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domenica 27 marzo 2022

Salmo 10 (11) Fiducia nel Signore nella prova

 



1 Al maestro del coro. Di Davide.
Nel Signore mi sono rifugiato, come potete dirmi:
“Fuggi come un passero verso il monte”?
2 Ecco, i malvagi tendono l’arco,
aggiustano la freccia sulla corda
per colpire nell’ombra i retti di cuore.
3 Quando sono scosse le fondamenta,
il giusto che cosa può fare?
4 Ma il Signore sta nel suo tempio santo,
il Signore ha il trono nei cieli.
I suoi occhi osservano attenti,
le sue pupille scrutano l’uomo.
5 Il Signore scruta giusti e malvagi,
egli odia chi ama la violenza.
6 Brace, fuoco e zolfo farà piovere sui malvagi,
vento bruciante toccherà loro in sorte;
7 Giusto è il Signore, ama le cose giuste;
gli uomini retti contempleranno il suo volto.

La Liturgia delle Ore propone questo salmo nei Vespri del Lunedì della Prima settimana del Salterio. Come sottotitolo, il libro liturgico cita Mt 5,6: “Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati”. I protagonisti principali del salmo sono il salmista, perseguitato dai malvagi, e il Signore, in cui il salmista si è rifugiato. Ecco, quindi, che il salmo presenta due quadri assai diversi: nel primo vi è una situazione in cui imperversa il male e si agitano gli empi che tendono insidie contro gli onesti (vv. 1-3); nel secondo vi è il Signore che, dall’inaccessibile trono del cielo, scruta ogni cosa, pronto ad intervenire per far giustizia (vv. 4-7). 

Dato che il salmo è attribuito a Davide, è possibile che coloro che premono per la sua fuga (v. 1) siano i suoi consiglieri politici e militari, e si potrebbe pensare a numerose occasioni nella vita di Davide, in cui egli è stato minacciato da Saul e poi da suo figlio Assalonne. Possiamo applicare il testo ad ogni uomo giusto, minacciato da uomini violenti, che non accoglie le sollecitazioni a fuggire dal suo ambiente come se Dio non potesse soccorrerlo.

La domanda centrale che l’orante, uomo “retto di cuore” (cf. v. 2), si pone è: “Quando sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare?” (v.3), evasione o impegno? Le fondamenta sono probabilmente quelle della società che salvaguardano l’ordine sociale e contrastano il male. La riposta alla domanda non è la fuga consigliata dagli amici: “Fuggi come un passero verso il monte” (v. 1). I monti erano il luogo di rifugio tradizionale. I malvagi non scuotono la serenità dell’orante, il quale sa di essere al sicuro non in una fortezza nel monte, bensì nel tempio del Signore. Si tratta di una esperienza esistenziale che va al di là dell’ambito liturgico (l’usanza di trovare asilo nel tempio). Quando le fondamenta sono scosse, bisogna continuare ad avere fame e sete di giustizia, a rifugiarsi nel Signore e nella condotta di vita conforme alla sua giustizia, in attesa del suo giudizio.

Il salmista conclude la sua preghiera con parole che, ricapitolando l’intero salmo, esprimono una volta di più la sua fiducia: “Giusto è il Signore, ama le cose giuste; gli uomini retti contempleranno il suo volto” (v.7). Questa espressione ricorre spesso nella Bibbia, in particolare nei salmi. Nel Sal 16 (17), un uomo retto, ingiustamente perseguitato, termina la sua preghiera con questa certezza: “Io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine” (v. 15). Contemplare il volto di Dio significa stare alla sua presenza come figli davanti al loro Padre. Dio non possiamo vederlo su questa terra, ma possiamo sentire la sua presenza “nel sussurro di una brezza leggera” come Elia la percepì sul monte Oreb (1 Re 19,12).

 

Preghiera. O Signore, Padre misericordioso, che sei giusto e ami la giustizia, volgi benigno lo sguardo su di noi redenti da Cristo: sostienici nelle prove della vita e difendici dagli empi, affinché possiamo contemplare in cielo la luce del tuo volto.

