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mercoledì 31 ottobre 2018

TUTTI I SANTI – 1 Novembre 2018




Ap 7,2-4.9-14; Sal 23 (24); 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a



Se a Pasqua abbiamo celebrato il Cristo vivente per sempre alla destra del Padre, oggi, grazie alle energie sprigionate dalla risurrezione di Cristo, contempliamo quelli che sono con Cristo alla destra del Padre: i santi. La prima lettura ci dice che questi santi sono “una moltitudine immensa”. La seconda lettura descrive la radice della santità cristiana: essa consiste nell’essere figli di Dio e nel vivere come tali. Nella lettura evangelica Gesù ci offre la “magna carta” della santità, dove troviamo la fisionomia del perfetto discepolo di Cristo tratteggiata nel messaggio delle Beatitudini.



I santi non sono superuomini, ma persone che si sono realizzate umanamente seguendo la via indicata da Cristo e sintetizzata nelle Beatitudini. San Matteo colloca le Beatitudini all’inizio del Discorso della montagna (Mt 5,1-7,29). La tradizione ecclesiale considera questi capitoli di Matteo le basi fondanti dell’etica cristiana, il modo di vivere di chi si dice cristiano. Le Beatitudini sono una proclamazione messianica, l’annuncio che il Regno di Dio è arrivato per tutti. I profeti avevano descritto il tempo messianico come il tempo dei poveri, degli affamati, dei perseguitati, degli inutili. Gesù proclama che questo tempo è arrivato. Per Gesù le Beatitudini si riducono a una sola: la gioia del Regno arrivato. Ed è alla luce del Regno arrivato (Regno che ha capovolto i valori umani) che si giustifica la paradossalità delle sue affermazioni.



Dopo una lettura rapida delle Beatitudini, dentro di noi risuona come un’eco la parola “beati” che Gesù pronuncia otto volte, all’inizio di ogni beatitudine. E’ una parola nota alla tradizione biblica, una parola augurale, un’invocazione di tutti quei beni che vengono da Dio. Beato è l’uomo che riceve la salvezza. Essa richiede come presupposto la fede (Mt 16,17; Lc 11,28), la perseveranza nella fede (Gc 1,12) e la vigilanza per attendere il Signore (Lc 12,37). Gesù chiama beati i poveri, i miti, gli afflitti, gli affamati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati a causa della giustizia. Ogni augurio è accompagnato da una promessa. E notiamo subito che l’ultima corrisponde alla prima: “di essi è il regno dei cieli”. Mentre l’Antico Testamento giungeva ad identificare la beatitudine con Dio stesso, Gesù si presenta a sua volta come colui che porta a compimento l’aspirazione alla beatitudine: il regno dei cieli è presente in lui. Più ancora, Gesù “incarna” le Beatitudini vivendole perfettamente. Ecco perché la proclamazione delle Beatitudini è preceduta da un’annotazione generale che riassume l’attività di Gesù (Mt 4,23-24): lo circondavano ammalati di ogni genere, sofferenti, indemoniati, epilettici, paralitici. Ha cercato i poveri e li ha amati con amore di predilezione. Egli fu povero, sofferente, affamato, perseguitato: eppure amato da Dio e salvatore. La vita di Cristo dimostra che i poveri sono beati, perché essi sono al centro del Regno e perché sono essi, i poveri, i crocifissi, che costruiscono la salvezza. Gesù ha vissuto l’ideale delle Beatitudini e in lui tutte le promesse di Dio si sono realizzate. Non siamo quindi di fronte ad una pura utopia, ma a un programma di vita che è possibile per ogni discepolo. Ce lo dimostra la schiera immensa dei santi che oggi la Chiesa venera come modelli e intercessori (cf. il prefazio).



La festa odierna costituisce inoltre un forte richiamo a riscoprire il santo che è accanto a noi, a sentirci parte di un unico corpo che è la Chiesa santa, cattolica e apostolica.




domenica 28 ottobre 2018

Documento finale del Sinodo 2018: prima spigolatura su liturgia e donna





Pubblicato il 28 ottobre 2018 nel blog: Come se non



L’ampio Documento finale, che chiude questa fase sinodale, si presenta ovviamente come una grande sintesi dei lavori, scandita da una cadenza in tre parti, modellate sull’episodio evangelico dei “due di Emmaus”. Vorrei qui esaminarne il contenuto limitatamente a due temi, non così centrali, ma assai significativi. Mi sembra che, all’esame di due argomenti così diversi - come quello della “liturgia” e quello della “donna” – emergano dal testo alcune obiettive tensioni, che si aprono tra il momento dell’ascolto e il momento della “ripresa finale”. L’ascolto invoca una assunzione di responsabilità e di autorità, che la ripresa sembra da un lato confermare e dall’altro escludere. Vorrei suffragare questa impressione con alcuni dati testuali, e lo farò riferendomi ai due temi su cui mi sento di poter fare qualche osservazione meno improvvisata.


