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venerdì 29 settembre 2017

DOMENICA XXVI DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 1 Ottobre 2017

 

Ez 18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32

Il salmo responsoriale di questa domenica riprende alcuni versetti della prima parte del Sal 24. Si tratta di una meditazione sulla bontà di Dio verso i peccatori, i poveri e coloro che lo temono. In questi pensieri il salmista ritrova incoraggiamento e maggior fervore di speranza. La liturgia adopera con frequenza questo salmo soprattutto nei tempi penitenziali. Con questa preghiera la Chiesa dei peccatori, ma anche quella dei poveri e dei retti di cuore, grida aiuto a Dio, e insieme si affida con fiducia assoluta al suo Signore. Al tempo stesso che chiediamo perdono dei nostri peccati al Signore, preghiamo di essere illuminati da lui sulla via da seguire: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri”.

Nella prima lettura, vediamo che Dio ammonisce i figli d’Israele, tramite il profeta Ezechiele, e li richiama al senso della responsabilità personale di fronte alle scelte della vita: l’uomo è responsabile delle sue azioni, e queste sono strettamente connesse con la giustizia. Perciò, se vogliamo una vita autentica, non possiamo sottrarci a far propri i valori che la determinano; dobbiamo semplicemente accettarli e viverli coerentemente. Anche dal brano evangelico emerge un forte richiamo alla coerenza della vita. Servendosi, come al solito, di una parabola, Gesù parla di due figli, ai quali il padre dà lo stesso ordine: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Il primo risponde con religioso rispetto e docilità, ma non va a lavorare nella vigna come aveva promesso; il secondo figlio, invece, risponde con arroganza e insolenza in senso negativo, ma alla fine si ravvede e va in campagna a lavorare nella vigna. La morale della storia è così chiara che Gesù vuole che siano i suoi stessi ascoltatori a ricavarla: “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”, domanda Gesù. Non c’è dubbio dicono tutti: l’ultimo. La parabola sottolinea il contrasto che esiste tra il dire e il fare, tra la parola e l’azione. Non basta la semplice conoscenza teorica del vangelo o l’adesione verbale ad esso, ma occorre una conversione totale in modo che l’insegnamento di Gesù sia tradotto in comportamento di vita. Il sì della bocca è insufficiente, quello decisivo è il sì dei fatti. Possiamo ben dire che non esiste affermazione di fede che non possa e non debba essere verificata nella prassi della vita quotidiana. Nel regno di Dio entra solo chi fa la volontà del Padre: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21).

Nella seconda lettura, san Paolo ci dà il punto di riferimento della nostra obbedienza al Padre. Siamo infatti invitati ad avere in noi “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione divina […] svuotò se stesso assumendo una condizione di servo […] umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. Il brano paolino sintetizza le varie tappe del mistero di Cristo: la sua preesistenza divina, l’abbassamento alla condizione di servo nel mistero dell’incarnazione e una ulteriore umiliazione fino alla morte di croce, alla quale fa seguito l’esaltazione. A noi interessa qui sottolineare che queste tappe sono percorse da Cristo sotto il segno dell’obbedienza al Padre.         


Nella celebrazione eucaristica comunichiamo sacramentalmente proprio con il mistero della morte di Cristo e quindi della sua umiliazione e obbedienza. Notiamo però che la partecipazione sacramentale esige una coerenza esistenziale che va al di là del momento strettamente rituale.

domenica 24 settembre 2017

“IN SPIRITU HUMILITATIS…”



In spiritu humilitatis et in animo contrito suscipiamur a te, Domine; et sic fiat sacrificium nostrum in conspectu tuo hodie, ut placeat tibi, Domine Deus.

“Con i sentimenti di uno spirito umiliato, e d’un cuore contrito, possiamo noi, o Signore, esserti accetti; e sia tale oggi il nostro Sacrificio agli occhi tuoi da meritare, o Signore Iddio, le tue compiacenze” (Mario Righetti, Storia liturgica. III, La Messa, Àncora, Milano, edizione anastatica 2005,  p. 334).

“Umili e pentiti accoglici, o Signore: ti sia gradito il nostro sacrificio che oggi si compie dinanzi a te” (Messale Romano in italiano).

Questa preghiera, fra le più antiche del gruppo di preghiere dell’offertorio del Messale di Pio V e presente anche nel Messale di Paolo VI,  la si incontra già al IX secolo. Appare per la prima volta nel sacramentario di Amiens, nella parte offertoriale. Nella liturgia romana la troviamo nell’Ordo della Curia Romana del secolo XIII e in seguito nel Messale di Pio V.