Bibliografia. Spirito Rinaudo, I salmi preghiera di Cristo e della Chiesa, Elle Di Ci, Torino-Leumann 1973; Vincenzo Scippa, Salmi, volume 1. Introduzione e commento, Messaggero, Padova 2002; Ludwig Monti, I salmi: preghiera e vita, Qiqajon, Comunità di Bose 2018; Temper Longman III, I salmi. Introduzione e commento, Edizioni GBU, Chieti 2018; Vincenzo Bonato, I Salmi. Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l’intelligenza, Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia 2021

venerdì 25 marzo 2022

DOMENICA IV DI QUARESIMA (C) – 27 marzo 2022

 


 


 

Gs 5,9a.10-12; Sal 33; 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32

 

L’antifona d’ingresso invita alla gioia: “Rallegrati (Laetare), Gerusalemme… Esultate e gioite voi che eravate nella tristezza…”. Il salmo responsoriale riprende questa tematica in chiave di ringraziamento: “Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode…” Perciò questa domenica si chiama anche “Domenica Laetare”. Il tema ritorna nel vangelo al termine della parabola del figliol prodigo: “Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita…”

         

Le letture bibliche odierne, nel cuore del cammino quaresimale, sono una solenne proclamazione della misericordia di Dio e un pressante invito a riconciliarci con Lui. In questa domenica, come in quella precedente, ritroviamo il tema della conversione, vista però sotto l’aspetto della riconciliazione come dono dell’amore di Dio. La prima lettura parla della sollecitudine di Dio per il suo popolo, al quale, dopo la traversata del deserto, offre in dono una terra e una patria. Il brano del vangelo riporta la bellissima parabola del figliol prodigo, che viene accolto dal padre misericordioso nella casa paterna. Nella seconda lettura ascoltiamo san Paolo che parla di un Dio misericordioso che ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe; l’amore fedele di Dio ci viene comunicato tramite la fedeltà solidale di Gesù crocifisso. All’azione di Dio che salva, noi siamo invitati a corrispondere: come Israele che celebra nella gioia della Pasqua il dono della terra promessa; come il figliol prodigo che riconosce il suo peccato e si getta nelle braccia del padre.

 

La liturgia di questa domenica quaresimale è un invito alla riconciliazione con Dio e con i fratelli. Notiamo però che centro della bellissima parabola del figliol prodigo non è tanto la riconciliazione di quest’ultimo con suo padre e la sua decisione di tornare in famiglia, ma l’amore del padre che ridona al figlio minore la condizione precedente prima ancora di ascoltare il suo pentimento. Qualcuno ha chiamato questo racconto la parabola del Padre misericordioso o prodigo d’amore. È nota l’opera di Rembrandt, che ha dipinto in modo meraviglioso l’episodio della parabola: nelle mani del padre, notiamo la sinistra affusolata, femminile, materna; la destra invece forte, maschile, paterna. Mani che esprimono amore, appoggio, sollecitudine, fermezza, sicurezza.

 

La conversione – riconciliazione è anzitutto una grazia, un dono dell’immenso amore di Dio. Egli è sempre pronto ad accoglierci. Anzi Dio ha fatto già la sua parte, ci ha riconciliati a sé tramite Gesù Cristo. Tocca a noi fare la nostra parte. La misericordia di Dio ci viene incontro. Tocca a noi accoglierla nella concretezza della vita. Dio non chiude la porta in faccia a nessuno. Tocca a noi varcare la soglia di questa porta sempre aperta. Come nella parabola del figliol prodigo, il primo atto della riconciliazione per quanto a noi concerne è la constatazione della propria miseria, del proprio peccato. È un discorso che va talvolta contro corrente in un ambiente culturale in cui si è perso di molto il senso del peccato. La conversione, poi, non può esaurisci nell’intimo del cuore, è chiamata ad esprimersi nel segno sacramentale. Infatti, l’esperienza cristiana della conversione è suggellata dal sacramento del perdono e ha come effetto la riconciliazione con Dio e con i fratelli. Riconciliati con Dio, non siamo più divisi e disgregati in noi stessi, ma ritroviamo la nostra unità interiore e la nostra vera libertà, che ci rende capaci di un servizio responsabile sia a Dio che ai fratelli. Finalmente, riconciliati con Dio, possiamo gustare la gioia nella cena pasquale dell’Agnello.

         

lunedì 21 marzo 2022

ANCORA “FORMA STRAORDINARIA DEL RITO ROMANO”?

 



 

La Costituzione Apostolica Praedicate evangelium sulla Curia Romana e il suo servizio alla Chiesa e al Mondo (19.03.2022), nella Sezione V sui Dicasteri, quando parla del Dicastero per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, all’articolo 93 afferma:

“Il Dicastero si occupa della regolamentazione e della disciplina della sacra liturgia per quanto riguarda la forma straordinaria del Rito romano”.

