Ci si può sentire soli anche
immersi in una grande folla, e non ci si può sentire soli nel deserto,
se l’isolamento, in cui ci troviamo, è riscattato e redento dalla apertura a
noi stessi e agli altri, siano o non siano presenti, e a Dio. Le cose sembrano
semplici: non siamo soli quando siamo in compagnia di altri, e siamo soli
quando non c’è nessuno accanto a noi; ma non è così. La solitudine ci consente
di ascoltare l’infinito, che è un andare al di là dei confini del nostro io, e
un sentire la precarietà e la inconsistenza, la finitudine, delle cose
terrestri. Ma ascoltare l’infinito in noi è possibile solo quando non ci
lasciamo affascinare e divorare dal tumulto e dal frastuono, non solo delle
cose che sono al difuori di noi, ma anche, e soprattutto, da quelle che si
agitano in noi, nella nostra vita interiore, così fragile e così impalpabile, così
nascosta e così friabile, così sensibile e così inafferrabile.
Come salvare la solitudine, e
aprirsi all’infinito che è in noi, quando viviamo assediati dalle televisioni
sempre accese, e dal parlare senza fine, ad alta voce, dai telefoni cellulari,
che nel loro nome sembrano indicare le prigioni in cui ci troviamo reclusi?
Certo, se è facile mantenere viva la fiaccola della solitudine in montagna, al
mare, o in un monastero, non lo è nel mondo di oggi, in cui la solitudine è
ferita da mille cose, e il raccoglimento è lacerato dalla fretta e dalla
indifferenza di persone, che non si salutano, anche se vivono in case le une
vicine alle altre.
(Eugenio Borgna, In dialogo
con la solitudine, Einaudi, Torno 2021, 39-40)