Il testo della preghiera proviene da Dn 3,39-40: “Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori, come migliaia di grassi agnelli. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito…”. Antioco IV Epifane entrato a Gerusalemme ne saccheggiò il tempio e fece costruire un presidio militare (l’Aera) ove lasciò una guarnigione. Inoltre ordinò la costruzione di un altare dedicato a Zeus Olimpo al posto dell’altare degli olocausti, nel cuore del tempio (15 dicembre 167 a.C.); è ciò che Dn 9,27 definisce “l’abominio devastante”. Furono prese inoltre precise misure repressive contro il culto ebraico, proibendo la circoncisione e la celebrazione delle feste, sotto pena di morte (cf. 1 Mac 1,41-64). Quindi nessun rito legittimo poteva essere compiuto come offerta al Dio di Israele (cf. Dn 3,38). Il credente offriva allora al suo Dio la propria vita, chiedendo che fosse accolta come un sacrificio di olocausto. Questa preghiera liturgica è un richiamo al Sal 51,18-19 e troverà sviluppi nuovi  nel Nuovo Testamento: “Vi esorto fratelli, per la misericordia di Dio, offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1; cf. Fil 2,17).


Dopo l’offerta dei doni, la preghiera In spiritu humilitatis esprime il senso ultimo di ogni oblazione esteriore: il dono del cuore “umile e pentito” accompagnato dalla disposizione intima al sacrificio personale. La formula si esprime al plurale, e quindi il sacerdote celebrante la pronunzia a nome suo e del resto dell’assemblea. 

sabato 23 settembre 2017

DOMENICA XXV DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 24 Settembre 2017



Is 55, 6-9; Sal 144 (145); Fil 1,20c-24.27°; Mt 20,1-16

I motivi presenti nel Sal 144 sono quelli comuni ai salmi di lode. In esso si fondono lode, ringraziamento e fiducia nel Signore amoroso e tenero nei confronti delle sue creature. La lode diventa allora un’espressione di meraviglia, movimento interiore di riconoscenza e di ringraziamento. Il salmista si rivolge ad un Dio Signore che “è vicino a chiunque lo invoca, a quanti lo invocano con sincerità”. Dio Padre si è reso vicino a noi soprattutto nel mistero dell’Incarnazione del suo Figlio. L’evento storico dell’Incarnazione ci permette di comprendere il mistero di Dio attraverso i tratti umani di Gesù di Nazaret. Nel volto umano di Gesù si rispecchia infatti il volto di Dio (cf. Gv 14,9-10).

Le letture bibliche di questa domenica propongono alla nostra riflessione il misterioso modo di agire di Dio nei nostri confronti. Dio non giudica gli uomini con il metro con cui noi giudichiamo sovente i nostri simili. Perché, come dice il profeta Isaia nella prima lettura, i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri e le nostre vie non sono le sue vie: è un Dio che ha misericordia e perdona largamente. Questo particolar modo di agire di Dio è illustrato da Gesù nella parabola evangelica dei lavoratori della vigna, una parabola volutamente sconcertante, per indurre gli ascoltatori a rettificare eventualmente la loro idea della giustizia divina e a interrogarsi sul modo in cui comprendono e svolgono il loro servizio del Signore. Possiamo interpretare la parabola come una risposta di Gesù alla domanda che Pietro e i suoi discepoli gli hanno rivolto poco prima: “Abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito: che cosa ne ricaveremo?” (Mt 19,27). Il proprietario della vigna ricompensa ugualmente operai che hanno compiuto lavori di diversa durata: alcuni hanno lavorato una giornata intera, altri un poco meno, altri poi un’ora sola; tutti però vengono retribuiti in modo uguale. Il particolare dell’uguaglianza di retribuzione nella parabola, mira a sottolineare che non c’è proporzione fra ciò che fa l’uomo e ciò che dona Dio. Il padrone della parabola distribuisce i salari non secondo la misura delle prestazioni degli operai, ma in vista del loro benessere e della loro gioia. Dio, infatti, non è un padrone che dà un “salario”, ma un padre che elargisce un “dono”. Dio non è un compagno d’affari, con cui possiamo contrattare la nostra salvezza. La salvezza non va barattata, ma accettata come dono. Il procedere così generoso di Dio ha come unica spiegazione la sua bontà infinita e la sua iniziativa libera e spontanea; la grandezza di Dio non si può misurare: “senza fine è la sua grandezza” (cf. salmo responsoriale).

Noi siamo inclini a definire i reciproci rapporti in base alla prestazione effettiva, parametro che inconsciamente trasferiamo alle vicende che riguardano anche i nostri rapporti con Dio. Il Signore invece agisce secondo criteri di gratuità. Davanti alla misericordia sconfinata di Dio ogni uomo si trova nella medesima posizione. La grettezza del nostro cuore fa sì che sia per noi difficile capire l’amore di un Dio sempre pronto a perdonare, sempre pronto ad accogliere chiunque apra il cuore alla sua grazia, in ogni momento. Se siamo veramente discepoli di Cristo (cf. seconda lettura), sapremo interpretare la nostra vita secondo criteri di gratuità e di donazione agli altri, i valori che nel Cristo hanno incarnato l’autentico volto del Padre.


