Se la vita del
sacerdote si presenta come un officium, se l’officium istituisce una
soglia di indifferenza fra la vita e la norma e fra l’essere e la prassi, nello
stesso tempo la Chiesa afferma con decisione quella netta distinzione fra vita
e liturgia, fra individuo e funzione che culminerà nella dottrina dell’opus
operatum e dell’effettualità sacramentale dell’opus Dei. Non
soltanto la prassi sacramentale del sacerdote è valida ed efficace ex opere
operato indipendentemente dall’indegnità della sua vita, ma, com’è
implicito nella dottrina del charater endelebile, il sacerdote indegno
resta sacerdote malgrado la sua indegnità.
A una vita che riceve
il suo senso e il suo rango dall’officio, il monachesimo oppone l’idea di un officium
che ha senso solo se diventa vita. Alla liturgizzazione della vita,
corrisponde qui un’integrale vivificazione della liturgia. Il monaco è, in
questo senso, un essere che è definito soltanto dalla sua forma di vita,
cosicché al limite, l’idea di un monaco indegno, sembra implicare una
contraddizione in termini.
Se la condizione
monastica si definisce pertanto attraverso la sua differenza specifica rispetto
all’ufficio sacerdotale (cioè a una prassi la cui efficacia è indipendente
della forma di vita), è chiaro allora che è proprio nell’articolarsi della
dialettica fra queste due figure della relazione vita-officium che
dovranno decidersi le sorti storiche del monachesimo. Allo sfumare della
differenza corrisponderà la progressiva clericalizzazione dei monaci e la loro
crescente integrazione nella Chiesa, mentre al suo accentuarsi corrisponderanno
tensioni e conflitti tra gli ordini e la curia.
L’esplosione dei
movimenti religiosi fra il XII e il XIII secolo è il momento in cui queste
tensioni raggiungono il loro punto critico. E’ significativo che sia proprio il
principio della separazione dell’opus operans e opus operatum che
i movimenti intendono innanzitutto mettere in discussione. Così ciò che i
valdesi obiettano alla Chiesa non è soltanto l’inefficacia dei sacramenti
amministrati da un sacerdote indegno, ma ancora più radicalmente, che il
principio secondo cui il diritto di legare e di sciogliere, di consacrare e
benedire e di amministrare i sacramenti non deriva dall’ordo e dall’officium,
ma dal merito, e cioè, una questione non di diritto e di successione
gerarchica, ma di imitazione della vita apostolica.
[…] Grundmann ricorda
che è proprio per far fronte a queste eresie che Innocenzo III chiama in causa
il principio della distinzione fra opus operans e opus operatum (cfr.
De sacrificii altaris mysterio, PL 217,844).
Fonte: Giorgio Agamben,
Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita, Neri Pozza
Editore, Vicenza 2011, 143-146.