1.Giovani, liturgia e senso del mistero

Dedicati alla liturgia troviamo, oltre ad altri fuggevoli riferimenti, due numeri: il 51 e il 134. Il primo è nella “prima parte”, dedicata all’ascolto; mentre il secondo è nella “terza parte”. Colpisce molto che il primo numero sia sostanzialmente lineare e ben strutturato, mentre il secondo appare contorto, faticoso e attraversato da tensioni irrisolte.

Il n. 51 (dal titolo Il desiderio di una liturgia viva) esordisce con la affermazione di una domanda di “liturgia fresca, autentica e gioiosa” che viene dai giovani, e che è domanda sia di preghiera sia di sacramenti – confermando indirettamente una certa fatica, forse non solo dei giovani, a concepire il sacramento anche come preghiera. E si sottolineano tre diversi atteggiamenti nei giovani circa la liturgia. Da un lato vi è chi riconosce in essa una mediazione fondamentale della propria identità di fede. Vi è chi invece vede la messa domenicale “più come precetto morale che come felice incontro con il Signore Risorto e con la comunità”. Infine si dice, in generale, che la iniziazione ai sacramenti fa fatica ad introdurre in profondità, “ad entrare nella ricchezza misterica dei suoi simboli e dei suoi riti”.

Come risponde il n. 134 a queste belle provocazioni? Con parole che sono certamente il frutto di un comprensibile compromesso, ma che restano largamente al di sotto del tenore delle domande. Sotto il titolo La centralità della liturgia (ed è curioso che si usi “centro” e non “culmine e fonte”) si riprende il ruolo della celebrazione eucaristica in rapporto alla fede e alla Chiesa, si ribadisce l’importanza di celebrazioni belle e di nobile semplicità, si sostiene la valorizzazione della ministerialità, ma quando si arriva agli auspici, il testo appare confuso e senza orientamento. Vi si dicono tre cose:

- la partecipazione attiva sia favorita, “ma tenendo vivo lo stupore per il Mistero”. Qui vi è una netta involuzione rispetto al n. 51. L’ascolto sembra più chiaro della risposta. Quando mai lo stupore per il Mistero è diverso dalla partecipazione attiva? Forse che il Sinodo, con tutta la sua autorità, si è limitato ad utilizzare un concetto meramente funzionale di “actuosa participatio” e non quello inteso da Sacrosanctum Concilium?  Se per il Concilio Vaticano II la “partecipazione attiva” è la via “misterica” per avere intelligenza dell’eucaristia, possono forse i nostri Vescovi consigliare ai giovani di “coltivare la partecipazione, ma anche il Mistero”? Qui si introduce una confusione piuttosto grave, quando invece il n. 51 parlava in modo molto pertinente ed elegante di “ricchezza misterica dei suoi simboli e dei suoi riti”. Là si teneva giustamente insieme quello che qui tende ad essere opposto.

- Avendo introdotto questa cesura tra “mistero” e “partecipazione”, ne risulta per conseguenza che arte e musica non debbano essere “per sé”, ma siano parte delle “azioni di Cristo e della Chiesa”. Anche qui, senza poter negare le possibili cadute autoreferenziali del musicale e dell’artistico, occorreva dire meglio, e con maggiore coraggio, che il “mistero” non è solo “altro” dalla musica e dall’arte, ma che queste ne sono “mediazione originaria”. Altrimenti sarà ancora facile accedere al mistero di Cristo e della Chiesa indipendentemente da musica e arte…

- Infine, come ultima conseguenza di questa “spaccatura” introdotta dalla risposta, ma assente nella domanda, era inevitabile che si arrivasse a questo: se si disgiunge il Mistero dalla partecipazione attiva, si può trovare altamente raccomandabile investire con i giovani sulla “adorazione eucaristica”, che assume, in questo modo di pensare la liturgia, una funzione addirittura prioritaria, come sintonia immediata, contemplativa e silenziosa con il Mistero, essendo questo distinto fin dall’inizio dalla partecipazione attiva. Qui, a mio avviso, le risposte episcopali appaiono restare piuttosto al di sotto delle domande dei giovani. Questo deve essere considerato, in qualche modo, un risultato molto significativo del Sinodo.


