Pubblicato il 28 ottobre 2018 nel
blog: Come
se non
L’ampio Documento finale, che
chiude questa fase sinodale, si presenta ovviamente come una grande sintesi dei
lavori, scandita da una cadenza in tre parti, modellate sull’episodio
evangelico dei “due di Emmaus”. Vorrei qui esaminarne il contenuto
limitatamente a due temi, non così centrali, ma assai significativi. Mi sembra
che, all’esame di due argomenti così diversi - come quello della
“liturgia” e quello della “donna” – emergano dal testo alcune obiettive
tensioni, che si aprono tra il momento dell’ascolto e il momento della “ripresa
finale”. L’ascolto invoca una assunzione di responsabilità e di autorità, che
la ripresa sembra da un lato confermare e dall’altro escludere. Vorrei
suffragare questa impressione con alcuni dati testuali, e lo farò riferendomi
ai due temi su cui mi sento di poter fare qualche osservazione meno
improvvisata.
1.Giovani,
liturgia e senso del mistero
Dedicati alla
liturgia troviamo, oltre ad altri fuggevoli riferimenti, due numeri: il 51 e il
134. Il primo è nella “prima parte”, dedicata all’ascolto; mentre il secondo è
nella “terza parte”. Colpisce molto che il primo numero sia sostanzialmente
lineare e ben strutturato, mentre il secondo appare contorto, faticoso e
attraversato da tensioni irrisolte.
Il n. 51 (dal titolo Il
desiderio di una liturgia viva) esordisce con la affermazione di una
domanda di “liturgia fresca, autentica e gioiosa” che viene dai giovani, e che
è domanda sia di preghiera sia di sacramenti – confermando indirettamente una
certa fatica, forse non solo dei giovani, a concepire il sacramento anche come
preghiera. E si sottolineano tre diversi atteggiamenti nei giovani circa la
liturgia. Da un lato vi è chi riconosce in essa una mediazione fondamentale
della propria identità di fede. Vi è chi invece vede la messa domenicale “più
come precetto morale che come felice incontro con il Signore Risorto e con la
comunità”. Infine si dice, in generale, che la iniziazione ai sacramenti fa fatica
ad introdurre in profondità, “ad entrare nella ricchezza misterica dei suoi
simboli e dei suoi riti”.
Come risponde il n. 134 a
queste belle provocazioni? Con parole che sono certamente il frutto di un
comprensibile compromesso, ma che restano largamente al di sotto del tenore
delle domande. Sotto il titolo La centralità della liturgia (ed è
curioso che si usi “centro” e non “culmine e fonte”) si riprende il ruolo
della celebrazione eucaristica in rapporto alla fede e alla Chiesa, si
ribadisce l’importanza di celebrazioni belle e di nobile semplicità, si
sostiene la valorizzazione della ministerialità, ma quando si arriva agli
auspici, il testo appare confuso e senza orientamento. Vi si dicono tre cose:
- la partecipazione attiva sia
favorita, “ma tenendo vivo lo stupore per il Mistero”. Qui vi è una netta
involuzione rispetto al n. 51. L’ascolto sembra più chiaro della risposta.
Quando mai lo stupore per il Mistero è diverso dalla partecipazione attiva?
Forse che il Sinodo, con tutta la sua autorità, si è limitato ad utilizzare un
concetto meramente funzionale di “actuosa participatio” e non quello inteso da
Sacrosanctum Concilium? Se per il Concilio Vaticano II la “partecipazione
attiva” è la via “misterica” per avere intelligenza dell’eucaristia, possono
forse i nostri Vescovi consigliare ai giovani di “coltivare la partecipazione,
ma anche il Mistero”? Qui si introduce una confusione piuttosto grave, quando
invece il n. 51 parlava in modo molto pertinente ed elegante di “ricchezza
misterica dei suoi simboli e dei suoi riti”. Là si teneva giustamente insieme
quello che qui tende ad essere opposto.
- Avendo introdotto questa
cesura tra “mistero” e “partecipazione”, ne risulta per conseguenza che arte e
musica non debbano essere “per sé”, ma siano parte delle “azioni di Cristo e
della Chiesa”. Anche qui, senza poter negare le possibili cadute
autoreferenziali del musicale e dell’artistico, occorreva dire meglio, e con
maggiore coraggio, che il “mistero” non è solo “altro” dalla musica e
dall’arte, ma che queste ne sono “mediazione originaria”. Altrimenti sarà
ancora facile accedere al mistero di Cristo e della Chiesa indipendentemente da
musica e arte…
- Infine, come ultima
conseguenza di questa “spaccatura” introdotta dalla risposta, ma assente nella
domanda, era inevitabile che si arrivasse a questo: se si disgiunge il Mistero
dalla partecipazione attiva, si può trovare altamente raccomandabile investire
con i giovani sulla “adorazione eucaristica”, che assume, in questo modo di
pensare la liturgia, una funzione addirittura prioritaria, come sintonia
immediata, contemplativa e silenziosa con il Mistero, essendo questo distinto
fin dall’inizio dalla partecipazione attiva. Qui, a mio avviso, le risposte
episcopali appaiono restare piuttosto al di sotto delle domande dei giovani.
Questo deve essere considerato, in qualche modo, un risultato molto
significativo del Sinodo.
2.