Noto che il Motu Proprio Traditionis custodes (16.07.2021) di Papa Francesco non adopera più l’espressione “forma straordinaria del Rito romano”, ma parla di “forme antecedenti alla riforma voluta dal Concilio Vaticano II”. Afferma inoltre che i libri liturgici promulgati da Paolo VI e Giovanni Paolo II “sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano”.

I redattori della Costituzione Apostolica PE hanno risuscitato un linguaggio non più adeguato, che rischia di perpetuare una situazione che Traditionis custodes ha esplicitamente modificato.

domenica 20 marzo 2022

LE DIMORE DI DIO

 



Franco Cardini, Le dimore di Dio. Dove abita l’eterno (Biblioteca storica), Il Mulino, Bologna 2021. 342 pp. (€ 28,00).

Dov’è Dio? Dalla più remota antichità e dai recessi più profondi dell’inconscio, il suo silenzio ci ha parlato in infiniti modi. Lo abbiamo colto nei misteri della natura e nelle meraviglie dell’arte tutte le volte che, al di là dei limiti del visibile e del comprensibile, abbiamo visto una luce e sentito vibrare il suono della sua potenza. Prendendo le mosse dalla ricerca di un divino immaginato e sperato, questo libro approda alle immagini concrete di come Dio si sia proposto, nelle opere dell’uomo, in quelle forme architettoniche spesso perdute, malintese e dimenticate del santuario, del tempio, della sinagoga, della cattedrale, della moschea. Un percorso drammatico e intenso verso i luoghi dell’eterno a misura d’uomo.

I. L’introvabile onnipresente.

II. Cammini di sottoterra e sedi celesti.

III. Cieli, troni, montagne.

IV. E cammina, cammina…

V. Il Tempio.

VI. La Città eterna e la Città santa.

VII. Terra sancta.

VIII. La costruzione della Cristianità e dell’Islam.

IX. Gerusalemme contesa.

X. Le dimore di Dio e la gloria d’Europa.

venerdì 18 marzo 2022

DOMENICA III DI QUARESIMA (C) – 20 marzo 2022

 




 

 

Es 3,1-8a.13-15; Sal 102; 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9

 

Nelle domeniche III, IV e V di Quaresima, il ciclo C di letture bibliche di quest’anno si configura come una catechesi sulla riconciliazione, tema che trova il suo vertice nella celebrazione della Pasqua, segno supremo della nostra riconciliazione con il Padre. L’odierna liturgia propone come salmo responsoriale alcuni versetti della prima parte del Sal 102, un poema che canta l’amore e il perdono di Dio, un perdono che supera le rigide leggi della giustizia. Il salmista parla con tono commosso della pazienza di Dio e della sua bontà e magnanimità nel perdonare i peccati.

 

Nel cuore della Quaresima risuona l’invito pressante alla conversione. Possiamo illustrarlo partendo dalla prima lettura: Dio ha compassione delle sofferenze del popolo d’Israele che vive sotto il giogo della schiavitù in Egitto. Ecco, quindi, che il Signore sceglie Mosè e gli comunica che intende liberare il suo popolo dal potere dell’Egitto per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso. Sappiamo il resto della storia. Israele, guidato da Mosè, intraprende il suo grande esodo attraverso il deserto verso la terra promessa. Nella seconda lettura, san Paolo ci ricorda che la maggior parte di coloro che hanno lasciato l’Egitto non hanno raggiunto il traguardo della terra promessa, perché si sono ribellati al loro Dio, ed Egli li ha puniti. Infatti, liberati dalla schiavitù e divenuti popolo eletto di Dio, gli israeliti hanno tradito l’amicizia e la fiducia del Signore e sono tornati ad essere schiavi, questa volta degli idoli e della loro superbia. E conclude Paolo: “tutte queste cose accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento”. Infatti, anche noi continuiamo, nonostante l’amore con cui Dio ci ha salvati e seguita a circondarci, a fare l’esperienza del peccato.

