Il
segno, il simbolo, non è solo una via di comunicazione o, prima ancora, un
momento o una componente dell’atto conoscitivo; è molto di più, è un
nutrimento. Gli uomini mangiano simboli, si nutrono di simboli. Se noi
guardiamo attorno a noi, nelle cose e nei gesti circostanti, vediamo che le
cose che non hanno valore di segno, che non sono insieme cose e simboli, sono
cose che non significano nulla; sono chiuse nella loro identità di cose; non
sono tramite, non conversano. E cose come queste, se ci sono, non entrano nella
nostra vita, non ci alimentano.
Gli
uomini mangiano simboli. C’è chi è portato a pensare che i segni eucaristici
risultino da una scelta sostanzialmente arbitraria: un arbitrio garantito dal
Mistero, ma del tutto convenzionale. Invece, il simbolo che si lascia mangiare
è un fatto di tutti i giorni. C’è chi ha ingurgitato anche troppi simboli in vita,
a differenza di altri che hanno patito di fame. Il discorso sul “verbalismo” si
riduce appunto a questo.
Esiste
di fatto – ed è così vicino a noi da essere più o meno identico a noi – un personaggio
che fa per mestiere il “verificatore di simboli”. Oltre l’atto di parlare, non
ha altro: assorbe il simbolo e lascia in disparte la cosa. Anche un
cristiano che ha una vita spirituale esteriormente intensa può risultare vuoto
di cose e ubriaco di simboli; può accadere perfino che si venga via via
svuotando in lui, a ogni nuovo sorger di sole, quel simbolo infinitamente colmo
che è la Messa. La quale può ridursi a recita (per un sacerdote) o a spettacolo
(per un laico), cioè a vita nel simbolo: la cosa, che è Dio medesimo, si allontana
di volta in volta, sublimata in simboli.
I
simboli sono un cibo necessario, ma rischioso. Ufficialmente i segni
significativi, senza le cose significate, sono nutrimento per esteti, per tutto
il sottopopolo delle culture preraffaellita, parnassiana e dannunziana; in
effetti sono il cibo quotidiano di chi dà per fare le cose di cui possiede i
segni espressivi.
Ma
gli uomini mangiano soltanto simboli. L’eros
è un simbolo dell’appropriazione, della ricapitolazione, della divinità dell’io
empirico, del dono di sé. Segni contrastanti, immediatamente contraddittori,
perché le medesime cose, i medesimi gesti, le medesime ragioni possono essere
assunte nel modo più diverso. La conversazione è un simbolo della solitudine di
chi parla, della sua soddisfatta e loquace presenza in mezzo agli uomini (“agli
altri ed a se stesso amico), della compassione di sé, del rimorso. Andare a
caccia è un simbolo: di noia provinciale, di virilità, di continuità ancestrale,
di possesso o di conquista.
Comunicarsi
sacramentalmente è anche un simbolo dell’amore in Cristo per il comunicante, un
amore accettato o sbeffeggiato a seconda che ci si comunichi in grazia di Dio o
con intento sacrilego. Perfino chi uccide cerca un simbolo di liberazione, di
invasione, di affermazione della propria mortalità e della propria salvezza.
Non
c’è atto umano che non sia simbolo: perché l’uomo, ogni volta che si impegna,
perciò stesso si esprime, si pronuncia, comunica se stesso ad altri (anche se
poi questo altro è, in modo aberrante, solo egli stesso, replicato al di fuori
di sé, trasferito in un altro da sé e poi riconosciuto e verificato in questo
processo di alienazione).
Non
c’è atto umano che non sia discorso, e quindi alimento per simboli. Non c’è
atto umano che passi per cose che non sono simboli. Può passare per simboli
lontani e distratti dalle cose, per simboli che si danno come equivalenti delle
cose a cui si sostituiscono; ma per cose che non sono simboli, questo no.
Fonte:
Saverio Corradino, L’uomo e la parola: la
tentazione del verbalismo, in “La Civiltà Cattolica”, n. 4019 (2/16
dicembre 2017), pp. 455-456.