L’Eucaristia esprime in modo sublime il mistero del donarsi gratuito di Dio a noi. Presentiamo al Signore un po’ di pane e di vino e abbiamo in dono un “cibo di vita eterna” e una “bevanda di salvezza”.

sabato 16 settembre 2017

LA MESSA DI GREGORIO MAGNO? QUELLA DI PAOLO VI LE SOMIGLIA PIÙ CHE LA MESSA DI PIO V





Una delle accuse che alcuni ambienti tradizionalisti fanno alla riforma della messa di Paolo VI è che ha distrutto la struttura della messa tradizionale che risale a san Gregorio Magno. Così si è espresso, ad esempio, Claudio Crescimanno il 05-09-2017 nella Nuova Bussola: “è vero che il messale in uso fino alla riforma postconciliare è stato codificato da san Pio V (XVI secolo), ma l’ordo, cioè la struttura e i testi, della messa tradizionale risale a san Gregorio Magno (VI secolo) tanto che essa può a giusto titolo essere chiamata anche messa gregoriana”.

Si può provare invece, con i dati storici in mano, che l’ordinario della messa  di Paolo VI somiglia più all’ordinario della messa in uso nel tempo di Gregorio Magno di quanto somigli ad esso l’ordinario della messa di Pio V.

Anche se è difficile determinare in concreto quali riforme liturgiche Gregorio Magno (590-604) abbia realizzato, alcuni dati sull’ordinario della messa nei secoli VI/VII li abbiamo. Se ci soffermiamo sul cuore della messa, la cosiddetta liturgia eucaristica, notiamo che fino al secolo VIII nell’offertorio della messa troviamo una sola orazione alla fine del rito: l’orazione super oblata, detta più tardi secreta. Nel Messale di Pio V, l’offertorio contiene numerose orazioni, 8 nell’edizione del 1962, senza contare le 4 che accompagnano l’incensazione nelle messe solenni (Suscipe, sancte Pater; Deus, qui humanae substantiae; Offerimus tibi, Domine; In spiritu humilitatis; Veni, sanctificator; Lavabo inter innocentes; Suscipe, sancta Trinitas; Orate, fratres; Secreta). Il Messale di Paolo VI conserva l’orazione In spiritu humilitatis (la più significativa del gruppo), quella del Lavabo (semplificata), l’Orate, fratres e la Super oblata (l’antica Secreta); introduce inoltre le due nuove orazioni nel momento della presentazione del pane e del vino. In conclusione, un offertorio più simile a quello di Gregorio Magno che a quello di Pio V, senza fare però una operazione archeologica, dato che sono state conservate alcune orazioni aggiunte dopo il pontificato di Gregorio.

Per quanto riguarda la preghiera eucaristica, pur introducendo nuove preghiere eucaristiche, Paolo VI ha conservato il canone romano così come è stato tramandato da Gregorio Magno e Pio V. Il Messale di Paolo VI prevede la recita della preghiera ad alta voce, come era recitato il canone al tempo di papa Gregorio. La recita silenziosa è stata introdotta in seguito col trapianto della Messa romana in terra franca. Recentemente, il card. Sarah ha proposto recitare la preghiera eucaristica sotto voce come un arricchimento del Novus Ordo (cf. blog Play Tell). Forse dovrebbe essere il Vetus Ordo ad arricchirsi con un uso che risale probabilmente ai tempi apostolici ed è stato in vigore durante il primo millennio.

È importante notare, poi, che i riti di comunione nel Messale paolino conservano le riforme introdotte da Gregorio Magno. Anticamente a Roma, come nelle altre Chiese occidentali e in gran parte di quelle orientali, il Padre nostro si recitava dopo la frazione del pane. Papa Gregorio lo trasferì al posto attuale, subito dopo il canone. La comunione sotto le due specie, reintrodotta da Paolo VI, era prassi comune in tempo di papa Gregorio. Solo alla fine del secolo XII comincia a prevalere la comunione sotto la specie del pane. Le parole con cui è distribuita la comunione nel Messale di Pio V: “Corpus Domini nostri Iesu Christi custodiat animam tuam in vitam aeternam” sono posteriori a Gregorio Magno; secondo Jungmann, risalgono all’VIII secolo circa. Al tempo di papa Gregorio la comunione sotto la specie del pane non era ricevuta in bocca, ma sulla mano, possibilità prevista dal Messale di Paolo VI.  

Si potrebbero aggiungere altri particolari come, ad esempio, la lettura del prologo di Giovanni alla fine della messa, uso soppresso da Paolo VI; lo si trova per prima volta a metà secolo XIII nell’Ordinario dei Domenicani.

Come dice san Girolamo, “molti cadono in errore perché non conoscono la storia” (In Matthaeum I, 2,22: CCL 70,15).