 

Nel brano evangelico vediamo come Gesù interpreta due fatti di cronaca (alcuni morti in una rivolta contro i Romani e l’improvviso crollo della torre di Siloe che seppellisce diciotto persone). Dinanzi a simili fatti la tentazione di sempre è quella di applicare uno schema di interpretazione abbastanza rudimentale: un castigo di Dio e, naturalmente un castigo meritato per qualche colpa più o meno grave. Gesù rifiuta questa interpretazione, dice infatti di non credere che quei morti fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme. Tuttavia, Gesù non può fare a meno di mettere in evidenza ciò che conduce a disastri ben peggiori di quelli evocati: l’indurimento del cuore, il rifiuto di accogliere la sua Parola, l’ostinazione con cui restiamo talvolta attaccati agli sbagli di sempre hanno come esito una situazione ben peggiore di quella toccata alle vittime della repressione o di una sciagura imprevedibile.

 

In ogni caso, la pazienza di Dio, la sua misericordia sono fuori dubbio, come spiega la parabola con cui si conclude il brano. La parabola parla del fico che non porta frutto e che si vorrebbe tagliare, ma che invece viene lasciato con la speranza di una maturazione ulteriore. Con questa parabola, Gesù non si propone di indicare i limiti della misericordia di Dio, ma di affermare con assoluta chiarezza che egli, nella sua bontà, accorda a tutti il tempo per accogliere il suo invito alla conversione; è un messaggio di consolazione e un invito a non ritardare il tempo per portare frutti degni di conversione.

 

La conversione è uno dei punti nodali della predicazione di Gesù, e quindi un elemento costitutivo e costante dell’esistenza cristiana: anzi, si può ben dire che l’esistenza cristiana trae origine dalla conversione e si sviluppa attraverso un continuo cammino di conversione, che la Quaresima esprime in modo simbolico come tempo di preparazione alla Pasqua. Ricordiamo però che la conversione diventa effettiva solo se la nostra vita cambia, se la parola di Dio, ascoltata e accolta, diventa in noi comportamento di vita.

 

domenica 13 marzo 2022

L’OFFERTORIO o PREPARAZIONE DEI DONI

 



La riforma liturgica a seguito del Concilio Vaticano II sembra essere stata guidata da un interesse di tipo teologico, ossia togliere a questo momento quel carattere “offertoriale” che ne faceva quasi un’offerta anticipata e a sé stante del sacrificio eucaristico. Tuttavia, la riforma rituale che ne è scaturita non sembra essere riuscita a dare un valore preciso a tale momento rituale. Talora risulta troppo impoverito, come un momento di passaggio da affrettare; altre volte viene enfatizzato oltre misura, ma con una processione di cosiddetti “simboli” che spesso pare più finalizzata ad una auto-presentazione degli offerenti ed eventualmente delle loro intenzioni. Lo stesso nome che si è voluto dare a questa sequenza rituale risulta troppo superficiale: “preparazione dei doni”, come se si trattasse di un momento da svolgersi “dietro le quinte”, semplicemente funzionale a ciò che segue, e non avesse una dignità che gli deriva di essere anch’esso una ripresa del gesto di Gesù: “prese il pane… prese il calice”. Stupisce, invece, la ricchezza teologica conservata nelle orazioni super oblata, che sono le più esplicite e profonde sul tema del sacrificio. Probabilmente anche la stessa riflessione teologica dev’essere meglio calibrata, immaginando una tensione dinamica che unisce tutta la celebrazione, senza pensare a due offerte sacrificali distinte ma all’unica offerta del sacrificio di Cristo che innesca la sua dinamica già nell’offerta del pane e del vino, come anche in tutte le altre parti della celebrazione. Credo in ogni caso che, per quanto opportuno, non sia sufficiente pensare ad un nuovo nome per questa sequenza rituale. È importante soprattutto richiamare tutti a vivere in questo momento una reale donazione, un distacco da qualcosa che sia realmente destinato ad altri, si tratti di doni per l’eucaristia o di altri doni (OGMR 73 parla della possibilità dei fedeli di “fare offerte in denaro o presentare altri doni per i poveri o per la Chiesa”). Questo significherebbe innescare in modo veritiero e coinvolgente la dinamica sacrificale che ci unisce al dono di Cristo.

