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giovedì 30 dicembre 2021

MARIA SS. MADRE DI DIO – 1 Gennaio 2022

 

 


 

Nm 6,22-27; Sal 66; Gal 4,4-7; Lc 2, 16-21

  

Iniziamo un nuovo anno. Il tempo passa e con esso la nostra vita corre verso il suo compimento. Guardiamo indietro e ricordiamo tanti momenti belli e gioiosi ma forse anche momenti tristi e talvolta drammatici. Guardiamo avanti e ci auguriamo che il tempo che il Signore voglia ancora concederci trascorra serenamente.

 

In questo primo giorno dell’anno si sovrappongono una serie di temi: l’inizio dell’anno, l’ottava del Natale, la solennità di Maria SS. Madre di Dio e la giornata della pace istituita da Paolo VI nel 1967. Possiamo aggiungere ancora, con il brano evangelico, la circoncisione, in cui “gli fu messo nome Gesù”, che significa “Iahvè salva”; in Luca, è a Maria che viene detto il nome scelto da Dio (1,31), mentre in Matteo viene detto a Giuseppe (Mt 1,21.25). Tutte queste tematiche possono trovare un logico collegamento tra loro nel tema della benedizione. Maria, la benedetta fra tutte le donne, ci ha donato Gesù, frutto benedetto del suo seno, primogenito fra molti fratelli. Infatti, anche noi siamo diventati, per opera dello Spirito, figli ed eredi, e, in questo modo, tutta la nostra vita è nel segno della benedizione divina di cui la pace è frutto prezioso. Le letture bibliche d’oggi riprendono queste tematiche e conferiscono loro motivazioni e contenuti dottrinali.

 

La prima lettura descrive come i sacerdoti d’Israele davano al popolo la benedizione al termine delle grandi feste liturgiche. Quest’antica benedizione sacerdotale, ancora oggi usata nella liturgia sinagogale, fa perno sul nome del Signore, richiamato per tre volte (alcuni Padri della Chiesa l’hanno interpretato in senso trinitario), e pone questo nome sui figli d’Israele. “Porre il nome” vuol dire stabilire una relazione con la persona. La benedizione è riconoscimento che ogni bene viene da Dio e dipende da una vita di comunione con lui. Segno manifesto delle benedizioni divine è la pace: Dio benedice il suo popolo e lo conduce alla pace. Il pieno compimento della benedizione si ha in Gesù Cristo, proclamato dall’antifona d’ingresso “Principe della pace”. San Paolo lo illustra a modo suo nella seconda lettura quando afferma che in Cristo abbiamo ricevuto “l’adozione a figli”; non siamo più schiavi, ma figli. Possiamo diventare consapevoli della nostra condizione filiale perché ci è stato donato lo Spirito, che plasma interiormente in ognuno di noi i lineamenti del Cristo, il Figlio primogenito. Questo mistero è stato possibile ed è reso visibile perché, “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna”. In questo modo, la maternità di Maria accresce la propria realtà dandosi a vedere quale “madre del Cristo e di tutta la Chiesa” (orazione dopo la comunione). Maria è inoltre esemplare di accoglienza delle benedizioni divine donateci in Cristo: nel brano del vangelo essa appare come colei che serba e medita nell’interiorità del cuore tutti gli eventi che riguardano il Figlio, frutto benedetto del suo seno. Da madre si fa anche prima discepola fin da ora, custodendo nel cuore il mistero.

 

Col nuovo anno inizia un ulteriore tratto del cammino della nostra vita che siamo invitati a percorrere sotto il segno della benedizione di Dio. L’eucaristia che segue alla proclamazione della Parola al tempo stesso che ci pone in atteggiamento di riconoscenza per i doni ricevuti da Dio, di cui Cristo è il dono più prezioso, ci rassicura che ogni giorno di questo nuovo anno, ogni giorno della nostra vita sarà sempre un dono prezioso della grazia divina. A noi aspetta accoglierlo con gratitudine e renderlo fruttuoso nella vita quotidiana.

