 24 luglio 2021

LE APORIE DI “SUMMORUM PONTIFICUM”

 





 

In questo blog e altrove, ho più volte segnalato i punti deboli o, mi si permetta di chiamarli, le “aporie” del Motu proprio “Summorum Pontificum” [SP] con la Lettera ai vescovi che l’accompagna. Dopo la pubblicazione del Motu proprio “Traditionis custodes”, queste aporie acquistano una maggior evidenza.

1. Si afferma che il Messale del 1962 “non fu mai giuridicamente abrogato”. E’ un’affermazione che contraddice quanto ripetutamente aveva detto Paolo VI. D’altra parte, esiste il Pontificio Consiglio per i testi legislativi, “la cui funzione consiste soprattutto nella interpretazione delle leggi della Chiesa”, e non consta che questo Consiglio si abbia pronunciato al riguardo.

2. Si riconosce, citando SC 22, che “ogni vescovo è il moderatore della liturgia nella propria diocesi”. D’altra parte però si sottrae al vescovo la possibilità di regolare l’uso del Messale del 1962. A tal punto che la Conferenza dei vescovi della Francia nella risposta al formulario sull’applicazione del Motu proprio SP inviato dalla Congregazione per la dottrina della fede, dice, tra l’altro, che “l’autorità dei vescovi su queste comunità (che celebrano col Messale del 1962) è quasi nulla”.

3. SP introduce accanto alla “forma ordinaria” del rito romano (la riforma di Paolo VI) una “forma straordinaria” dello stesso rito romano (la liturgia del 1962). Rimane incomprensibile come due Liturgie, con ordinamento di letture diverso, calendari differenti, testi diversi nei Tempi centrali dell’Anno liturgico, come cioè due forme espressive diverse della lex orandi possano realmente armonizzarsi con una lex credendi della Chiesa. Ciò si può sostenere soltanto se non è il rito in se ma il significato del rito a confrontarsi con la lex orandi. In questo modo verrebbe meno una visione teologica che è maturata nel corso del Movimento liturgico e svanirebbe una fattiva acquisizione della teologia liturgica postconciliare.

4. Si afferma che “le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda”. Affermazione ambigua che qualche anno fa ha ispirato ad un Emmo. Cardinale la proposta di aggiungere nell’offertorio del Messale paolino le preghiere (ad libitum) dell’offertorio del Messale del 1962.

5. “Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande”. Questa solenne affermazione, come è stato notato anche recentemente, è un principio che scatena una vera e propria anarchia, perché si può applicare non solo al Messale del 1962, ma ad altre espressioni rituali precedenti. Infatti, è noto che alcuni gruppi che adoperano il Messale del 1962 non accettano il Triduo pasquale riformato da Pio XII in esso inserito e, nell’occasione, adoperano una edizione del Messale anteriore a tale riforma.

6. Sembra chiaro che i criteri con cui la Lettera del 7 luglio 2007 giustifica il ripristino della liturgia del 1962 sono di carattere soggettivo (desiderio, forma a loro cara, sentirsi attirati, forma appropriata per loro…). Diverso è il criterio che il card. Joseph Ratzinger nel 2001, al tempo Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, esprimeva quando affermava: “Se l'ecclesialità diventa una questione di libera scelta, se ci sono nella Chiesa delle chiese rituali scelte secondo un criterio soggettivo, questo diventa un problema. La Chiesa è costruita sui vescovi secondo la successione apostolica, nella forma di Chiese locali, quindi con un criterio oggettivo. Io mi trovo in questa Chiesa locale e non cerco i miei amici, incontro i miei fratelli e le mie sorelle; i fratelli e le sorelle non si cercano, si incontrano” (Autour de la question liturgique. Avec le Cardinal Ratzinger, Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, Association Petrus a Stella, Fontgombault, 2001). Permettere di scegliere “à la carte” la propria tradizione rituale è un modo di ferire gravemente l’unità e la struttura della Chiesa. Il problema non è solo rituale, ma ecclesiologico.