Allargando quest’ultima considerazione, si vede l’opportunità di evidenziare complessivamente la connessione tra tutte le parti della messa. In particolare, quasi con un intento mistagogico, si può mettere in luce la stretta continuità che attraversa la liturgia eucaristica e che deve essere percepita nel percorso stesso che è compiuto dal pane e dal vino. Ciò può essere mostrato nella descrizione di una celebrazione eucaristica in cui si mettono in atto adeguatamente le possibilità rituale che essa prevede. Si può partire dalla processione in cui vengono portati il pane e il vino all’altare. Essa dice, anche senza “parole”, il coinvolgimento dell’assemblea e la provenienza del cibo dalla nostra vita: è “frutto della terra/della vite e del lavoro dell’uomo”. Prendere in mano questi alimenti è come accogliere la nostra vita e il nostro mondo, accoglierli vedendo in essi il segno della benedizione di Dio (“dalla tua bontà abbiamo ricevuto…”). Nello stesso tempo, non assumiamo subito tale cibo, anzi ci distacchiamo ulteriormente da esso, portandolo e deponendolo all’altare: solo in questo modo possiamo riceverlo come “altro”. All’altare, infatti, si compie la grande preghiera eucaristica, la quale, nel rendere grazie al Padre e con l’invocazione dell’azione dello Spirito, trasforma il pane e il vino nel sacramento del corpo e sangue di Cristo e lo offre al Padre come unico “sacrificio a te gradito, per la salvezza del mondo” (Preghiera eucaristica IV). Questo sacrificio, come è stato detto più sopra, già ci include e ci porta con sé, proprio nei segni di un pane e vino che sono dati a noi da Gesù perché ne mangiamo e beviamo tutti. Per questo l’offerta del sacrificio in realtà si prolunga nei riti di comunione, ossia nella frazione del pane e nella condivisione del cibo eucaristico, che portano a compimento sacramentale la finalità stessa del sacrificio pasquale […]

Quando nella recezione sacramentale il ministro dice: “Il Corpo di Cristo / Il Sangue di Cristo”) e il fedele risponde “Amen”, si condensa in questo piccolo dialogo ciò che è avvenuto nella preghiera eucaristica: grazie ad essa, infatti, possiamo affermare e riconoscere in questo pane e vino il corpo e il sangue di Cristo, dati per noi. Ma a questo punto si compie anche il percorso celebrativo del pane e del vino. Alla processione di offerta dei doni dalla navata all’altare, corrisponde ora, in direzione inversa, la processione dei doni “eucaristizzati” dall’altare alla navata. Così si compie anche la nostra inclusione nel sacrificio di Cristo: essa consiste, all’interno della celebrazione, nell’essere associati a lui, nel divenire una sola cosa con Lui tramite l’intera gestualità della cena.

Fonte.- Luigi Girardi, “Il sacrificio eucaristico in prospettiva teologica”, in Fabio Trudu (ed.), Teologia dell’eucaristia. Nuove prospettive a partire dalla forma rituale (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae” “Subsidia” 193), CLV Edizioni Liturgiche, Roma 2020, 107-109.

 

venerdì 11 marzo 2022

DOMENICA II DI QUARESIMA (C) – 13 Marzo 2022

 





 

 

Gn 15,5-12.17-18; Sal 26; Fil 3,17-4,1; Lc 9,28b-36

 

Vale la pena fidarsi di Dio perché egli è fedele alle sue promesse. Questo messaggio riprende e sviluppa uno degli aspetti del messaggio della domenica scorsa invitandoci ad una fede che si apre alla speranza. Il Sal 26, da cui è tratto il salmo responsoriale, si esprime in due momenti di un unico atteggiamento di profonda e sconfinata fiducia in Dio. Nel primo momento tutto è bello e semplice per chi confida nel Signore. Il secondo momento, che è quello che maggiormente viene ripreso dal salmo responsoriale, è il momento in cui l’orante cerca il volto del Signore nel buio della prova; la preghiera diventa lamento senza smarrire però il suo slancio di speranza e fiducia illimitata in Dio. La certezza di “contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”, ci deve dare la forza della speranza anche nei momenti della sofferenza e della prova.

 

Un nomade dell’antico Oriente non poteva avere desiderio maggiore di una dimora fissa e di una numerosa discendenza. Sono le grandi aspirazioni di Abramo, di cui parla la prima lettura. Dio gli promette un figlio e una sconfinata discendenza, ma egli è anziano e sua moglie Sara è sterile; Dio gli promette una terra, ma la terra su cui Abramo cammina è occupata dai cananei. La fede di Abramo non ha un appiglio umano a cui potersi attaccare. Ciò nonostante, “egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia”. San Paolo ha chiamato Abramo “padre di tutti noi” (Rm 4,16), cioè capostipite di tutti noi che crediamo e che per mezzo della fede veniamo giustificati da Dio.