M. A.

venerdì 15 settembre 2017

DOMENICA XXIV DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 17 Settembre 2017

 

Sir 27,30-28,7; Sal 102 (103); Rm 14,7-9; Mt 18,21-35

Il Sal 102 è un inno pieno di affetto ed entusiasmo alla misericordia di Dio; il salmista, ricordando che ha peccato ma che è stato perdonato da Dio, alla fine della sua intensa preghiera invita tutte le creature a lodare con lui il Signore. Il “Dio è amore” della prima lettera di Giovanni (4,8) trova in questa preghiera un autentica anticipazione. L’atmosfera in cui si muove questo inno è piena di amorevolezza, serenità e luminosità. Nella liturgia della Chiesa, questo salmo è diventato un inno a Gesù Cristo; in lui si sono realizzati per noi tutti i benefici divini ricordati dal salmista. Riassume bene il tema della domenica il ritornello del salmo responsoriale: “Il Signore è buono e grande nell’amore”; parole che trovano eco nell’orazione colletta, che parla della “potenza” della misericordia di Dio.

Il brano del Siracide ci ricorda che se conserviamo nel nostro cuore rancore, non potremo ottenere il perdono di Dio. Ecco il perché del pressante invito del saggio israelita: “Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati”. Non possiamo chiedere ci venga applicata una logica di perdono e nello stesso tempo rifiutarci di usare questa medesima logica verso i nostri simili. Il racconto evangelico sviluppa lo stesso tema. San Pietro si rivolge a Gesù e gli domanda quante volte si deve perdonare al fratello, ci sono dei limiti?. La domanda non è oziosa. Infatti, i maestri d’Israele di quel tempo affermavano generalmente che si doveva perdonare fino a tre volte. San Pietro è più generoso, e domanda: “fino a sette volte?” Ma Gesù dimostra nella sua risposta l’infinita misericordia di Dio quando afferma con un gioco di parole: “fino a settanta volte sette”, cioè sempre. E per imprimere nella mente dei discepoli questa volontà di perdono, ecco che Gesù narra, come è sua abitudine, una significativa parabola.

Noi ci troviamo nella condizione descritta dalla seconda scena della parabola: in mezzo alla strada, di fronte ad altri servi, come noi, del padrone. Come dobbiamo comportarci? Ricordando che prima di ogni nostra scelta abbiamo ricevuto da Dio il perdono gratuito di un debito impagabile. Se questo ricordo rimarrà e sarà operante nel cuore, il nostro comportamento verso gli altri sarà necessariamente fatto di perdono e di gratuità. Se invece dimentichiamo quello che Dio ha fatto per noi, allora rientreremo nella logica della stretta parità e il rapporto con gli altri tenderà a diventare uno scambio commerciale.

Anche il breve brano della lettera ai Romani, proposto come seconda lettura, ci invita ad assumere una logica di fede nei rapporti con gli altri. Da dove viene la difficoltà per perdonare? Dal porre se stessi al centro, dal valutarsi più di quanto noi siamo. San Paolo ci ricorda che nessuno vive per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, siamo del Signore. Si tratta in entrare con chiarezza in questo modo di ragionare proprio della fede. La parola di Dio illumina la nostra fede, ci esorta a non lasciarci travolgere dai sentimenti di odio e di vendetta, ma a vincere il male con il bene.


Nell’ultima preghiera di questa santa Messa, che recitiamo dopo la comunione, ci rivolgiamo a Dio e gli chiediamo che la potenza del sacramento ricevuto “ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento ma l’azione del suo Santo Spirito”.

lunedì 11 settembre 2017

Identikit della VI Istruzione (/13): Il Motu Proprio “Magnum principium”, lo sblocco delle traduzioni e il rilancio del Vaticano II