 

 

 

venerdì 23 luglio 2021

DOMENICA XVII DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 25 Luglio 2021

 



2Re 4,42-44; Sal 144; Ef 4,1-6; Gv 6,1-15

 

La prima lettura ci racconta come il profeta Eliseo ha sfamato con pochi una ventina di pani un gruppo di cento persone. Il brano evangelico parla di un prodigio simile, ma di proporzioni molto maggiori, compiuto da Gesù, il quale sfama una grande folla che lo seguiva, circa cinquemila uomini, con solo cinque pani d’orzo e due pesci. La folla, visto il prodigio della moltiplicazione dei pani e dei pesci compiuto da Gesù, cominciò a dire: “Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo”. Ecco quindi che il miracolo accende le speranze messianiche della moltitudine. Malgrado ciò l’equivoco è enorme: la gente cerca Gesù perché era stata saziata, non perché aveva capito il messaggio del suo gesto. Infatti, sia la moltiplicazione dei pani compiuta da Eliseo sia la moltiplicazione dei pani e dei pesci compiuta da Gesù sono dei gesti profetici (“segni”) che nell’ambiente in cui sono sorti e nella mentalità degli scrittori che li narrano hanno un valore simbolico: i due racconti intendono proclamare l’intervento di Dio - mediante i suoi messaggeri - nei momenti del bisogno umano, la potenza della sua parola, la credibilità dei suoi profeti. Ecco perché la liturgia d’oggi ci invita nel salmo responsoriale a ripetere: “Apri la tua mano, Signore, e sazia ogni vivente”. San Giovanni parla per simboli: la luce, la vita, il pane, l’acqua, il pastore. Sono simboli universali, di ogni cultura. L’evangelista utilizza questi simboli e li applica tutti a Cristo. Gesù è la vera luce, il vero pane, il vero pastore.

 

L’evento della moltiplicazione dei pani quindi ha anche un significato simbolico, in questo caso eucaristico. Giovanni annota che “era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei”. Gesù quella volta non vi partecipò. Lì sul monte egli non mangia l’agnello ma imbandisce un banchetto in cui si distribuisce e si spezza insieme il pane. L’allusione al banchetto eucaristico è già evidente, ma si accresce ancor più se pensiamo che, a differenza dei racconti di moltiplicazione dei pani raccontati dagli altri evangelisti (Matteo, Marco, Luca), in cui anche i discepoli sono attivi, qui, come nei racconti dell’ultima Cena, solo Gesù agisce: egli stesso prende il pane, rende grazie, lo dà e distribuisce.

 

Non mancano oggi situazioni umane di autentica necessità, di fame vera e propria, in cui tutti possiamo in qualche modo intervenire secondo i mezzi nostri e le nostre possibilità. I nostri fratelli e le nostre sorelle bisognosi hanno diritto a trovare in ciascuno di noi qualcosa dell’abbondanza di Dio che si è manifestata nel gesto di Gesù che ha sfamato le folle. Nella seconda lettura, san Paolo inizia con questa esortazione: “Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi   esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto”. Comportarsi in modo coerente con la chiamata ricevuta significa per Paolo anzitutto “conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace”. La realizzazione di questo ideale di unità e di comunione richiede la disponibilità alla condivisione anche dei beni terreni.

 

Oggi ancora, come un giorno sul monte, Gesù spezza il pane per noi, anzi in quel pane egli dona a noi tutto se stesso, caparra della nostra eterna comunione con lui.

 

 

venerdì 16 luglio 2021

MOTU PROPRIO DI PAPA FRANCESCO SULL’USO DELLA LITURGIA ROMANA ANTERIORE ALLA RIFORMA DEL 1970

 



 

In data odierna, 16 luglio 2021, è stata pubblicata la Lettera Apostolica in forma di Motu proprio “Traditionis custodes” sull’uso della Liturgia romana anteriore alla riforma del 1970.

Scompare la terminologia “forma ordinaria” e “forma straordinaria del rito romano”. Infatti, si afferma che l’unica espressione della lex orandi del Rito romano sono i libri liturgici promulgati dopo il Vaticano II.

Viene sottolineata l’autorità del vescovo di regolare le celebrazioni liturgiche nella propria diocesi. Al vescovo diocesano compete autorizzare l’uso del Missale Romanum del 1962 nella propria diocesi, seguendo gli orientamenti della Santa Sede.

Si danno norme precise sui gruppi che celebrano secondo i Messale antecedente alla riforma del 1970.

Il vescovo avrà cura di non autorizzare la costituzione di nuovi gruppi.