         

Il vangelo riporta il brano della trasfigurazione. Gesù offre ai tre discepoli prediletti una visione anticipata della sua gloria di risorto, che culmina nella testimonianza del Padre che rivela l’identità profonda di Gesù: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo”. È da sottolineare l’invito all’ascolto, ripreso dalla colletta del giorno. Come ricorda il prefazio, poco prima dell’evento della trasfigurazione, Gesù fa il primo annuncio della sua passione e morte e, in seguito, indica le condizioni per seguirlo: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23). In questo contesto, l’invito ad ascoltare Gesù acquista un senso preciso e particolare: ascoltate Gesù perché è mio Figlio; ascoltatelo nonostante le parole che dice siano paradossali. Fidatevi anche se vi propone un cammino di sofferenza; seguitelo anche se dovete passare per sentieri stretti e disagevoli. La trasfigurazione è la grande rivelazione di Gesù, la scoperta piena della sua realtà a cui si è invitati attraverso l’ingresso nell’oscurità della fede che ci conduce attraverso la via della croce, sorretti dalla speranza, all’esperienza della risurrezione.

 

La seconda lettura è un’esortazione alla speranza, non in una terra o in una discendenza, come per Abramo, ma in Dio stesso che si pone come terra promessa, come futuro capace di appagare pienamente le nostre attese: “La nostra cittadinanza è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso”. La contemplazione anticipata della gloria di Gesù non ci risparmia lo scandalo della croce, ma lo sostiene nella speranza.

 

La pienezza perpetua e stabile della nostra trasfigurazione in Cristo avverrà nella vita eterna, ma si prepara e anticipa qui e ora. La celebrazione eucaristica è prefigurazione e anticipazione del banchetto eterno nel quale contempleremo il volto glorioso del Cristo, quel volto trasfigurato di cui i discepoli Pietro, Giovanni e Giacomo ebbero sul monte Tabor un saggio transitorio. 

domenica 6 marzo 2022

“OPUS OPERANTIS” e “OPUS OPERATUM”

 



Se la vita del sacerdote si presenta come un officium, se l’officium istituisce una soglia di indifferenza fra la vita e la norma e fra l’essere e la prassi, nello stesso tempo la Chiesa afferma con decisione quella netta distinzione fra vita e liturgia, fra individuo e funzione che culminerà nella dottrina dell’opus operatum e dell’effettualità sacramentale dell’opus Dei. Non soltanto la prassi sacramentale del sacerdote è valida ed efficace ex opere operato indipendentemente dall’indegnità della sua vita, ma, com’è implicito nella dottrina del charater endelebile, il sacerdote indegno resta sacerdote malgrado la sua indegnità.

A una vita che riceve il suo senso e il suo rango dall’officio, il monachesimo oppone l’idea di un officium che ha senso solo se diventa vita. Alla liturgizzazione della vita, corrisponde qui un’integrale vivificazione della liturgia. Il monaco è, in questo senso, un essere che è definito soltanto dalla sua forma di vita, cosicché al limite, l’idea di un monaco indegno, sembra implicare una contraddizione in termini.

Se la condizione monastica si definisce pertanto attraverso la sua differenza specifica rispetto all’ufficio sacerdotale (cioè a una prassi la cui efficacia è indipendente della forma di vita), è chiaro allora che è proprio nell’articolarsi della dialettica fra queste due figure della relazione vita-officium che dovranno decidersi le sorti storiche del monachesimo. Allo sfumare della differenza corrisponderà la progressiva clericalizzazione dei monaci e la loro crescente integrazione nella Chiesa, mentre al suo accentuarsi corrisponderanno tensioni e conflitti tra gli ordini e la curia.

L’esplosione dei movimenti religiosi fra il XII e il XIII secolo è il momento in cui queste tensioni raggiungono il loro punto critico. E’ significativo che sia proprio il principio della separazione dell’opus operans e opus operatum che i movimenti intendono innanzitutto mettere in discussione. Così ciò che i valdesi obiettano alla Chiesa non è soltanto l’inefficacia dei sacramenti amministrati da un sacerdote indegno, ma ancora più radicalmente, che il principio secondo cui il diritto di legare e di sciogliere, di consacrare e benedire e di amministrare i sacramenti non deriva dall’ordo e dall’officium, ma dal merito, e cioè, una questione non di diritto e di successione gerarchica, ma di imitazione della vita apostolica.