Pubblicato il 11 settembre 2017 nel blog: Come se non

La pubblicazione del Motu Proprio “Magnum Principium”, firmato il 3 settembre e che entrerà in vigore il 1 ottobre 2017, costituisce una svolta importante nella lunga questione delle “traduzioni liturgiche”. Per comprenderne il significato occorre brevemente contestualizzarne il testo nella vicenda degli ultimi 20 anni, per poi esaminare il contenuto normativo, quello ecclesiologico e quello teologico del documento. Si tratta di un documento breve (qui il rimando al testo, corredato da una nota giuridica e da una interpretazione da parte del Segretario Mons. Roche) , ma i cui effetti sono destinati a modificare profondamente le abitudini ecclesiali, le rappresentazioni teologiche e le pratiche istituzionali. Anzitutto provo a ricostruire il contesto, nel quale il documento può assumere oggi tutta la sua importanza.
a) Le traduzioni impossibili
Il titolo e l’attacco del documento si rifanno ad un “grande principio” affermato dal Concilio Vaticano II, ossia alla “comprensione dei testi liturgici” da parte del popolo, per assicurare la partecipazione all’azione celebrativa. La storia del “grave compito” di tradurre i testi liturgici ha conosciuto diverse fasi, ma negli ultimi 30 anni aveva conosciuto, progressivamente, una sorta di paradosso: con la Istruzione “Liturgiam authenticam” (2001) si era affermato un principio di “traduzione letterale”, come garanzia della fedeltà al testo latino, che aveva reso di fatto impossibile ogni buona traduzione. Le Conferenze Episcopali si trovavano pressate da una polarità irresolubile: o obbedivano alla normativa della Istruzione, e traducevano in modo incomprensibile per il loro popolo; oppure traducevano in modo comprensibile, ma non vedevano approvate le traduzioni da parte della Congregazione. Dal 2001 il disagio era sempre più cresciuto, fino alle proteste esplicite che negli ultimi anni erano arrivate dagli episcopati tedeschi, francesi, statunitensi, canadesi, italiani… In realtà il “blocco istituzionale” dipendeva, come vedremo, da un duplice blocco teorico, che pretendeva di garantire la fedeltà secondo due principi troppo drastici: si doveva tradurre letteralmente e si doveva tradurre senza interpretare. Ma la esperienza ecclesiale, e la riflessione teologica, hanno dimostrato la illusorietà teorica e la distorsione pratica di questa pretesa.
b) La modifica del Codice
Il cuore del Motu Proprio è una modifica del Codice di Diritto Canonico, al can 838, che viene riformulato, introducendo una distinzione decisiva (cfr. Nota ufficiale  qui) . Il rapporto tra Santa Sede e Episcopati locali prima prevedeva un unico strumento di correlazione – la “recognitio”. Ora, riprendendo una distinzione non nuova, ne prevede due: accanto alla “recognitio” viene introdotta la “confirmatio”. Con la prima la Santa Sede entra direttamente nelle scelte operate dalla Conferenze Episcopali, quando riguardano l’adattamento dei testi. Con la seconda si limita ad un controllo formale, presupponendo la “fedeltà di traduzione” come garantita dalla esperienza locale degli episcopati. Questa distinzione ha immediatamente due effetti:
- ridimensiona la pretese di controllo centrale, che dal 2001 erano cresciute a dismisura, sindacando puntigliosamente e unilateralmente su ogni singola parola tradotta;
- tiene conto della esigenza di “interpretazione” per la resa del latino in una “lingua del popolo” e la affida, ordinariamente, alla competenza dei Vescovi del luogo.
Con questa articolazione tra “recognitio” e “confirmatio” non soltanto avremo uno snellimento procedurale nella approvazione delle traduzioni, ma anche il delinearsi di una teologia e di una ecclesiologia in cui la “sinodalità” e il “decentramento” diventano prassi necessaria.
c) Le parole iniziali: teologia della liturgia e ruolo degli episcopati
In effetti, pur nella sua stringatezza, il documento papale non rinuncia ad uno spazio di “argomentazione teologica” nel quale troviamo affermati almeno quattro principi che non ascoltavamo con tanta chiarezza da quasi 50 anni:
- Il “grande principio” della esigenza di comprensione della preghiera liturgica da parte del popolo.
- Il principio per cui la “parola” è mistero senza che ciò dipenda dalla “incomprensione”, ma dalla profondità inesauribile del suo significato.
- In terzo principio è la “competenza episcopale”, che viene ribadita con forza, come eredità conciliare e come esigenza intrinseca al rinnovamento della vita liturgica del popolo di Dio. La composizione tra esigenze degli Episcopati ed esigenze della Santa Sede trova, con la riforma del Codice, più facile e felice correlazione.
- Il quarto principio è una “teoria della traduzione”, bene espressa nella frase:
