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domenica 6 marzo 2022

“OPUS OPERANTIS” e “OPUS OPERATUM”

 



Se la vita del sacerdote si presenta come un officium, se l’officium istituisce una soglia di indifferenza fra la vita e la norma e fra l’essere e la prassi, nello stesso tempo la Chiesa afferma con decisione quella netta distinzione fra vita e liturgia, fra individuo e funzione che culminerà nella dottrina dell’opus operatum e dell’effettualità sacramentale dell’opus Dei. Non soltanto la prassi sacramentale del sacerdote è valida ed efficace ex opere operato indipendentemente dall’indegnità della sua vita, ma, com’è implicito nella dottrina del charater endelebile, il sacerdote indegno resta sacerdote malgrado la sua indegnità.

A una vita che riceve il suo senso e il suo rango dall’officio, il monachesimo oppone l’idea di un officium che ha senso solo se diventa vita. Alla liturgizzazione della vita, corrisponde qui un’integrale vivificazione della liturgia. Il monaco è, in questo senso, un essere che è definito soltanto dalla sua forma di vita, cosicché al limite, l’idea di un monaco indegno, sembra implicare una contraddizione in termini.

Se la condizione monastica si definisce pertanto attraverso la sua differenza specifica rispetto all’ufficio sacerdotale (cioè a una prassi la cui efficacia è indipendente della forma di vita), è chiaro allora che è proprio nell’articolarsi della dialettica fra queste due figure della relazione vita-officium che dovranno decidersi le sorti storiche del monachesimo. Allo sfumare della differenza corrisponderà la progressiva clericalizzazione dei monaci e la loro crescente integrazione nella Chiesa, mentre al suo accentuarsi corrisponderanno tensioni e conflitti tra gli ordini e la curia.

L’esplosione dei movimenti religiosi fra il XII e il XIII secolo è il momento in cui queste tensioni raggiungono il loro punto critico. E’ significativo che sia proprio il principio della separazione dell’opus operans e opus operatum che i movimenti intendono innanzitutto mettere in discussione. Così ciò che i valdesi obiettano alla Chiesa non è soltanto l’inefficacia dei sacramenti amministrati da un sacerdote indegno, ma ancora più radicalmente, che il principio secondo cui il diritto di legare e di sciogliere, di consacrare e benedire e di amministrare i sacramenti non deriva dall’ordo e dall’officium, ma dal merito, e cioè, una questione non di diritto e di successione gerarchica, ma di imitazione della vita apostolica.

[…] Grundmann ricorda che è proprio per far fronte a queste eresie che Innocenzo III chiama in causa il principio della distinzione fra opus operans e opus operatum (cfr. De sacrificii altaris mysterio, PL 217,844).

Fonte: Giorgio Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita, Neri Pozza Editore, Vicenza 2011, 143-146.