 



 

domenica 26 dicembre 2021

“PER EVANGELICA DICTA DELEANTUR NOSTRA DELICTA”

 





 

Terminata la lettura del Vangelo, il sacerdote acclama “Verbum Domini” (Parola del Signore), e bacia il libro dicendo sottovoce: “Per evangelica dicta deleantur nostra delicta” (La parola del Vangelo cancelli i nostri peccati). Formule simili accompagnano fin dall’anno mille circa il bacio del Vangelo. Alla acclamazione iniziale il popolo risponde: “Laus tibi, Christe” (Lode a te, o Cristo). Sarebbe da augurarsi che anche le parole sottovoce che accompagnano il bacio del libro alla fine della lettura evangelica fossero pronunciate da tutti i partecipanti, si tratta infatti di una formula al plurale che esprime in forma di preghiera ciò che afferma l’Introduzione al Lezionario della Messa, al n. 4: “Nella Parola di Dio è presente il Cristo, che attuando il suo mistero di salvezza, santifica gli uomini e rende al Padre un culto perfetto”.

Nel secolo scorso, in particolare dopo la celebrazione del Concilio Vaticano II, dagli anni ’70 in poi, sono stati diversi gli autori che hanno approfondito e messo in rilievo la dimensione sacramentale della Parola di Dio. Recentemente, ho presentato in questo blog l’importante studio di A. Bozzolo e M. Pavan (Sacramentalità della Parola, Queriniana 2020), che fa la sintesi di questo lungo cammino di approfondimento della dimensione sacramentale della Parola. Ciononostante, possiamo affermare che permane ancora in alcune riflessioni teologiche e nella pastorale, particolarmente in alcune omelie, una certa dicotomia tra sacramento e Parola, cioè la concezione che il sacramento dona la grazia mentre la Parola biblica propone la dottrina, che il sacramento è efficace mentre la Parola può solo preparare il sacramento oltre che insegnare. Ma se la parola di Dio non è vissuta nell'economia sacramentale fino a essere accolta come realtà sacramentale, come trasmissione di potenza spirituale e di grazia – e non solo come comunicazione di verità, di precetto e di dottrina –, rischia di restare sempre parola su Dio, configurandosi soltanto come un preludio alla celebrazione del sacramento.

La Parola va proclamata, celebrata, ascoltata e vissuta. Ognuno di questi momenti è importante affinché essa “abbia un intrinseco riferimento alla persona di Cristo e alla modalità sacramentale della sua permanenza” (cf. Benedetto XVI, Sacramentum caritatis 45). La nota affermazione di Agostino: “Accedit verbum ad elementum et fit sacramentum” invita a sfruttare ogni elemento rituale che accompagna la proclamazione della Parola. La forma dell’atto celebrativo non è meramente un rivestimento esteriore del sacramento, ma la modalità storica della sua attuazione.

 

sabato 25 dicembre 2021

DOMENICA DOPO NATALE: SANTA FAMIGLIA DI GESU’ MARIA E GIUSEPPE (C) 26 Dicembre 2021

 


 

 

1Sam 1,20-22.24-28; Sal 83; 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52

 

Tutte e tre le letture bibliche odierne parlano della nascita dell’uomo all’interno della famiglia, ma tutte e tre affermano che il bambino è più grande della famiglia in cui nasce. Ciò la prima lettura lo dice di Samuele, il vangelo lo afferma di Gesù, e la seconda lettura lo applica ad ogni uomo, ad ogni battezzato, vero figlio di Dio. Il destino dell’uomo che viene a questo mondo è un destino che sovrasta i limiti della famiglia in cui nasce perché la dimensione ultima della sua vita trascende le realtà di questo mondo. Questo vale anzitutto per Gesù.

 

Il vangelo ci racconta che Maria e Giuseppe si recano a Gerusalemme per la ricorrenza della Pasqua ebraica. Gesù, ormai dodicenne, accompagna i suoi genitori in questo pio pellegrinaggio. Ed ecco che al ritorno il bambino rimane a Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgano. Dopo tre giorni di angosciose ricerche, nel ritrovarlo seduto in mezzo ai dottori nel tempio, Maria non può far a meno di rimproverare affettuosamente suo figlio, come farebbe ogni mamma: “perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Gesù risponde: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. E’ la prima autorivelazione del suo destino. Il brano evangelico aggiunge che Maria e Giuseppe non compresero queste parole. Dice però che Maria “custodiva tutte queste cose nel suo cuore”. La breve parentesi dell’autorivelazione di Gesù nel tempio di Gerusalemme prelude a quella della sua pasqua di morte e risurrezione. I tre giorni di angosciosa ricerca da parte di Maria e Giuseppe anticipano i tre giorni del suo dramma finale.