La Congregazione per la dottrina della fede non è più incaricata di regolare questi gruppi. Infatti, il Motu proprio afferma che la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti e la Congregazione per la vita consacrata e le società di vita apostolica, per le materie di loro competenza, eserciteranno l’autorità della Santa Sede sull’osservanza delle nuove disposizioni.

Papa Francesco con la pubblicazione di questa Lettera Apostolica intende proseguire nella costante ricerca della comunione ecclesiale, ferita, aggiungo io, dalla situazione creatasi in questi ultimi anni.

 

https://www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/20210716-motu-proprio-traditionis-custodes.html

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2021/07/16/0469/01015.html

 

 

DOMENICA XVI DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 18 Luglio 2021

 



 

Ger 23,1-6; Sal 22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34
                      
Il brano evangelico di questa domenica lascia intravedere uno spaccato di umanità del Figlio di Dio. Gesù rivolgendosi agli apostoli, che ritornano dalla missione a cui erano stati mandati, li invita a riposarsi un po’: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. Gesù vuole rimanere solo con i suoi apostoli dopo la loro prima esperienza missionaria. Egli si prende cura dei suoi discepoli, della loro fatica, della loro stanchezza. Più avanti ancora, ci viene raccontato che la folla cui Gesù con i suoi discepoli si era sottratto, lo segue nella solitudine. Vedendo la gran folla che accorreva da lui, Gesù “ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose”. Gesù si commuove e mette a disposizione di questa gente il suo insegnamento, anzi mette se stesso a disposizione di quanti hanno bisogno di lui. L’atteggiamento di Gesù nei confronti della folla sta a significare che la misericordia di Dio è offerta a tutti.
 
Nella seconda lettura, san Paolo sottolinea che fonte di pace, di vita autentica dell’uomo con Dio e dell’uomo con l’uomo non è più la legge ma una persona che si è data senza riserve per gli altri, Cristo Gesù: “Egli infatti è la nostra pace”: perché “è colui che di due (popoli) ha fatto una cosa sola”, perché la sua logica porta ad eliminare ogni squilibrio, a distruggere ciò che è “muro di separazione”, fonte di “inimicizia”, in una parola ciò che oppone uomo a uomo, popolo a popolo. In Gesù si compie la parola profetica di Geremia (cf. prima lettura), il quale, dopo la denuncia contro i pastori malvagi del suo tempo che hanno condotto il popolo di Dio alla rovina, annuncia che Dio invierà un re giusto per far ripartire la storia dell’alleanza con il suo popolo. Il nome di questo re è “Signore-nostra-giustizia”, cioè nostra salvezza. Gesù Cristo, il buon pastore, mandato come re e salvatore, è la parola divina di pace rivolta a tutti gli uomini, mediatore della nostra pace con Dio, punto d’incontro di noi con Dio e dell’uomo con l’uomo.
 
Come gli apostoli al ritorno della loro faticosa missione e come la grande folla che seguiva Gesù, anche noi non possiamo fare a meno della “compassione” del Maestro nelle nostre ricerche e nelle nostre fatiche; non possiamo gestire autonomamente i nostri progetti; abbiamo bisogno di riposare in qualcuno che possa dare sicurezza e consistenza al nostro quotidiano impegno, abbiamo bisogno della parola illuminata e illuminante del Signore. Tutti abbiamo bisogno di riposo, di qualche forma di vacanza, di trovare ogni tanto uno spazio di silenzio, ma abbiamo anche grande bisogno di preghiera, di autentico incontro con Dio e con i fratelli per non smarrire il senso profondo della nostra vita, del nostro agire e del nostro sperare. La celebrazione eucaristica domenicale è un momento in cui ci è dato di realizzare questo vero incontro con Dio e con i fratelli. Non sprechiamolo!
 
 

domenica 11 luglio 2021

LA VERITÀ DEL RITO

 


 

Oggi la partecipazione ai sacramenti è la pratica più ovvia e universale, mentre dovrebbe essere vietata finché i fedeli non hanno “lingua da iniziati”, cioè fino a quando non sono in grado di celebrare un rito religioso cristiano. Su questa linea nella formazione dei presbiteri bisognerebbe dare grande risalto ad acquisire la competenza liturgica, con meno preoccupazione per altre discipline, talvolta sovrastimate. Si rimane allibiti per il dilettantismo degli operatori e presidenti del culto, che sembrano nati già competenti e che il più delle vote si esibiscono a inventare novità per salvare i riti dalla loro canonicità ripetitiva. Non immaginano che in questa rigidità si consuma la verità del rito, volto a svuotare presbiteri e fedeli dalle loro certezze religiose per renderli idonei ad accogliere la Grazia. È questo anello mancante che rallenta la riforma liturgica, perché rimane in vigore un modello dualistico e antirituale di esteriore e interiore.