2. La donna: per giustizia, ma con rispetto

Veniamo alla donna. Anche in questo caso, se leggo bene, mi sembra che i riferimenti della prima e della terza parte siano vistosamente diversi. I numeri che affrontano la questione femminile sono il n. 13, il n. 55 e il n.148. Anche in questo caso i primi due numeri appaiono ben congeniati e assai omogenei, mentre il terzo è attraversato da una tensione assai forte, quasi come se non riuscisse a gestire a proprio agio la domanda  scaturita dall’ascolto. Li presento per ordine.

Il n. 13, intitolato Uomini e donne (che viene significativamente dopo il n. 12 che ha il titolo Esclusione ed emarginazione) usa toni forti e recisi. Inizia dalla “differenza tra uomo e donna”, che può generare “forme di dominio, esclusione e discriminazione da cui tutte le società e la Chiesa stessa hanno bisogno di liberarsi”. L’uguaglianza di uomo e donna davanti a Dio fa sì che “ogni dominazione e discriminazione basata sul sesso offende la dignità umana”. La differenza tra uomo e donna è “irriducibile a stereotipi”.

Il n. 55 si intitola Le donne nella Chiesa e presenta le aspettative dei giovani: anzitutto occorre “riconoscimento e valorizzazione delle donne nella società e nella Chiesa”. Si costata la fatica ad attribuire autorità a donne, a dar loro spazio nei processi decisionali. La assenza di voce e di sguardo da parte delle donne impoverisce il dibattito e il cammino della Chiesa. E in numero si chiude con queste parole: “Il Sinodo raccomanda di rendere tutti più consapevoli dell’urgenza di un ineludibile cambiamento, anche a partire da una riflessione antropologica e teologica sulla reciprocità tra uomini e donne”.

Infine, il testo del n. 134, dal titolo Le donne nella Chiesa sinodale. Si inizia da un paragone forzato: la Chiesa sinodale “non potrà fare a meno” (una circonlocuzione per non dire “deve”) di riflettere su condizione e ruolo della donna “al proprio interno e di conseguenza anche nella società”. Curiosa inversione del “segno dei tempi” di Giovanni XXIII in Pacem in terris, dove è la società a mostrare alla Chiesa una novità inaggirabile. Tuttavia questo limite di approccio non impedisce di riconoscere apertamente la necessità di una “coraggiosa conversione culturale e di cambiamento nella pratica pastorale quotidiana”. Ciò implica un doveroso coinvolgimento della donna negli organi istituzionali, anche con funzioni di direzione, e quindi anche nei processi decisionali, ma con una delimitazione che viene precisata in modo molto netto, dicendo “nel rispetto del ruolo del ministero ordinato”.  Sorge naturale una serie di questioni brucianti: Può il “rispetto per la donna” essere compatibile con questo “rispetto del ministero ordinato”? Se “rispetto” implica una strutturale esteriorità della donna al ministero ordinato, dove sta il coraggio di una “conversione pastorale”? A chi delegano i Vescovi l’”ineludibile cambiamento”? Si può invocare il “coraggio” per garantire che tutto resti esattamente come prima? Quale ruolo viene riconosciuto al discernimento antropologico e teologico sulla reciprocità tra maschile e femminile invocato al n. 55?

Il testo si chiude con una importante sottolineatura del “dovere di giustizia” che la Chiesa deve riconoscere alle donne, sia sulla base della prassi di Gesù verso le donne, sia sulla base di figure femminili autorevoli del testo biblico, della storia della salvezza e della storia della Chiesa.


3.  Un sinodo che si spoglia della autorità?

Il Sinodo, nel suo Documento finale, sembra lavorare su una ipotesi di “non autoreferenzialità” piuttosto originale. Si spoglia di autorità e la rimanda, direttamente, sotto di sé e sopra di sé. Da un lato sembra “mettere in bocca ai giovani” una serie di istanze che diventano obiettive priorità ecclesiali. D’altra parte rimanda ad altre istanze (superiori? posteriori? escatologiche?) una parola autorevole che assuma la novità in modo progettuale e che esca dall’imbarazzante “elenco di buoni propositi”.