 

L’odierna festa della Sacra Famiglia ci invita a riflettere sul mistero del figlio, d’ogni figlio, d’ogni uomo. “Eredità del Signore sono i figli” (Sal 127,3a). Perciò su ogni uomo che viene a questo mondo, Dio ha un suo progetto. La persona è chiamata ad uscire dall’ambito della famiglia e trovare nella obbedienza a Dio la dimensione ultima della sua vita al di là di ogni tentazione di possesso personale dei propri genitori. Gesù affermerà più volte di avere Dio per Padre (cf. Lc 10,22; 22,29; Gv 20,17) rivendicando per sé un rapporto che oltrepassa quello paterno e anche quello materno. Le ultime parole del vangelo d’oggi ci fanno capire però che il progetto di Dio su di noi si realizza attraverso il passaggio di crescita e di maturazione in seno alla famiglia: “Scese, dunque, con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso…” Gesù vive e cresce in una famiglia dove Maria e Giuseppe offrono l’insegnamento della loro saggezza rimanendo sempre aperti al progetto di Dio sul loro figlio. La famiglia in cui la persona umana nasce e cresce è essenziale; ma la persona dovrà uscire dall’ambito familiare e trovare nell’obbedienza a Dio la dimensione ultima della sua vita. La famiglia svolge il proprio compito quando non ostacola, ma si pone al servizio del pieno sviluppo umano e spirituale della persona.

 

Oggi si è passati dalla famiglia con un “ruolo normativo” in cui si trasmettevano principi morali e norme sociali, alla famiglia “affettiva” orientata a soddisfare i bisogni individuali dei figli, a evitargli sofferenze e frustrazioni. Stiamo assistendo ad un’educazione in cui lo stile affettivo tende a predominare su quello normativo al punto di metterlo in secondo piano.


Sarebbe esagerato ed anacronistico rimpiangere la figura autoritaria dei genitori che impartivano divieti ed obblighi, così come risulterebbe eccessivo da parte della famiglia considerare come primario l’aspetto affettivo e delegare alla scuola il compito di insegnare le regole. Una fede matura e vissuta coerentemente può essere il modo più adatto di trasmettere ai figli quei valori che presto o tardi li aiuteranno a crearsi una visione adeguata e cristiana della vita.

giovedì 23 dicembre 2021

NATALE 2021 (Messa del giorno)

 



 

Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

 

Poeti, filosofi, pensatori, credenti o meno in Dio, si domandano sul senso della vita. Tra questi, ricordiamo alcuni versi di un grande poeta italo-francese Paul Valéry, scomparso a metà del secolo scorso. Egli scrive: “Solo. Sempre solo… Nessuno ascolta la mia voce interiore. Nessuno che mi parli direttamente, che comprenda le mie lacrime e riceva la confidenza del mio cuore… Solo. Se ci fosse un Dio, visiterebbe, credo, la mia solitudine…”

 

“Se ci fosse un Dio” che visitasse la nostra solitudine! L’aspirazione di Valéry e le domande simili che si pongono altri come, ad esempio, Leopardi, hanno avuto una risposta. A Natale ricordiamo la venuta di Dio sulla terra e la conseguente rivelazione del nostro destino. Dio c’è. E’ venuto ed è vissuto tra noi, e tra noi desidera rimanere per condividere la condizione umana, rispondere alle nostre domande, rompere la nostra solitudine, comunicarci la sua divinità. La liturgia natalizia riecheggia il lieto annuncio del vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio… E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,1.14); la liturgia natalizia riecheggia anche l’esultanza del profeta Isaia: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace”. Questo messaggero che annuncia la pace è Cristo.

 

L’Incarnazione del Verbo di Dio è il cuore della fede cristiana. Essa ci dice che Dio non è l’essere sperduto nei cieli, lontano da noi e sordo alle nostre invocazioni. E’ l’Emmanuele, il Dio-con-noi, che ha piantato la sua tenda accanto alle nostre, pronto a spostarla e portarla dove noi ci stabiliamo. In tale prospettiva la solitudine è superata, poiché il Verbo, assumendo la natura umana, si è fatto nostro compagno di strada. Non occorre più cercare Dio nell’infinità del cielo, dove la nostra mente e il nostro cuore si smarriscono. Dio, nel Verbo incarnato ci sta accanto, sperimenta la nostra fatica di pellegrini, la fame, la sete, la stanchezza, l’ostilità, e anche l’angoscia della morte. Ci comprende e ci aiuta a raggiungere la mèta.