 

(Roberto Tagliaferri, A partire dal rito. Una vicenda controversa, in Luigi Girardi (ed.), A partire dal rito, CLV – Edizioni Liturgiche, Roma; Abbazia Santa Giustina, Padova 2020, 216).

venerdì 9 luglio 2021

DOMENICA XV DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 11 Luglio 2021

 



 

Am 7,12-15; Sal 84; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13

 

La prima lettura ci racconta lo scontro del profeta Amos col gran sacerdote del santuario di Betel Amasìa. Le denunce del profeta contro il culto idolatrico promosso dal re non sono gradite al gran sacerdote, che sta a servizio del santuario stipendiato dal re e, in conseguenza, Amos viene scacciato come disturbatore della pubblica quiete. Egli però ribadisce che profetizza per ordine del Signore che lo ha inviato a parlare al popolo d’Israele. Il profeta quindi parla a nome di Dio ed è responsabile davanti a lui. Il brano evangelico racconta come Gesù manda i Dodici in una prima missione a predicare la conversione. Da parte sua, san Paolo nella seconda lettura afferma che siamo stati “scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati”, perché si realizzi il disegno del Padre di “ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose”. In questo progetto si inserisce anche la missione cristiana. Tutte e tre le letture bibliche quindi ci invitano a riflettere sulla natura della missione. Ecco che ritorna il tema della scorsa domenica, ma sotto angolazione diversa. Là il punto focale era da un lato l’invio di Gesù come profeta per eccellenza e dall’altro l’incomprensione e il rigetto che gli riservano i suoi compatrioti. Nella presente domenica l’argomento è quello della vocazione e missione che Dio affida alla Chiesa per l’attuazione del suo piano di salvezza.

 

Gesù non vuol fare dei suoi un gruppo chiusi di “puri”, di “illuminati”: li manda in missione in mezzo a tutti. Il piano di Dio infatti è di “ricondurre” tutte le cose al Cristo. La missione è un rischio; gli inviati possono essere anche non accolti e non ascoltati. I missionari non vanno a fare una crociata, ma una proposta. Come tale deve avvenire al di fuori di ogni ricatto. Le istruzioni che Gesù dà ai discepoli inviati in missione sono un invito a porre la loro fiducia non nell’abbondanza dei mezzi materiali, ma in colui che li manda e nel messaggio che essi sono chiamati ad annunciare. Il bagaglio “leggero” dei Dodici in missione fa spontaneamente pensare al bagaglio “pesante” che a volte sopporta la nostra testimonianza. Non dobbiamo dimenticare mai che la missione consiste nel testimoniare davanti al mondo Gesù Cristo mandato dal Padre, morto e risorto, che ha inviato il suo Spirito perché, per mezzo di lui, tutto ritorni al Padre. Il piano di Dio – lo abbiamo già detto –  è di “ricondurre” tutto al Cristo.

 

Dio ha scelto ciascuno di noi fin dall’eternità e attraverso il battesimo ci ha privilegiati non perché usassimo egoisticamente di questo dono, ma perché diventassimo nel mondo testimoni del suo amore. In casa e al lavoro, per le strade e sulle spiagge, nella gioia e nel dolore, con i vicini, gli amici, i familiari, e anche con chi non ci è amico, siamo chiami a condividere questa nostra speranza. Ciò può comportare, come al profeta Amos e agli apostoli, incomprensioni e sofferenza.

lunedì 5 luglio 2021

"SUMMORUM PONTIFICUM" 14 ANNI DOPO (7 luglio 2007 - 7 luglio 2021)


 


 