Come ho cercato di far notare – con tutto il beneficio dell’inventario di una lettura inevitabilmente rapida ed acerba – su questi due temi per certi versi agli antipodi – come il classicissimo tema liturgico e il nuovissimo tema della “donna nella Chiesa” – il procedimento appare simile: da un lato un ascolto franco e diretto delle questioni, che ne permette una preziosa documentazione ufficiale; ma poi una elaborazione stanca, farraginosa, ingolfata delle questioni, che non approda, di per sé, ad alcun progetto, se non alla conferma di quel che c’è e all’auspicio, chiaro ma assolutamente non determinato, verso una prospettiva diversa. In conclusione mi chiedo: la “non autoreferenzialità” può essere soltanto “puro rimando ad altro”?

Forse su altri temi si leggeranno testi molto più chiari e più decisi. Ma l’impressione è che, molto più di quanto è accaduto tre anni fa nel Sinodo sulla famiglia, ogni spazio di reale determinazione sia stato affidato, contemporaneamente, al popolo di Dio (giovane e meno giovane che sia) e al Vescovo di Roma (che sa bene di dover restare giovane ex officio).


venerdì 26 ottobre 2018

DOMENICA XXX DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 28 Ottobre 2018




 


Ger 31,7-9; Sal 125 (126); Eb 5,1-6; Mc 10,46-52



La prima lettura parla del popolo d’Israele in esilio che viene consolato dalle parole di speranza del profeta Geremia che annuncia a tutti coloro che “erano partiti nel pianto” l’intervento salvifico di Dio che li riporterà in patria “tra le consolazioni”. L’evento, nella rilettura che ne fa la liturgia, diviene la profezia della grande restaurazione messianica, espressa simbolicamente nel brano evangelico odierno dalla narrazione della guarigione del povero cieco Bartimeo, compiuta da Gesù lungo la strada che porta a Gerusalemme. Due situazioni che illustrano assai bene la condizione dell’uomo alla ricerca della salvezza. Alla luce del disegno salvifico di Dio, tutti i personaggi e gli eventi della Bibbia possono essere considerati paradigmatici, esemplari. In essi possiamo ritrovare noi stessi con i nostri problemi e le nostre attese.



Prendiamo il personaggio Bartimeo. E’ seduto sulla strada a mendicare. Non è neppure in grado di vedere Gesù. Il cieco però, attraverso la fitta coltre delle tenebre che lo avvolge, riesce a sentire che Gesù Nazareno è lì di passaggio, e grida fiducioso invocando da lui pietà. Gesù lo fa chiamare, gli domanda cosa vuole e, alla richiesta del cieco che chiede di riavere la vista, Gesù lo guarisce con queste parole: “Va, la tua fede ti ha salvato”. La risposta di Gesù va oltre la richiesta del povero cieco. Egli grazie alla sua fede, non è solo liberato dalla sua infermità, ma “salvato”. Il racconto di san Marco si chiude con questa annotazione: “E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada”. Ormai Bartimeo vede in Gesù non solo il “benefattore” (Figlio di Davide) capace di guarirlo, ma anche il Maestro da seguire per la strada. La guarigione di questo cieco ha quindi una dimensione fisica, ma nello stesso tempo una dimensione spirituale: è stato liberato dalla cecità per poter diventare discepolo di Gesù. Il rilievo dato alla fede come causa della guarigione e la sequela da parte di questo “emarginato” hanno un significato paradigmatico: la salvezza è donata all’uomo nella fede e nella sequela lungo la strada verso la croce (questo miracolo è l’ultimo compiuto da Gesù in cammino verso Gerusalemme). Chi incontra il Cristo, chi si fida di lui, come il cieco Bartimeo, incontra la salvezza, viene cioè liberato dal suo male. Ma non basta incontrare il Cristo, occorre mettersi anche al suo seguito e condividere la sorte del Maestro che porta alla croce ma anche alla risurrezione.



Alla luce della seconda lettura, che parla di Gesù “sommo sacerdote”, che “è in grado di sentire giusta compassione” per la sofferenza e debolezza dell’uomo, la guarigione del cieco di Gerico assume le caratteristiche di un’opera di misericordia con la quale Gesù rivela l’amore misericordioso del Padre per noi. Da soli non riusciamo a vedere il cammino che conduce alla salvezza. Incontrare Cristo significa incontrare la luce che illumina il cammino che conduce alla salvezza attraverso i sentieri tortuosi della vita.




lunedì 22 ottobre 2018

San Giovanni da Capestrano (23 ottobre)





Giovanni è nato a Capestrano (vicino all’Aquila) nel 1386. Da giovane esercitò l’arte forense e si diede anche alla politica. Dopo una breve esperienza di prigionia, nel 1416 abbracciò l’ideale francescano. Fu un incessante predicatore in Terra Santa e in diverse parti di Europa. Animò la resistenza della città di Belgrado, assediata dai Turchi. Morì a Ilok (Austria) il 23 ottobre 1456. Nel Messale Romano 1962, la memoria del santo si celebra in una data arbitraria (28 marzo); nel Messale Romano 2002, è ricordato nel giorno della sua morte (23 ottobre).