[…] Grundmann ricorda che è proprio per far fronte a queste eresie che Innocenzo III chiama in causa il principio della distinzione fra opus operans e opus operatum (cfr. De sacrificii altaris mysterio, PL 217,844).

Fonte: Giorgio Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita, Neri Pozza Editore, Vicenza 2011, 143-146.

venerdì 4 marzo 2022

DOMENICA I DI QUARESIMA (C) – 6 Marzo 2022

 





 

Dt 26,4-10; Sal 90; Rm 10,8-13; Lc 4,1-13

 

Il salmo responsoriale, ripreso poi dall’antifona alla comunione, parla della protezione divina accordata a colui che ha fiducia in Dio. Nel vangelo con la citazione di questo salmo il diavolo ricorda a Gesù che, in quanto Figlio di Dio, ha il diritto di essere salvato dalla morte e da ogni pericolo; ha questo diritto perché Dio stesso ha promesso il suo aiuto a chi confida in lui. Gesù però risponde: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”. Non si può usare la parola di Dio per eludere la sua volontà. Bisogna piuttosto fidarsi di lui nell’obbedienza incondizionata al suo volere.

 

Le letture odierne sono incentrate sulla fede, che è anche un atteggiamento interiore di fiducia nelle promesse divine. Il brano del Deuteronomio riporta una lunga preghiera che, per ordine di Mosè, l’israelita doveva pronunciare nel momento in cui egli offriva le primizie dei frutti del suolo per ringraziare il Signore di avergli donato la terra. Questa preghiera è la più antica professione di fede in Dio del popolo d’Israele, in un Dio fedele alle sue promesse. Infatti, il dono della terra è visto come l’ultimo di una serie di doni, di interventi salvifici che Dio ha compiuto lungo la storia del suo popolo, da Abramo in poi. Con il gesto dell’offerta delle primizie e la professione di fede che l’accompagna, Israele riconosce che tutto quanto è e possiede è dono di Dio. Anche il brano di san Paolo è una professione di fede, in questo caso di fede cristiana in Gesù quale “Signore”, fonte di salvezza per tutti: chi riconosce e proclama che Gesù Cristo, il crocifisso, è il Signore risorto dai morti, approda alla salvezza che è il dono di Dio promesso ai credenti.

 

L’evento delle tentazioni di Gesù, riportato dal vangelo, episodio che tradizionalmente apre la Quaresima, può anch’esso essere considerato una vera professione di fede. La fede è messa alla prova dalla tentazione, la quale non risparmia neppure il Cristo. Ma vediamo come egli affronta questa prova. Tutte le risposte che Gesù dà al tentatore sono ispirate alle parole della Scrittura. Satana cerca in modo subdolo, usando anche lui le parole della Scrittura, di indurre Gesù a fare delle scelte personali e comode contrarie al disegno di Dio su di lui. Ma Gesù, rispettando la libertà sovrana del disegno salvifico, al cui compimento è votato, pronuncia il suo “sì” definitivo al Padre e si abbandona totalmente al suo destino. In questo modo, “vincendo le insidie dell’antico tentatore” (prefazio), Gesù diventa per noi l’emblema luminoso della fede in Dio, cioè dell’adesione piena e totale a Dio e al suo piano tracciato nel cosmo e nella storia. “La vittoria di Gesù sul tentatore nel deserto anticipa la vittoria della passione, suprema obbedienza del suo amore filiale per il Padre” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 539). Come per Cristo, anche la nostra strada di fedeltà alla parola di Dio è cosparsa di ostacoli e tentazioni. Dio però ci assicura il suo aiuto e la sua forza per superare ogni prova. Abbiamo la certezza che Cristo ha vinto le forze del male e la sua vittoria è anche di tutti coloro che si uniscono a lui per mezzo della fede e dei sacramenti.

 

La Quaresima si apre con un forte appello alla riscoperta della purezza della fede liberata da tutte le ignoranze, i surrogati e le escrescenze abitudinarie e magiche. Bisogna prendere chiara coscienza di tutto ciò che nella nostra vita contraddice la scelta fondamentale fatta nel battesimo abbracciando i valori del vangelo, scelta che deve orientare l’intero corso della nostra esistenza. Di fronte alla tentazione costante, che per la nostra naturale fragilità avvertiamo, di emanciparci da Dio e di prostituirci agli “idoli”, occorre riaffermare la fedeltà alla parola di Dio e la fede nella potenza salvatrice del Signore.