 fideliter communicandum est certo populo per eiusdem linguam id, quod Ecclesia alii populo per Latinam linguam communicare voluit.”
Questa formulazione mostra bene la importanza di tradurre non parola per parola, ma da cultura a cultura. Ciò che deve essere comunicato – la parola della salvezza – deve trovare espressione diversa quando entra in lingue e culture diverse. La corrispondenza tra lingue non è statica, ma dinamica. Irrigidire il “contenuto” in parole fisse conduce, irreparabilmente, a traduzioni incapaci di comunicare. La esigenza di un “glossario comune” non contraddice, ma giustifica questa scelta ordinaria.
d) Essere fedeli al testo: che cosa significa?
Una delle conseguenze di questo MP è una preziosa riflessione sul tema della “fedeltà”. Che cosa significa, infatti, essere “fedeli al testo”? Essa comporta una duplice fedeltà: non solo al testo, ma anche al destinatario. Per garantire questa duplice fedeltà, non è sufficiente una competenza centrale, ma è decisiva anche una competenza locale. La logica del MP è quella di una “riconsiderazione della periferia”: per rendere pienamente il significato di un testo liturgico, originariamente latino, dobbiamo entrare nella lingua del popolo non solo con la testa, ma anche con il corpo. Questo possono farlo non funzionari romani, ma Vescovi in loco. Una fedeltà solo letterale contraddice la complessità della struttura ecclesiale e della storia dei popoli. Il riferimento al Concilio Vaticano II è l’orizzonte in cui per essere fedeli alla tradizione occorre riconoscersi la possibilità di cambiare.
e) Tradurre è interpretare: la esigenza di competenze decentrate
Un secondo aspetto, che dobbiamo considerare nel documento, è il superamento della illusione che si possa tradurre senza interpretare. Dietro alla distinzione tra “recognitio” e “confirmatio”, sta, in fondo, la consapevolezza che non è possibile un atto di traduzione reale ed efficace, che non si cali nella particolare interpretazione che ogni lingua “diversa” offre del testo latino. Per passare dal latino alle lingue parlate occorre non semplicemente una trasposizione lessicale, ma sempre anche una interpretazione culturale, esistenziale, storica, sociale. Quella che sembra a prima vista una distinzione giuridica e fredda, permette di far entrare la freschezza e la ricchezza delle vite dentro le parole della liturgia. Le quali sanno essere fedeli al latino solo se restano fresche e vive. Una teologia della liturgia partecipata e una ecclesiologia di comunione sono il presupposto e l’effetto di questa importante riforma del codice. E la unità è garantita non dall’arretrare sul latino, ma dall’avanzare nella traduzione delle lingue del popolo.
f) Lo sblocco e il rilancio: lo spazio urgente di una VI Istruzione
Uno dei primi titoli, usciti su un grande giornale italiano, che dava notizia di questo MP, suonava così: Il Papa concede più libertà agli episcopati…” Un bravo collega teologo, il prof. Stefano Parenti, aveva subito annotato in un commento in rete: “Attenzione, qui il papa non concede, ma restituisce”. Questa osservazione è del tutto corretta e gliene sono grato. Ci sono voluti 16 anni per rendersi conto che la pretesa di controllare tutto dal centro, di trasformare le lingue vernacole in semplici strumenti del latino, era una idea unilaterale e distorta, frutto di una teoria del testo, della comunicazione, della teologia e della ecclesiologia senza veri fondamenti nella tradizione. Ora il MP ristabilisce la logica della traduzione nell’alveo della sua tradizione più sana. Sarà molto difficile sottovalutare questo passaggio. Ma ciò che qui è stato riconosciuto necessario, e che va salutato come un salutare contributo al cammino della riforma liturgica, deve essere giudicato, con altrettanta chiarezza, come insufficiente. Le due intense pagine del MP, che hanno grande efficacia sul piano procedurale, e che impostano lucidamente una rinnovata coscienza teologica ed ecclesiologia dinamica, devono ricreare le condizioni di una “comunicazione liturgica intorno al tradurre” che non può non richiedere in modo urgente una nuova istruzione. Il MP sblocca la vita della Chiesa che celebra, ma rivela anche un grande desiderio di nuove motivazioni: tale desiderio dovrà essere colmato da una Nuova Istruzione, che sappia uscire dalle secche – non solo procedurali, ma argomentative – in cui ci aveva condotto Liturgiam Authenticam. Forse la stessa commissione che ha elaborato questo “provvedimento d’urgenza” potrà occuparsi di stendere una nuova Istruzione, che consideri accuratamente, serenamente e distesamente tutto lo sviluppo della Riforma già compiuto, nonché quello ricco e fecondo che resta ancora da compiere.