Colletta del MR 1962:

Deus, qui beatum Ioannem fideles tuos in virtute sanctissimi nominis Iesu de Crucis inimicis triumphare fecisti: praesta, qaesumus; ut spiritualium hostium, eius intercessione, superatis insidiis, coronam iustitiae a te accipere mereamur.

“O Dio, che per mezzo di san Giovanni, in virtù del santissimo nome di Gesù, hai fatto trionfare i tuoi fedeli sui nemici della croce, concedi a noi che, superate per la sua intercessione le insidie dei nemici spirituali, meritiamo di ricevere da te la corona dei giusti”.

Colletta del MR 2002:

Deus, qui, ad populum fidelem in angustiis confortandum, beatum Ioannem suscitasti, praesta, quaesumus, ut nos in tua protectionis securitate constituas, et Ecclesiam tuam perpetua pace custodias.

“O Dio, che hai scelto san Giovanni da Capestrano per rincuorare il popolo cristiano nell’ora della prova, custodisci la tua Chiesa nella pace, e donale sempre il conforto della tua protezione”.
La colletta del MR 2002 non fa riferimento esplicito alla predicazione di Giovanni nella crociata vittoriosa contro i Turchi, come invece fa il MR 1962 quando parla dei “nemici della Croce”. Il Messale di Paolo VI ha recepito la dottrina della Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, dove si afferma, tra l’altro, che “la Chiesa guarda con stima anche i musulmani che adorano l’unico Dio…” (Nostra aetate, n. 3). Nella nuova colletta si chiede “che Dio custodisca la sua Chiesa nella pace…” Giovanni fu consigliere di papi che lo scelsero come legato in missioni varie di pace.

sabato 20 ottobre 2018

DOMENICA XXIX DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 21 Ottobre 2018




 


Is 53,10-11; Sal 32 (33); Eb 4,14-16; Mc 10,35-45



Nel brano evangelico odierno possiamo distinguere due momenti. Nel primo, vediamo gli apostoli e fratelli Giacomo e Giovanni che si avvicinano a Gesù per chiedergli l’onore dei primi posti accanto a lui nella gloria celeste. Notiamo che la richiesta degli apostoli segue immediatamente il terzo annuncio della passione, morte e risurrezione fatto da Gesù ai Dodici sulla strada per Gerusalemme (cf. Mc 10,32-34). Evidentemente gli interessi dei discepoli si muovono su un livello del tutto diverso da quello su cui si muove Gesù, totalmente proteso a fare la volontà del Padre. Nel secondo momento, troviamo la risposta di Gesù, il quale rifiuta le pretese dei discepoli e al tempo stesso propone un nuovo ordine di valori ai quali si deve attenere colui che intende seguirlo: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse […] Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore…”



E’ chiaro che qui ci troviamo di fronte a un insegnamento che è normativo per tutti coloro che intendono diventare discepoli di Gesù e, in particolare, per quelli che nella comunità dei discepoli hanno compiti direttivi. In questa comunità la condotta che deve vigere è diametralmente opposta a quella che si osserva nei vari regni o gruppi umani: se in questi da parte di coloro che esercitano il potere è tutto un pensare a dominare e a opprimere i sudditi, in quella la carica che alcuni hanno non deve assolutamente pesare sui sottomessi; tutt’altro, essa si deve risolvere nel servizio dei fratelli. La legge del servizio riguarda direttamente i capi della comunità, ma più in generale è una legge dell’intera comunità dei seguaci di Gesù. Il servizio di cui parla il Vangelo non è un espediente diplomatico; non indica un modo apparentemente dimesso, cortese di relazionarsi tra noi, ma la fattiva disponibilità di ciascuno di noi a lavorare per il bene dei fratelli fino a dare se necessario - ad esempio di Gesù - la propria vita per la loro salvezza. E’ il servizio reso dal Messia annunciato dal profeta Isaia (cf. la prima lettura), un uomo che “offre se stesso in sacrificio di riparazione” per gli altri. Ideale sublime incarnato da Cristo, il quale “non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. E quanto ci ricorda anche il brano della lettera agli Ebrei della seconda lettura: essendo stato Gesù “messo alla prova in ogni cosa come noi…”, è in grado di aiutare quanti ricorrono a lui con fiducia.