In aprile del 2020, la Congregazione per la dottrina della fede inviò a tutti i vescovi della Chiesa un questionario con una serie di domande sull’applicazione del Motu proprio Summorum Pontificum. Le risposte dei vescovi dovevano arrivare a Roma prima del mese di agosto dello stesso 2020. Recentemente, il lunedì dopo la Pentecoste (24 maggio 2021), papa Francesco in un incontro con la Conferenza dei vescovi italiani, ha comunicato che si sta lavorando nella redazione di un documento per reinterpretare Summorum Pontificum. Per quanto si è potuto sapere, si tratterebbe di dare maggiore autorità in materia ai vescovi. D’altra parte, Benedetto XVI nella Lettera che accompagnava la pubblicazione del Motu proprio, riconosceva che “ogni vescovo è moderatore della liturgia nella propria diocesi” e, al riguardo, citava Sacrosanctum Concilium 22. La Commissione Ecclesia Dei, invece, nell’Istruzione con cui applicò il Motu proprio (30.04.2011), sembra interpretare il documento sottolineando l’autonomia del singolo sacerdote nei confronti del vescovo (così, ad esempio, nel n. 23 dell’Istruzione).

L’autorità del vescovo in materia liturgica è uno dei punti deboli di Summorum Pontificum e della sua applicazione, come dimostra la risposta della Conferenza dei vescovi di Francia al questionario della Congregazione per la dottrina della fede. Infatti, la critica principale che i prelati fanno ai gruppi che celebrano secondo la forma straordinaria del rito romano la possiamo riassumere con queste parole: Dà l’impressione che la liturgia è una questione di gusto personale; le sensibilità liturgiche prevalgono sulla comunione ecclesiale; l’eucaristia che dovrebbe unire, divide. In questo modo si favorisce la formazione di una Chiesa parallela e l’autorità del vescovo in queste comunità è praticamente nulla.

Noto che lo stesso card. Joseph Ratzinger nel 2001, al tempo Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, esprimeva gli stessi principi dottrinali quando affermava: “Se l'ecclesialità diventa una questione di libera scelta, se ci sono nella Chiesa delle chiese rituali scelte secondo un criterio soggettivo, questo diventa un problema. La Chiesa è costruita sui vescovi secondo la successione apostolica, nella forma di Chiese locali, quindi con un criterio oggettivo. Io mi trovo in questa Chiesa locale e non cerco i miei amici, incontro i miei fratelli e le mie sorelle; i fratelli e le sorelle non si cercano, si incontrano[1].

Il vaticanista Marco Ansaldo, nel suo libro Un altro Papa. Ratzinger, le dimissioni e lo scontro con Bergoglio, è molto severo con Benedetto XVI e il suo entourage quando afferma: “Che a papa Benedetto XVI difettasse il dono del governo lo si era capito man mano che sceglieva i suoi collaboratori. La prima cerchia, a lui più vicina, definita perfidamente ‘gli intimi di Carinzia’, venne alla ribalta quando i componenti della cricca trasformarono il Motu proprio Summorum Pontificum in un manifesto delle loro superbe ignoranze barocche in materia di dottrina e liturgia[2].

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] “Si l’ecclésialité devient une question de choix libre, s’il y a dans l’Eglise des églises rituelles choisies selon un critère de subjectivité, cela crée un problème. L’Eglise, est construite sur les évêques selon la succession des apôtres, dans la forme des Eglises locales, donc avec un critère objectif. Je suis dans cette Eglise locale et je ne cherche pas mes amis, je trouve mes frères et mes sœurs; et les frères et les sœurs, on ne les cherche pas, on les trouve” ( Autour de la question liturgique. Avec le Cardinal Ratzinger, Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, Association Petrus a Stella, Fontgombault, 2001).

[2] Marco Ansaldo, Un altro Papa. Ratzinger, le dimissioni e lo scontro con Bergoglio, Rizzoli 2020, 57-58.    


domenica 4 luglio 2021

MANIFESTO DELLA COMUNICAZIONE NON OSTILE

 



 

1. Virtuale è reale. Dico e scrivo in rete solo cose che ho il coraggio di dire di persona.

 

2. Si è ciò che si comunica. Le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano.

 

3. Le parole danno forma al pensiero. Mi prendo tutto il tempo necessario a esprimere al meglio quel che penso.

 

4. Prima di parlare bisogna ascoltare. Nessuno ha sempre ragione, neanche io. Ascolto con onestà e apertura.

 

5. Le parole sono come un ponte. Scelgo le parole per comprendere, farmi capire, avvicinarmi agli altri.

 

6. Le parole hanno conseguenze. So che ogni mia parolaa può avere conseguenze, piccole o grandi.

 

7. Condividere è una responsabilità. Condivido testi e immagini solo dopo averli letti, valutati, compresi.

 

8. Le idee si possono discutere. Le persone si devono rispettare. Non trasformo chi sostiene opinioni che non condivido in un nemico da annientare.