sabato 9 settembre 2017

IL MOTU PROPRIO “MAGNUM PRINCIPIUM” E LE TRE FEDELTÀ DI PAPA FRANCESCO


Col motu proprio Magnum principium, datato 3 settembre 2017, papa Francesco non sconfessa l’Istruzione Liturgiam Authenticam (28.03.2001), ma, conservandone la sostanza e lo spirito, restituisce alle Conferenze episcopali un potere che appartiene loro e, in questo modo, favorisce un clima più dialogico tra le Conferenze stesse e la Sede Apostolica, clima che si era rarefatto in questi ultimi sedici anni di applicazione della suddetta Istruzione.

1. Con questo documento, papa Francesco è fedele a quanto egli stesso aveva scritto nell’Esortazione apostolica Evangelli gaudium, documento programmatico del suo pontificato, quando nel n. 32 auspica che le Conferenze episcopali siano “soggetti di attribuzioni concrete” e ricorda che “un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa”.

2. Il motu proprio è fedele anche al Vaticano II; rappresenta infatti un ritorno al dettato conciliare, che in SC 36 § 4 afferma: “La traduzione del testo latino in lingua viva, da usarsi nella liturgia, deve essere approvata dalla competente autorità ecclesiastica territoriale”. La “confirmatio” della Sede Apostolica venne stabilita successivamente nel motu proprio Sacram Liturgiam (25.01.1964), all’articolo IX, quando afferma delle traduzioni quanto SC 36 § 3 dice sulla previa decisione circa l’uso e il modo della lingua viva.

3. Possiamo aggiungere, che questo documento è fedele anche ad una antica tradizione romana. Il documento è promulgato con data 3 settembre, in cui la Chiesa celebra la memoria di san Gregorio Magno (590-604). Questo papa inviò Agostino di Canterbury con un consistente gruppo di monaci a Britannia per evangelizzare l’Inghilterra. Ad una domanda di Agostino sui diversi modi di celebrare l’Eucaristia, papa Gregorio risponde: “Tu conosci le usanze della Chiesa di Roma, in cui sei stato educato. Io desidero però che se trovi nella Chiesa romana, in quella delle Gallie, o in qualsiasi altra, qualcosa che Dio onnipotente possa gradire di più, dopo una accurata scelta, lo porti alla Chiesa degli Inglesi…” (il testo della lettera si può trovare nel volume 371 di Sources Chrétiennes, Cerf, Paris 1991, 492-495).


Papa Francesco, sulla scia di Gregorio Magno, dà più spazio alle Chiese locali. Naturalmente, ciò comporta anche che le Conferenze episcopali  siano consapevoli delle loro responsabilità nell’approvazione della traduzione dei testi liturgici.

MATIAS AUGE

DOMENICA XXIII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 10 Settembre 2017

 

Ez 33,1.7-9; Sal 94 (95); Rm 13,8-10; Mt 18,15-20

La prima parte del Sal 94 è un invito a lodare e rendere grazie al Signore. Nella seconda parte è Dio stesso a parlare al suo popolo evocando l’evento centrale della fede d’Israele, la sua nascita come popolo eletto nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù d’Egitto. Ebbene, in quegli inizi Israele ha sfoderato tutta la gamma delle sue ribellioni. Il nostro testo ricorda in particolare l’episodio di Massa a Meriba (cf. Es 17,1-7; Nm 20,2-13) ed esorta i figli d’Israele ad ascoltare la voce di Dio e a non indurire il cuore. Riprendendo il testo salmico, anche noi siamo esortati ad ascoltare la voce del Signore evitando che il nostro cuore si indurisca e ci renda sordi alla sua voce, al suo amore: “Ascoltate oggi la voce del Signore”. 

Nella nostra breve riflessione, partiamo dalla seconda lettura, in cui abbiamo ascoltato un pressante appello di san Paolo all’amore vicendevole, “perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge”. Con queste parole, l’Apostolo riconduce tutti gli obblighi e tutti i rapporti con i propri simili all’amore (cf. anche 1Cor 13,1-8; Gal 5,14). Il messaggio è chiaro: alla base di ogni rapporto personale, famigliare, ecclesiale o sociale ci deve essere una logica di amore. La morale cristiana non è fondata su una serie di precetti, più o meno negativi, ma sulla responsabilità di ognuno per l’altro.

Questo amore per il prossimo si manifesta anche con la correzione fraterna. Un amore permissivo, incapace di denunciare il male che affligge i nostri fratelli, è un falso amore. Ce lo ricordano le altre due letture bibliche. Il profeta Ezechiele, viene affermato nella prima lettura, è stato costituito dal Signore “sentinella per la casa d’Israele”: egli ha il compito di denunciare la mancanza di fede del popolo, di smascherare gli ingiusti, di richiamare i peccatori perché si convertano. Se non lo facesse sarebbe corresponsabile della loro perversione. Sappiamo bene che la presenza del male non riguarda soltanto la società di altri tempi; è un problema con cui dobbiamo fare i conti tutti i giorni. Esso ci coinvolge sempre personalmente.

Il brano evangelico riprende le stesse idee della prima lettura ed espone in modo dettagliato le tappe del processo di ricupero dell’errante, l’atteggiamento di avere nei confronti del fratello che ha sbagliato. Non si tratta di norme disciplinari in senso proprio, ma di una pressante esortazione a fare tutto il possibile per riportare il colpevole sul giusto cammino. Assumendo una posizione passiva davanti agli errori del nostro prossimo noi non perseguiamo la via dell’amore, della solidarietà e della corresponsabilità. La correzione fraterna raccomandata da Gesù comporta un atteggiamento di comprensione e di coraggio al fine di consentire al fratello che è in errore di ravvedersi. Una tale correzione non ha il carattere di azione punitiva ma è volta alla conversione del fratello. Possiamo ben dire che la correzione fraterna è anzitutto un grande esercizio di amicizia e perciò suppone che si ami l’altro come un “altro me stesso” nella consapevolezza di essere assieme fragili ma anche forti, se e in quanto uniti nella carità. Il brano evangelico d’oggi riporta alla fine le parole di Gesù sull’efficacia della preghiera comune: la comunità riunita nella carità gode della presenza di Cristo e, in lui, ottiene dal Padre che progredisca la riconciliazione universale. Il Signore è presente là dove c’è un’autentica concordia nella preghiera.