L’insegnamento di Gesù punisce la nostra ambizione, il nostro pensare incentrato sulla carriera, la nostra inconfessata brama di potere, la nostra ricerca di prestigio, il nostro vaneggiare di grandezza. I discepoli di Gesù siamo chiamati a porre nella società i germi concreti di uno stile di vita nuovo, di una generosità grande e piena. La prima testimonianza “politica” della Chiesa consiste nella sua strutturazione interna, nell’organizzazione delle sue strutture di autorità e nel modo di vivere l’autorità, che dev’essere conforme a quanto vissuto da Cristo e da lui richiesto ai discepoli.

domenica 14 ottobre 2018

ELOGIO DELLA LITURGIA IN LINGUA VOLGARE






La lettura del volumetto Elogio della Parola di Lamberto Maffei (Il Mulino 2018), mi ha suscitato questo breve elogio della “Liturgia in lingua volgare”.

Nel mondo moderno la globalizzazione e l’espandersi degli scambi commerciali sembra spingere ad adottare una lingua unica, che renda facile e più spedita la comunicazione tra popoli diversi. Questo processo, positivo nelle intenzioni e praticamente necessario, non è privo di grosse insidie, tra cui il pericolo della scomparsa o dell’impoverimento delle varie lingue e delle culture che le hanno accompagnate e che stanno alla base delle civiltà fiorite nelle diverse parti del mondo.

Rischiamo di essere uniti da una lingua di mercato, l’inglese globish, una lingua povera. Basta ricordare che l’Oxford Dictionary conta 615.000 termini, mentre l’inglese globalizzato si aggira sui 1.500.

Le lingue dei popoli non sono solo un mezzo di comunicazione, ma portano con sé una ricchezza culturale di tradizioni, di storia che implica un comportamento sociale, un insieme di valori nell’interpretazione del mondo, e sostanzialmente una maniera razionale ma anche emotiva di comportamento che caratterizza e distingue ogni singolo popolo. È dalla diversità che nasce la dialettica e da essa la creatività e il progresso.

Il latino ha dominato la cultura europea per ben 12 secoli e ha creato indubbi legami di pensiero e di comportamento tra i diversi popoli. La Chiesa occidentale ha un enorme patrimonio in lingua latina, in particolare gli scritti dei Padri e gli antichi libri liturgici nonché i documenti del magistero dei Concili e dei Papi. Ma anche qui possiamo dire che il latino, oltre a non essere più una lingua di comunicazione tra i popoli, è diventato nei documenti della Chiesa che ancora lo adoperano un latino povero, un linguaggio non più all’altezza dei tempi passati. Il latino “curiale” è non di rado un latino simile a quello maccheronico che ha lasciato tracce, non proprio gloriose, anche in alcuni nuovi testi latini del Missale Romanum.

Ecco quindi le lunghe premesse per giustificare l’elogio delle lingue volgari nella liturgia. I testi della tradizione latina possono arricchirsi attraverso la traduzione alle lingue volgari che in maniera progressiva potrebbero diventare lingue liturgiche, “splendenti non diversamente dal latino liturgico per l’eleganza dello stile e la gravità dei concetti al fine di alimentare la fede” (Papa Francesco, Motu proprio Magnum principium).  


venerdì 12 ottobre 2018

DOMENICA XXVIII DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 14 Ottobre 2018






Sap 7,7-11; Sal 89 (90); Eb 4,12-13; Mc 10,17-30

La prima lettura è un invito a formarsi la giusta scala dei valori. Il testo parla di ricchezza, onore, potere, salute, bellezza, tutte cose in sé positive e quindi appetibili. Tuttavia tutte queste realtà non sono capaci di appagare la nostra sete di felicità, perché il loro valore rimane essenzialmente limitato e appunto per questo, non di rado, a chi le possiede lasciano il cuore vuoto. Ecco quindi che la parola di Dio ci esorta a colmare il vuoto del nostro cuore con un bene che non tramonta, “lo spirito della sapienza”, l’unica vera ricchezza. Colui che cerca instancabilmente questa sapienza senza lasciarsi incantare da altre bellezze è un uomo veramente saggio. Colui che incontra la sapienza, la conosce e ne fa il centro della propria vita sarà felice, perché con essa vengono tutti gli altri beni.