 

Leopardi si domanda: “Ed io chi sono?” La sua risposta è desolante: viandante smarrito e lacerato, preda della noia. Un altro dei pensatori moderni ha affermato che l’uomo è un condannato a portare il proprio cadavere. E per il filosofo Sartre, l’uomo è una “passione inutile”. L’evento del Natale ribalta queste desolate definizioni e fa vedere l’uomo su uno sfondo di dignità, di valore, di immortalità. Che questo Natale sia per tutti noi un momento di serenità, di speranza nel futuro, di certezza della presenza in mezzo a noi di colui che è disceso dal cielo per abbracciare l’umanità intera e ridare ad essa la sua primigenia dignità. Ci ricordiamo di coloro che vivono queste feste nella sofferenza, nella povertà, talvolta in situazioni disperate. Ci ricordiamo dei paesi in guerra, degli uomini e delle donne che hanno perso la fiducia in sé stessi, di tutti coloro che hanno bisogno di ritrovare il senso della propria esistenza. Che il messaggio del Natale possa arrivare a tutti per ricominciare a sperare e ad amare.





sabato 18 dicembre 2021

Le risposte ai “dubia” e la fine del “dispositivo di blocco”

 



di Andrea Grillo

 

Pubblicato il 18 dicembre 2021 nel blog: Come se non

 

Il documento Responsa ad dubia della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti su alcune disposizioni della Lettera Apostolica in forma di «Motu Proprio» Traditionis Custodes del Sommo Pontefice Francesco aiuta a comprendere meglio la questione di fondo che il MP “Traditiones custodes” ha risolto 5 mesi fa e che fatica ad essere compresa in quella regione ecclesiale che, a partire dal 2007, era stata illusa sulla possibilità di valorizzare una “indifferenza istituzionale” verso la Riforma Liturgica. Il “vulnus” di quella intemperanza istituzionale oggi crea ancora vittime. Un breve sguardo al recente documento è in grado di farci capire dove si collochi il problema fondamentale.

Domande e risposte

Il documento non è altro che un insieme di “dubia” (ben 11) , ai quali viene dato un “responsum” quasi sempre con una “nota esplicativa” che precisa i motivi per i quali è prevalso il sì o il no nella risposta. Da notare è che, prima dei responsa, vi è un testo piuttosto articolato, a firma del Prefetto Roche, che chiarisce come la “mens” del MP Traditionis custodes sia quella di ristabilire il percorso normale di riforma liturgica, così come viene riascoltato sia dalle parole di papa Paolo VI a chiusura della II sessione del Concilio, sia nei termini della “irreversibilità” ripresa recentemente da papa Francesco. I temi fondamentali su cui vertono le questioni sono il modo di interpretare le competenze episcopali – che TC ha restituito ai Vescovi – o quali siano i libri, i soggetti e i luoghi coinvolti nella celebrazione del Rito pre-conciliare. Mi pare che le risposte siano fondate sulla logica della riforma liturgica e sul buon senso.

Da dove vengono i “dubia”?

Credo che sia utile, oltre che considerare la importanza delle risposte, sofferemarsi sulle domande sollevate. Ed è molto importante chiedersi: da dove scaturiscono questi interrogativi? Chi li ha sentiti sorgere nel proprio cuore e nella propria mente? La risposta è molto semplice: vengono da tutti coloro che, in modo inavvertito e superficiale, talora in modo ideologico e superficiale, avevano potuto credere che “Summorum Pontificum” istituisse ufficialmente la “non irreversibilità del Concilio Vaticano II”. E che quindi tutto quello che dal 1963 era diventato sempre più autorevole, aveva scritto pagine di storia, istituito forme rituali, ripensato le vite e convertito i cuori, potesse essere guardato con una alzata di spalle, come una “possibilità”, ma non come una necessità. Così, in 14 anni di “pratiche parallele”, una serie di uomini e donne, di preti e di vescovi, di abati e di monaci, di religiose e di religiose, si sono lasciati affascinare da questo “mito”. Il mito della “reversibilità” del Concilio Vaticano II, il mito del parallelismo rituale, il mito della “devianza conciliare”, il mito non solo della “messa di sempre”, ma della liturgia immobile e della tradizione monumentale.