La donna: per giustizia, ma con rispetto
Veniamo alla donna. Anche in
questo caso, se leggo bene, mi sembra che i riferimenti della prima e della
terza parte siano vistosamente diversi. I numeri che affrontano la questione
femminile sono il n. 13, il n. 55 e il n.148. Anche in questo caso i primi due
numeri appaiono ben congeniati e assai omogenei, mentre il terzo è attraversato
da una tensione assai forte, quasi come se non riuscisse a gestire a proprio
agio la domanda scaturita dall’ascolto. Li presento per ordine.
Il n. 13,
intitolato Uomini e donne (che viene significativamente dopo il n. 12 che
ha il titolo Esclusione ed emarginazione) usa toni forti e recisi. Inizia dalla
“differenza tra uomo e donna”, che può generare “forme di dominio, esclusione e
discriminazione da cui tutte le società e la Chiesa stessa hanno bisogno di
liberarsi”. L’uguaglianza di uomo e donna davanti a Dio fa sì che “ogni
dominazione e discriminazione basata sul sesso offende la dignità umana”. La
differenza tra uomo e donna è “irriducibile a stereotipi”.
Il n. 55 si intitola Le
donne nella Chiesa e presenta le aspettative dei giovani: anzitutto occorre
“riconoscimento e valorizzazione delle donne nella società e nella Chiesa”. Si
costata la fatica ad attribuire autorità a donne, a dar loro spazio nei
processi decisionali. La assenza di voce e di sguardo da parte delle donne
impoverisce il dibattito e il cammino della Chiesa. E in numero si chiude con
queste parole: “Il Sinodo raccomanda di rendere tutti più consapevoli
dell’urgenza di un ineludibile cambiamento, anche a partire da una riflessione
antropologica e teologica sulla reciprocità tra uomini e donne”.
Infine, il testo del n. 134,
dal titolo Le donne nella Chiesa sinodale. Si inizia da un paragone
forzato: la Chiesa sinodale “non potrà fare a meno” (una circonlocuzione per
non dire “deve”) di riflettere su condizione e ruolo della donna “al
proprio interno e di conseguenza anche nella società”. Curiosa inversione del
“segno dei tempi” di Giovanni XXIII in Pacem in terris, dove è la società a
mostrare alla Chiesa una novità inaggirabile. Tuttavia questo limite di
approccio non impedisce di riconoscere apertamente la necessità di una
“coraggiosa conversione culturale e di cambiamento nella pratica pastorale
quotidiana”. Ciò implica un doveroso coinvolgimento della donna negli organi
istituzionali, anche con funzioni di direzione, e quindi anche nei processi
decisionali, ma con una delimitazione che viene precisata in modo molto netto,
dicendo “nel rispetto del ruolo del ministero ordinato”. Sorge naturale
una serie di questioni brucianti: Può il “rispetto per la donna” essere
compatibile con questo “rispetto del ministero ordinato”? Se “rispetto” implica
una strutturale esteriorità della donna al ministero ordinato, dove sta il
coraggio di una “conversione pastorale”? A chi delegano i Vescovi
l’”ineludibile cambiamento”? Si può invocare il “coraggio” per garantire che
tutto resti esattamente come prima? Quale ruolo viene riconosciuto al
discernimento antropologico e teologico sulla reciprocità tra maschile e
femminile invocato al n. 55?
Il testo si chiude con una
importante sottolineatura del “dovere di giustizia” che la Chiesa deve
riconoscere alle donne, sia sulla base della prassi di Gesù verso le donne, sia
sulla base di figure femminili autorevoli del testo biblico, della storia della
salvezza e della storia della Chiesa.
3.
Un sinodo che si spoglia della autorità?
Il Sinodo, nel suo Documento
finale, sembra lavorare su una ipotesi di “non autoreferenzialità” piuttosto
originale. Si spoglia di autorità e la rimanda, direttamente, sotto di sé e
sopra di sé. Da un lato sembra “mettere in bocca ai giovani” una serie di
istanze che diventano obiettive priorità ecclesiali. D’altra parte rimanda ad
altre istanze (superiori? posteriori? escatologiche?) una parola autorevole che
assuma la novità in modo progettuale e che esca dall’imbarazzante “elenco di
buoni propositi”.
Come ho cercato di far notare
– con tutto il beneficio dell’inventario di una lettura inevitabilmente rapida
ed acerba – su questi due temi per certi versi agli antipodi – come il
classicissimo tema liturgico e il nuovissimo tema della “donna nella Chiesa” –
il procedimento appare simile: da un lato un ascolto franco e diretto delle
questioni, che ne permette una preziosa documentazione ufficiale; ma poi una
elaborazione stanca, farraginosa, ingolfata delle questioni, che non approda,
di per sé, ad alcun progetto, se non alla conferma di quel che c’è e
all’auspicio, chiaro ma assolutamente non determinato, verso una prospettiva
diversa. In conclusione mi chiedo: la “non autoreferenzialità” può essere
soltanto “puro rimando ad altro”?
Forse su altri temi si
leggeranno testi molto più chiari e più decisi. Ma l’impressione è che, molto
più di quanto è accaduto tre anni fa nel Sinodo sulla famiglia, ogni spazio di
reale determinazione sia stato affidato, contemporaneamente, al popolo di Dio
(giovane e meno giovane che sia) e al Vescovo di Roma (che sa bene di dover
restare giovane ex officio).