Ma cos’è questa sapienza di cui parla la prima lettura? La risposta la troviamo nel brano evangelico d’oggi. La vera sapienza consiste nell’accogliere la chiamata di Gesù e seguirlo collocando in lui ogni nostra speranza. L’uomo che si avvicina a Gesù viene presentato come un giusto osservante dei comandamenti di Dio e, al tempo stesso, molto ricco. Si tratta apparentemente quindi di un uomo a cui non manca nulla per essere felice. Ciò nonostante, quest’uomo sente il bisogno di qualcosa di più per assicurarsi la vera felicità, la vita eterna. Ecco perché si rivolge a Gesù in cerca di un consiglio: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. Alla risposta di Gesù che gli chiede di donare i suoi beni ai poveri e seguirlo, il nostro uomo non ha la forza di rinunciare alle ricchezze e preferisce la sicurezza di queste ad una vita totalmente donata a Cristo. Il saggio invece è colui che dinanzi a questo dilemma, sceglie Cristo. Naturalmente, non tutti sono chiamati a fare un gesto così radicale, ma tutti siamo chiamati, quando ciò sia necessario per la nostra salvezza, a posporre i beni terreni ai valori del Vangelo o, in altre parole, tutti siamo chiamati ad acquisire quella sapienza, alla luce della quale siamo in grado di valutare le cose terrene ed eterne diventando interiormente liberi e quindi aperti ai valori del regno di Dio. Nella sobrietà di quei beni che il Vangelo chiama ricchezze si trova la possibilità di altri beni ben più importanti.



Nell’ascolto assiduo della parola di Dio, ognuno di noi è chiamato a dare le sue risposte. La parola di Dio infatti non è semplice cronaca, ma è voce di Dio che ci interpella e ci sollecita ad una concreta risposta. Come ci ricorda la seconda lettura, “la parola di Dio è viva, efficace […]; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito […] e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore”. Sperimentare l’efficacia della parola di Dio significa aprire la propria vita ad un vero incontro con il Signore. Lasciamoci interpellare da questa parola. Non permettiamo che le loro sollecitazioni vadano a vuoto.


domenica 7 ottobre 2018

LA LITURGIA SINTESI DI “OPPOSIZIONI POLARI”




A partire dagli anni ’90, la ricerca di una liturgia più spirituale e meglio rispettosa del primato di Dio ha assunto la forma di un vero e proprio movimento controcorrente di “riforma della riforma”, che non ha temuto di individuare nel recupero della tradizione rituale tridentina una via praticabile per riportare la liturgia rinnovata del Concilio alla sua sorgente divina, ritrovando alcuni valori fondamentali come quelli dell’orientazione, dell’adorazione, del senso del sacro. I pericoli di questa posizione sono gli opposti a quelli della fase precedente: se prima il pericolo era quello di non onorare la dimensione divina della liturgia (una liturgia troppo umana, che non alza il sipario sul Mistero di Dio), ora il pericolo è quello di non rispettarne l’umanità profonda. Là dove, per rivolgersi a Dio, la liturgia volge le spalle al mondo, il rischio è quello di un Mistero divenuto estraneo alla vita; di una liturgia a tal punto concentrata sul primato dell’azione di Dio da dimenticare che il Mistero di Dio è rivelazione di una azione divina che si compie “per l’uomo”; un mistero pasquale di amore, perdono, vita donata per gli uomini e le donne che vivono in un dato tempo e in una determinata cultura. Si comprende perciò la delicatezza del linguaggio liturgico, chiamato a rivolgere lo sguardo a Dio senza volgere le spalle al mondo.

Ed eccoci, finalmente, a papa Francesco, in una ideale quarta tappa di una riforma liturgica tutt’ora impegnata in un cammino di affinamento e approfondimento. Pur non entrando di petto nella questione liturgica, egli suggerisce in Evangelii gaudium (EG) la strada di una liturgia non “mondana”, vale a dire non ripiegata su di sé, in una vera cura ostentata dell’apparenza (EG 95); di una liturgia “materna”, attenta alla cultura del popolo (EG 139-140); di una liturgia “fraterna”, disponibile all’abbraccio di una fraternità mistica (EG 92).