Quando salta il “dispositivo di blocco”

Ma c’è di più. La questione non riguarda né solo né soprattutto la liturgia. E’ il Concilio Vaticano II in quanto tale ad essere in gioco. Come è stata proprio la liturgia il primo livello su cui il Concilio ha avuto la forza di una “riforma”, un sogno coltivato a partire dagli anni 80, e durato quasi 35 anni, ha preso forma nel fermare la riforma liturgica, per svuotare il Concilio di ogni autorità. Le forme della comunione, l’esercizio del ministero, il ruolo dei laici e delle donne, la relazione tra centro e periferia, le scelte nella traduzione delle parole e dei gesti: tutto ha potuto essere pensato come “assolutamente immodificabile”. Questo è accaduto, in modo simbolico, proprio nella liturgia, nelle sue forme da tradurre e da inculturare, e che sono apparse per 30 anni, custodite solo dal passato e non dal futuro. Un vero e proprio “dispositivo di blocco” si era andato perfezionando sul piano liturgico: e alla vigilia di questo grande passo – che non è altro che un ritornare sulla grande strada del Concilio – non avevamo visto una grande Congregazione pubblicare una versione puntigliosamente “riformata” del rito che si pretendeva “irreformabile”?

Il gioco degli specchi e la tradizione che viene dal futuro

Il giochino, che fanno spesso anche i bambini, è questo: chi porta la guerra fa la vittima e chi cerca la pace è dipinto come guerrafondaio. Non bastano le dichiarazioni e le intenzioni, per dire che Summorum Pontificum era un documento di pace. Io mi sono convinto, fin dal 2007, che eravamo di fronte ad un pesante attacco non alla liturgia, ma al Concilio. Oggi, nel mito dei “dubbiosi”, quel testo sembra il “paradiso perduto” della pace nella Chiesa. Nulla di più falso. Così come è falso pensare che queste equilibrate risposte ai dubbi siano “intolleranti” o “pesanti” o che “infieriscano” sui deboli. Riportano semplicemente le cose alla ragione. Purtroppo questo oggi è più difficile perché moltissimi di coloro che dal 2007 avrebbero potuto scrivere, parlare, testimoniare, obiettare si sono adagiati in un barile, sotto sale, come piccoli pesci. Per la dignità del ministero pastorale e teologico non è il massimo, anche se garantisce la conservazione (di sé). La voce alta dei dubbiosi oggi ottiene risposte pacate e serie, che rischiano di essere fraintese proprio a causa della ambiguità con cui molti prima hanno o taciuto o parlato solo per enigmi. La tradizione migliore ci attende nel futuro: nell’unico rito comune, che ora, doverosamente, TC ha ricollocato al centro, per tutti, possiamo fare entrare il meglio sia dei dubbi più accorati, sia delle risposte meglio fondate.

 

venerdì 17 dicembre 2021

DOMENICA IV DI AVVENTO (C) – 19 Dicembre 2021

 



Mi 5,1-4°; Sal 79; Eb 10,5-10; Lc 1,39-45

 

Il Sal 79, che fu una supplica d’Israele per implorare l’intervento di Dio liberatore, è diventato preghiera e supplica della Chiesa soprattutto nel Tempo di Avvento, vicini ormai al Natale. Nell’attesa dell’imminente manifestazione del Cristo, la nostra preghiera diventa pressante: “Signore, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi” (ritornello del salmo responsoriale).

 

La quarta e ultima domenica di Avvento svolge il ruolo di una sorta di vigilia del Natale e quindi l’attenzione dei testi liturgici è volta a coloro che, in ogni nascita, sono i protagonisti: la madre e suo figlio. Il Messia annunciato, “colui che deve essere il dominatore in Israele” (prima lettura), giunge tramite la piena disponibilità di Maria al piano di Dio (cf. vangelo). Egli viene per adempiere la volontà salvifica del Padre, per salvare cioè l’uomo mediante l’offerta non di olocausti né sacrifici ma del proprio corpo (cf. seconda lettura). 

 

La venuta del Figlio di Dio richiede una preparazione, una disposizione all’accoglienza. Questa preparazione si compie lungo tutto l’Antico Testamento, e trova espressione particolare nelle parole dei profeti e nelle speranze e preghiere del popolo d’Israele. Ma questa preparazione ha un suo particolare compimento nella fede obbediente di Maria. Elisabetta proclama Maria beata perché “ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Troviamo nel vangelo di san Luca un altro passaggio dove viene lodata da Gesù stesso la fede obbediente di Maria. L’evangelista ci tramanda le parole di una donna che si trova tra la folla che segue e ascolta Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!”. A queste parole Gesù risponde: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). Qui sta la vera grandezza di Maria, nella sua totale disponibilità all’ascolto e nell’accoglienza fattiva della parola di Dio. Maria, che ha incarnato l’attesa e la fede di Israele nelle promesse di Dio, diventa prototipo della Chiesa nel suo cammino incontro al Cristo.

