Pubblicato
il 18 dicembre 2021 nel blog: Come se non
Il documento Responsa ad dubia della Congregazione per il Culto Divino
e la Disciplina dei Sacramenti su alcune disposizioni della Lettera Apostolica
in forma di «Motu Proprio» Traditionis Custodes del Sommo Pontefice Francesco aiuta
a comprendere meglio la questione di fondo che il MP “Traditiones custodes” ha
risolto 5 mesi fa e che fatica ad essere compresa in quella regione ecclesiale
che, a partire dal 2007, era stata illusa sulla possibilità di valorizzare una
“indifferenza istituzionale” verso la Riforma Liturgica. Il “vulnus” di quella
intemperanza istituzionale oggi crea ancora vittime. Un breve sguardo al
recente documento è in grado di farci capire dove si collochi il problema
fondamentale.
Domande e risposte
Il documento non è altro che un insieme di “dubia” (ben 11) , ai quali
viene dato un “responsum” quasi sempre con una “nota esplicativa” che precisa i
motivi per i quali è prevalso il sì o il no nella risposta. Da notare è che,
prima dei responsa, vi è un testo piuttosto articolato, a firma del Prefetto
Roche, che chiarisce come la “mens” del MP Traditionis custodes sia quella di
ristabilire il percorso normale di riforma liturgica, così come viene
riascoltato sia dalle parole di papa Paolo VI a chiusura della II sessione del
Concilio, sia nei termini della “irreversibilità” ripresa recentemente da papa
Francesco. I temi fondamentali su cui vertono le questioni sono il modo di
interpretare le competenze episcopali – che TC ha restituito ai Vescovi – o
quali siano i libri, i soggetti e i luoghi coinvolti nella celebrazione del
Rito pre-conciliare. Mi pare che le risposte siano fondate sulla logica della
riforma liturgica e sul buon senso.
Da dove vengono i “dubia”?
Credo che sia utile, oltre che considerare la importanza delle risposte,
sofferemarsi sulle domande sollevate. Ed è molto importante chiedersi: da dove
scaturiscono questi interrogativi? Chi li ha sentiti sorgere nel proprio cuore
e nella propria mente? La risposta è molto semplice: vengono da tutti coloro
che, in modo inavvertito e superficiale, talora in modo ideologico e
superficiale, avevano potuto credere che “Summorum Pontificum” istituisse
ufficialmente la “non irreversibilità del Concilio Vaticano II”. E che quindi
tutto quello che dal 1963 era diventato sempre più autorevole, aveva scritto
pagine di storia, istituito forme rituali, ripensato le vite e convertito i
cuori, potesse essere guardato con una alzata di spalle, come una
“possibilità”, ma non come una necessità. Così, in 14 anni di “pratiche
parallele”, una serie di uomini e donne, di preti e di vescovi, di abati e di
monaci, di religiose e di religiose, si sono lasciati affascinare da questo
“mito”. Il mito della “reversibilità” del Concilio Vaticano II, il mito del
parallelismo rituale, il mito della “devianza conciliare”, il mito non solo
della “messa di sempre”, ma della liturgia immobile e della tradizione
monumentale.
Quando salta il “dispositivo di blocco”
Ma c’è di più. La questione non riguarda né solo né soprattutto la
liturgia. E’ il Concilio Vaticano II in quanto tale ad essere in gioco. Come è
stata proprio la liturgia il primo livello su cui il Concilio ha avuto la forza
di una “riforma”, un sogno coltivato a partire dagli anni 80, e durato quasi 35
anni, ha preso forma nel fermare la riforma liturgica, per svuotare il Concilio
di ogni autorità. Le forme della comunione, l’esercizio del ministero, il ruolo
dei laici e delle donne, la relazione tra centro e periferia, le scelte nella
traduzione delle parole e dei gesti: tutto ha potuto essere pensato come
“assolutamente immodificabile”. Questo è accaduto, in modo simbolico, proprio
nella liturgia, nelle sue forme da tradurre e da inculturare, e che sono
apparse per 30 anni, custodite solo dal passato e non dal futuro. Un vero e
proprio “dispositivo di blocco” si era andato perfezionando sul piano
liturgico: e alla vigilia di questo grande passo – che non è altro che un
ritornare sulla grande strada del Concilio – non avevamo visto una grande
Congregazione pubblicare una versione puntigliosamente “riformata” del rito che
si pretendeva “irreformabile”?
Il gioco degli specchi e la tradizione che viene dal futuro
Il giochino, che fanno spesso anche i bambini, è questo: chi porta la
guerra fa la vittima e chi cerca la pace è dipinto come guerrafondaio. Non
bastano le dichiarazioni e le intenzioni, per dire che Summorum
Pontificum era un documento di pace. Io mi sono convinto, fin dal
2007, che eravamo di fronte ad un pesante attacco non alla liturgia, ma al
Concilio. Oggi, nel mito dei “dubbiosi”, quel testo sembra il “paradiso
perduto” della pace nella Chiesa. Nulla di più falso. Così come è falso pensare
che queste equilibrate risposte ai dubbi siano “intolleranti” o “pesanti” o che
“infieriscano” sui deboli. Riportano semplicemente le cose alla ragione.
Purtroppo questo oggi è più difficile perché moltissimi di coloro che dal 2007
avrebbero potuto scrivere, parlare, testimoniare, obiettare si sono adagiati in
un barile, sotto sale, come piccoli pesci. Per la dignità del ministero
pastorale e teologico non è il massimo, anche se garantisce la conservazione
(di sé). La voce alta dei dubbiosi oggi ottiene risposte pacate e serie, che
rischiano di essere fraintese proprio a causa della ambiguità con cui molti
prima hanno o taciuto o parlato solo per enigmi. La tradizione migliore ci
attende nel futuro: nell’unico rito comune, che ora, doverosamente, TC ha
ricollocato al centro, per tutti, possiamo fare entrare il meglio sia dei dubbi
più accorati, sia delle risposte meglio fondate.