È evidente a tutti l’ingenuità di qualsiasi opposizione tra la liturgia i papa Francesco e la liturgia di Benedetto XVI, quasi si trattasse di due modelli differenti di liturgia: da una parte una liturgia dell’adattamento alle culture dei popoli, dall’altra una liturgia dell’orientamento all’unico protagonista; da una parte una liturgia della partecipazione attiva del popolo di Dio, dall’altra una liturgia dell’adorazione interiore dell’anima individuale; da una parte una liturgia umana, evangelica, vicina alla vita; dall’altra una liturgia divina, “sacra”, non mondana; sul fronte di EG, una liturgia delle assemblee locali, disponibile alle traduzioni necessarie; sul fronte di Liturgiam Authenticam, una liturgia della Chiesa universale, vigilante su ogni pericolo di possibile “tradimento” da parte della traduzione.

Tale contrapposizione non renderebbe giustizia alla natura della liturgia, che è sintesi di “opposizioni polari”, per riprendere il linguaggio di Romano Guardini. La sfida che attende la presente stagione della riforma liturgica è quella di comporre tali polarità nell’unità simbolica dell’azione liturgica. 





Fonte: Paolo Tomatis, Celebrare: il linguaggio per comunicare il mistero, in Una liturgia viva per una Chiesa viva. I 70 anni del CAL (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae” – Sectio pastoralis 38), CLV Edizioni Liturgiche, Roma 2018, p. 74-75.

venerdì 5 ottobre 2018

DOMENICA XXVII DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 7 Ottobre 2018






Gen 2,18-24; Sal 127 (128); Eb 2,9-11; Mc 10,2-16


E’ evidente che il tema delle letture bibliche odierne è quello dell’amore fedele come fondamento del matrimonio. Ma il testo del versetto del canto al vangelo sembra che allarghi in qualche modo la visuale quando propone come criterio di lettura del brano evangelico le parole di 1Gv 4,12: “Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi, e l’amore di lui è perfetto in noi”. L’amore fedele quindi non è solo fondamento della vita matrimoniale ma è anche principio di armonia tra i figli di Dio.

La prima lettura riporta il brano del libro della Genesi dove si narra la creazione della donna. Le immagini usate dal racconto mettono in risalto l’uguaglianza in dignità tra l’uomo e la donna. Inoltre il testo presenta l’incontro di amore tra l’uomo e la donna come una realtà che rientra pienamente nel disegno voluto da Dio. Il brano evangelico ci tramanda alcune affermazioni di Gesù sul matrimonio in risposta ad una domanda fattagli dai farisei. La domanda verte su se sia lecito o meno ad un marito ripudiare la propria moglie. Come evidenzia il testo, tale possibilità era prevista dalla legge di Mosè. Gesù, superando i termini angusti in cui viene posto il problema, va alla radice della questione ed afferma che questa norma era stata scritta “per la durezza del vostro cuore”, e colloca poi il rapporto uomo-donna nella visione originaria di Dio in cui un tale ripudio non era contemplato. Rientrati poi a casa, Gesù risponde ad una nuova interrogazione su questo argomento fatta questa volta dai discepoli riaffermando la natura indissolubile dell’amore matrimoniale e la pari dignità che in esso hanno l’uomo e la donna. Per capire meglio le parole di Gesù, è utile che ci soffermiamo sull’espressione: “Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma…”  Cosa intende affermare Gesù? 

L’immagine del “cuore indurito” richiama la denuncia profetica contro l’atteggiamento degli israeliti che non erano in grado di cogliere il senso dell’azione e della parola di Dio. I profeti però al tempo stesso che fanno questa denuncia, promettono - almeno dopo l’esilio - che Dio farà loro dono di un cuore nuovo. Così, ad esempio, è conosciuto il testo di Ezechiele che parla del dono che Dio farà di un cuore di carne in sostituzione del cuore di pietra affinché i figli d’Israele siano capaci di pulsare in sintonia con il progetto di Dio. Queste promesse si realizzano pienamente in Gesù Cristo. In lui siamo stati santificati (cf. seconda lettura). In lui possiamo quindi essere liberati dalla durezza del nostro cuore e comprendere e vivere le esigenze di Dio. L’amore umano è fragile, minacciato continuamente dalla debolezza. Ma l’uomo che apre il suo cuore a Dio riceve la forza per portare a compimento il progetto divino. Per i discepoli di Gesù, “sposarsi nel Signore” significa lasciarsi condurre dallo Spirito ed accettare una possibilità inedita, che Dio rende possibile con la sua grazia.