 

Possiamo quindi affermare che il testo evangelico è anzitutto celebrazione dell’accoglienza. Elisabetta riconosce in Maria colei che ha accolto la parola di Dio credendo al suo compimento. Maria canta Dio come Colui che l’ha accolta nella sua piccolezza rivolgendole uno sguardo di amore e di elezione. Nella visitazione, poi, Maria ed Elisabetta si accolgono reciprocamente riconoscendo ciascuna l’azione che Dio ha compiuto nell’altra: Elisabetta, la sterile, è rimasta incinta, e Maria, la vergine, ha concepito per opera dello Spirito Santo. Il mistero del Natale è un mistero di accoglienza: accoglienza di Dio che viene a noi, e accoglienza vicendevole riconoscendo in noi e negli altri la presenza di Dio con i suoi doni.

domenica 12 dicembre 2021

LE ANTIFONE DELLA “O”

 


 

         

Le sette antifone al Magnificat dei Vespri dei giorni 17 al 23 dicembre, chiamate antifone maggiori e attribuite a san Gregorio Magno (540-604), illustrano la personalità dell’Atteso in cui si compie la speranza di Israele e di tutta l’umanità. Riappropriandosi delle antiche immagini bibliche, queste antifone enumerano i titoli divini del Verbo incarnato, ed il loro insistente “Vieni” esprime tutta la speranza della Chiesa: Egli è la “Sapienza che esce dalla bocca dell’Altissimo” (cf. Sir 24,3; Sap 7,28-30; 8,1), il “Signore” (in ebraico Adonai e in greco Kyrios), il “Germoglio di Iesse” (cf. Is 11,1-2.10; Ap 22,16; Rm 15,12), la “Chiave di Davide” (cf. Is 22,20-22; Ap 3,7), “Astro che sorge (Oriente), splendore della luce eterna, sole di giustizia” (cf. Is 9,1; 42,6; Ml 3,19-20; Lc 1,78-79), “Re delle genti, atteso da tutte le nazioni, pietra angolare che unisce i popoli in uno” (cf. Is 28,16; Sal 118,22; Zc 14,9; Ap 15,3-4), l’ “Emmanuele” (cf. Is 7,14; Mt 1,23), la “speranza e salvezza dei popoli”. Queste antifone vengono poi riprese nella celebrazione della messa degli stessi giorni come versetto dell’Alleluia.

Le lettere iniziali di ogni antifona, partendo dall’ultima, formano la frase latina “ero cras” (“domani ci sarò”), espressione che sottolinea il carattere di attesa che caratterizza il tempo di Avvento.

venerdì 10 dicembre 2021

DOMENICA III DI AVVENTO (C) – 12 Dicembre 2021

 



 

Sof 3,14-18°; Is 12,2-6; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18

 

Il tema della gioia attraversa le letture bibliche di questa domenica, terza di Avvento. Siamo invitati alla gioia “perché il Signore è vicino” (seconda lettura), anzi è in mezzo a noi come “salvatore potente” (prima lettura). Infatti, è lui che battezza “in Spirito Santo e fuoco” (vangelo); il “fuoco” nella prospettiva di Luca è il simbolo dello Spirito Santo che Gesù comunica ai discepoli a Pentecoste. Se il messaggio della seconda domenica di Avvento era un pressante invito alla conversione per far fruttificare in noi il dono della salvezza, oggi siamo invitati alla gioia, frutto del dono della salvezza. Domenica scorsa, il personaggio centrale era Giovanni Battista che invitava a preparare le vie del Signore. Oggi il personaggio centrale è Gesù, datore dello Spirito.

 

L’Avvento, proiettandoci verso il mistero della presenza salvatrice del Cristo, non può non essere caratterizzato dalla gioia. Quando però fin dal Medioevo l’Avvento aveva assunto un aspetto fortemente penitenziale, questa domenica interrompeva la penitenza e diventava una festa gioiosa, quasi anticipo del Natale ormai vicino. Il senso festivo e gioioso veniva sottolineato da alcuni segni esteriori, quali, ad esempio, il fatto di indossare per la celebrazione eucaristica i paramenti colore rosa. Ciò è ancora possibile, ma certamente molto meno significativo in quanto l’Avvento ha perso quel forte aspetto penitenziale che lo assimilava alla Quaresima. In ogni modo, la liturgia odierna è contrassegnata da un forte richiamo alla gioia, che viene vista come espressione immediata della fede che riconosce la vicinanza del Signore.