 

9. Gli insulti non sono argomenti. Non accetto insulti e aggressività, nemmeno a favore della mia tesi.

 

10. Anche il silenzio comunica. Quando la scelta migliore è tacere, taccio.

 

 

Fonte: Giovanni Grandi, Virtuale è reale. Aver cura delle parole per aver cura delle persone. Prefazione di Rosy Russo (# Volersi bene 2), Paoline, Milano 2021, 17-18.

 

venerdì 2 luglio 2021

DOMENICA XIV DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 4 Luglio 2021


 

 

Ez 2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6

 

La prima lettura ci parla di Ezechiele; essendo membro di una famiglia influente, fu deportato assieme ad altri numerosi compagni di sventura a Babilonia. Qui, nella solitudine dell’esilio sulle rive del fiume Chebàr, Dio gli si manifesta e lo manda a parlare al suo popolo che, nonostante l’elezione divina, è “una razza di ribelli”. Ezechiele è chiamato a denunciare il peccato di Israele come violazione dell’alleanza con Dio, che si radica nel “cuore indurito”. Da qui derivano la resistenza e il rifiuto da parte dei destinatari della sua missione. La difficile missione del profeta Ezechiele tra i suoi connazionali viene proposta come lo sfondo adatto per capire la disastrosa esperienza di Gesù nel proprio paese, di cui ci parla il brano evangelico. A Nazaret, dove ha passato gran parte della sua vita, Gesù al sabato predica nella sinagoga suscitando un certo stupore e incontrando allo stesso tempo un ostile rifiuto. Di fronte a questa reazione, Gesù non trova altra spiegazione se non quella che la sapienza popolare ha condensato nel proverbio: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Gesù si predispone a percorrere la sorte dei profeti, che nella tradizione biblica sono contestati e rifiutati da coloro ai quali sono inviati. L’esperienza di san Paolo non è stata molto diversa. Ce ne parla egli stesso nel brano della seconda lettura, in cui ci ricorda le difficoltà di ogni genere incontrate nella sua attività di evangelizzatore: oltraggi, persecuzioni, angosce sofferte per Cristo.

 

Volendo trarre da questi passaggi un insegnamento valido per tutti noi, possiamo rivolgere la nostra attenzione in modo particolare al racconto evangelico. Uno dei motivi della freddezza dei nazaretani nei confronti di Gesù è il fatto che egli non era stato e non sembrava essere che uno di loro. I concittadini di Gesù si erano costruita un’idea del Messia che non combaciava con quella offerta dal “falegname, il figlio di Maria”. Essi non volevano mettere in discussione i loro schemi mentali. Ecco perché passano rapidamente dallo stupore, allo scandalo e poi alla incredulità. Uno dei motivi per cui la parola di Dio può essere inefficace in noi è la durezza del nostro cuore, l’attaccamento incondizionato ai propri schemi di pensiero, alla propria visione delle cose, al proprio modo di affrontare la vita. Il nostro orgoglio ci impedisce talvolta di metterci in discussione e quindi di accogliere il messaggio salvifico che ci invita a cambiare di condotta. L’antifona al Magnificat dei Secondi vespri di questa domenica riprende un versetto del vangelo di san Giovanni (1,11) che parla del prezioso dono che viene offerto a coloro che accolgono il Signore: “Gesù venne tra la sua gente, e i suoi non l’accolsero. A chi l’accoglie, dà il potere di diventare figli di Dio”.   

         

Dio vuole che la verità si imponga per sé stessa, non per i condizionamenti esterni. Egli inoltre si propone come un Dio imprevedibile, che si rivela mediante strumenti e nei momenti più impensati. La sua offerta di salvezza non è legata a formule fisse, e se schemi preferiti ci sono, sono quelli umanamente più fragili, perché si manifesti pienamente la sua potenza (cf. seconda lettura).