La partecipazione all’eucaristia ha come frutto il rafforzamento della “fedeltà e della concordia” dei figli di Dio (cf. preghiera sulle offerte).


domenica 3 settembre 2017

TEOLOGIA NARRATIVA E LITURGIA


La cosiddetta “teologia narrativa” è un modo di comunicare il messaggio cristiano che ne pone in risalto il suo carattere storico e la sua applicazione o dimensione pratica. I racconti biblici costituiscono il punto di riferimento centrale di tutte le narrazioni cristiane. La lettura narrativa della Bibbia recupera il suo senso di storia salvifica e fornisce una forma di incontro con la Parola che ci riguarda. Il “memoriale” biblico non è solo commemorazione, ma evento salvifico permanente, perché in sé custodisce un intervento divino che è eterno e può, perciò, attraversare la tridimensionalità del tempo irradiandola.

Infatti, narrare non è solo ricordare, ma anche generare una reviviscenza. La narrazione può avere quindi una funzione creatrice, che possiamo chiamare “sacramentale”: non per nulla la messa ha nel suo cuore “la preghiera eucaristica”, che comprende la narrazione evangelica dell’ultima cena, ed è così che si attua la presenza reale di Cristo nell’assemblea liturgica sotto i segni del pane e del vino.


La teologia narrativa è un sano complemento per una lettura della fede cristiana eccessivamente concettuale o astratta. E’ un altro modo di fare teologia, che non vuole smentire il modo clasi­co: la narrazione non deve far perdere di vista altre dimensioni della teologia, in particolare la sua dimensione speculativa. 

venerdì 1 settembre 2017

DOMENICA XXII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 3 Settembre 2017

 

Ger 20,7-9; Sal 62 (63); Rm 12,1-2; Mt 16,21-27

Le letture bibliche della presente domenica ci orientano verso l’accettazione del misterioso cammino della croce che hanno percorso i profeti e, in particolare, Cristo stesso. Il profeta Geremia, scelto portavoce di Dio, diventa motivo di obbrobrio per i suoi a causa della parola di Dio che egli, sedotto dal suo Signore, proclama con libertà (prima lettura). Geremia, a causa della sua obbedienza alla volontà divina, è una commovente figura del Cristo, il Servo di Dio. Anche Gesù è stato fatto oggetto di malevoli sarcasmi e di dure contestazioni, ma è rimasto fedele alla sua missione “facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). Nel brano evangelico d’oggi, Gesù annuncia la sua passione che avrà luogo a Gerusalemme, e invita i discepoli a seguirlo e a prendere ciascuno la propria croce. Pietro, che si rifiuta di accettare un Cristo sofferente, denota l’incapacità dell’uomo a pensare secondo Dio. Prigioniero della logica umana, egli tenta di impedire che Gesù si conformi alla logica divina. Infatti, la logica di Dio è completamente diversa da quella dell’uomo. Ne è consapevole san Paolo quando nella seconda lettura ammonisce: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio”.


Le parole di Gesù ai suoi discepoli sono esigenti: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Come spiegare il paradosso della via della croce proposta da Gesù a tutti coloro che lo vogliano seguire? Dio ha scelto di salvare gli uomini non con la ostentazione della sua potenza, ma con la rivelazione del suo amore fedele, condividendo cioè da vicino la miseria dell’uomo. La via della croce percorsa da Gesù è la via dell’amore, del dono totale di sé. Quindi ciò che Gesù chiede ai suoi discepoli, a tutti noi, non è una vita segnata dalla sofferenza, ma trasformata dall’amore, una vita offerta senza condizioni al Signore. Non si tratta di mortificare la vita, ma di arricchirla in modo che, rimanendo vita pienamente umana, sia guidata dalla luce della fede che è soprattutto accettazione del mistero, comunione con l’invisibile, ricerca del progetto di Dio. 

Possiamo affermare che le parole di san Paolo proposte oggi dalla liturgia sintetizzano bene questo atteggiamento: “vi esorto… a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. Il corpo e le membra per Paolo sono l’intero essere umano nella sua dimensione storica, personale e relazionale. Egli parla quindi della donazione totale del credente, della sua persona con tutta la sua corporeità. E’ nella realtà concreta di ogni giorno e nei fatti quotidiani che si realizza questo dono di sé. E in questo modo, la nostra vita, modellandosi sull’esistenza di Gesù, diventa un vero culto gradito al Padre. Se vi è scollamento fra la condotta della vita quotidiana e il culto, la pratica religiosa scade nel formalismo e la morale si riduce a moralismo.