 

 La gioia cristiana, di cui parliamo, non è vuota, senza senso, ma è fondata sulla presenza di Dio che salva. In questo contesto, possiamo affermare che l’eucaristia è la gioia del nostro pellegrinaggio. Si tratta di una gioia anzitutto interiore, profonda, che si colloca nella sfera della salvezza, nella ricerca sincera di Dio, nella persuasione ferma di averlo come propria eredità, nella certezza incrollabile di poter contare su di lui in ogni evenienza. Questa gioia è misteriosa, perché può coesistere anche col dolore fisico e morale, con l’umiliazione, la tentazione, la solitudine. Paradosso cristiano, espresso in modo sublime da san Francesco d’Assisi quando dice: “E’ tanto il bene che m’aspetto che ogni pena m’è diletto”. L’uomo può essere ricco, pieno di salute e, nonostante tutto, sentire il cuore profondamente insoddisfatto. Se non si è ricchi dentro, ricchi di fede e di speranza, difficilmente si può avere l’esperienza della gioia cristiana. La spiritualità cristiana della gioia però non deve attenuare in noi la partecipazione cordiale ai beni di questo mondo e alla sua condivisione gioiosa con gli uomini, nostri fratelli. Anzi nella condivisione fraterna e gioiosa dei beni di questo mondo si esprimono i frutti della salvezza portata da Cristo, e trovano compimento le parole profetiche: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (canto al vangelo – Is 61,1).

 

lunedì 6 dicembre 2021

IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA B.V. MARIA – 8 Dicembre 2021

 



  

Gen 3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38

 

Il ritornello del salmo responsoriale sintetizza molto bene i sentimenti della Chiesa in questa solennità dell’Immacolata Concezione di Maria. La Chiesa contempla in Maria il capolavoro di Dio. Il salmo 97 canta la vittoria finale di Dio sulle potenze del male e la salvezza che ne conseguirà per Israele e per tutti i popoli. Maria riprende il v. 3 di questo salmo nel suo Magnificat per celebrare l’opera di salvezza che Dio ha realizzato in lei. In Maria preservata immune da ogni macchia di colpa originale, in previsione della morte di Cristo (cf. la colletta), noi contempliamo compiuto in modo meraviglioso il disegno amoroso che Dio ha su tutti noi. In Maria Immacolata, infatti, celebriamo l’alba della redenzione, l’inizio della nuova umanità o, come dice il prefazio della messa, “l’inizio della Chiesa, sposa di Cristo senza macchia e senza ruga, splendente di bellezza”.

 

La prima lettura racconta il peccato di disubbidienza di Adamo ed Eva e le sue conseguenze. Dio si rivolge al serpente per punirlo della sua opera di seduzione al male: la sua momentanea vittoria si cambierà in definitiva sconfitta ad opera di un misterioso personaggio, figlio (“stirpe”) di una “donna” altrettanto misteriosa, che sosterrà una accanita “inimicizia” contro il serpente. La scelta di questo brano intende mettere in evidenza il peccato dal quale Maria è stata preservata e suggerire l’idea di Maria come nuova Eva. Come Adamo ed Eva sono personaggi emblematici per esprimere l’umanità caduta nel peccato, così Gesù, nuovo Adamo, e sua madre, nuova Eva, diventano personaggi altrettanto emblematici che enunciano l’umanità rinnovata, che sarà tale proprio nella misura in cui porterà avanti la inimicizia contro Satana.

         

La lettura evangelica propone il racconto dell’Annunciazione. I Padri della Chiesa hanno visto in questo evento la contropartita di ciò che è successo nella caduta del paradiso terrestre: Eva non ascolta il precetto di Dio, Maria invece ascolta il messaggio dell’angelo inviato da Dio; Eva disubbidisce alla parola di Dio, Maria invece pronuncia il suo “si” ubbidiente al piano di Dio su di lei: “Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola”; Eva significa “madre di tutti i viventi”, Maria lo è in senso più profondo in quanto è madre dei redenti mediante la morte del Figlio suo, vincitore del male e della morte. Maria, generando il Cristo, ha posto nella terra il “seme” indistruttibile del bene, della giustizia e della speranza. Esso si radicherà e trasformerà l’umanità intera. E’ la stessa realtà che descrive il brano introduttivo alla lettera agli Efesini (seconda lettura) in cui l’Apostolo afferma che Dio, in Cristo “ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità”.

 

Maria è chiamata dall’angelo dell’Annunciazione “piena di grazia”, che è quasi come un nuovo nome per lei: descrive il suo stato e la sua missione. Dio ha “colmato di grazia” Maria. In Maria Immacolata contempliamo il primo, stupendo effetto della redenzione: l’umanità viene ricondotta all’integrità del progetto di Dio. L’Immacolata è quindi un segno di speranza per tutti noi.

 

L’eucaristia “guarisce in noi le ferite di quella colpa da cui, in modo singolare” Maria è stata preservata nella sua Immacolata Concezione (orazione dopo la comunione).

venerdì 3 dicembre 2021

DOMENICA II DI AVVENTO (C) – 5 Dicembre 2021

 



 

Bar 5,1-9; Sal 125; Fil 1,4-6.8-11; Lc 3,1-6

 

La prima domenica di Avvento ci invitava all’attesa vigilante. Oggi invece siamo invitati a “preparare la via del Signore”. Nel brano evangelico emerge la figura di Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti mandato da Dio. Giovanni, con la propria vita richiama la forza purificatrice del “deserto”; con la sua predicazione, al seguito di quella dei profeti e, in particolare, del profeta Baruc, di cui oggi leggiamo un brano nella prima lettura, annuncia il prossimo compiersi della salvezza nel Messia. Si tratta di un annuncio gioioso perché la salvezza è anzitutto opera meravigliosa compiuta da Dio: “Gerusalemme, sorgi e sta’ in alto: e contempla la gioia che a te viene dal tuo Dio” (antifona alla comunione – Bar 5,5; 4,36). La salvezza viene descritta come una grande trasformazione che si compie nell’uomo. Questa trasformazione è anzitutto opera della grazia di Dio. Ce lo ricorda il salmo responsoriale (Sal 125) con il ritornello “Grandi cose ha fatto il Signore per noi”, parole riprese quasi alla lettera da Maria nel suo Magnificat (Lc 1,49). Ma la grazia rimane inattiva se non interviene e coopera con essa la nostra libertà: “Dio che ha fatto te senza di te, non salverà te senza di te” (sant’Agostino). Perciò il messaggio di questa seconda domenica di Avvento può essere riassunto come un invito alla conversione. San Giovanni promette: “Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!”, ma prima ammonisce i suoi ascoltatori con queste parole: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!”. La salvezza è dono, grazia di Dio, ma anche azione, cooperazione dell’uomo. Non basta attendere passivamente l’irrompere dell’azione di Dio. La salvezza presuppone un cambiamento nell’uomo, cioè l’abbandono del male e del peccato e l’opzione decisa per il bene. E’ talvolta un cammino duro e difficile, che esige il coraggio di spianare le montagne e  di colmare i burroni.

 

Attraverso una fitta collezione di simboli e di imperativi gioiosi il cap. 5 del libro di Baruc  vuole lanciare un messaggio di fiducia e di speranza. Nel brano della prima lettura, preso appunto dal cap. 5 di Baruc, il profeta legge il fatto storico del ritorno degli Ebrei esiliati, nell’anno 538 a. C., e della conseguente restaurazione di Gerusalemme come pellegrinaggio di ritorno gioioso dell’intera umanità alla condizione primordiale e come restaurazione messianica. La conversione è cambiare strada, ritornare a casa, ritrovare il senso del proprio camminare. L’immagine della strada può essere assunta come simbolo del tempo di Avvento. Una strada che deve essere appianata per condurre anche noi, come un giorno gli esuli da Babilonia, a ricostruire la città di Dio, a ritrovare la propria libertà e dignità. La conversione quindi non è solo rinuncia. San Paolo nella seconda lettura ci ricorda che la vera conversione non è soltanto allontanamento dal peccato; implica anche la crescita nell’amore fino al suo pieno compimento. In altre parole, convertirsi significa ritrovare la freschezza e l’originalità della propria fede, del proprio rapporto con Dio e con gli altri. Si tratta di verificare quale posto ha veramente Dio nella nostra esperienza quotidiana, quale influenza ha il vangelo nelle nostre concrete scelte di vita.

 

Se la conversione è un ritrovare Dio nella nostra vita, la partecipazione all’eucaristia è dono di conversione perché in essa Dio si rende presente in mezzo a noi. Conseguentemente, l’eucaristia ci insegna a leggere la storia con gli occhi di Dio, a “valutare con sapienza i beni della terra e a tenere fisso lo sguardo su quelli del cielo” (orazione dopo la comunione).