“Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo
dava ai suoi discepoli, disse: Prendete e mangiate: questo è i mio sôma”
(Mt 26,26). Sulla scia di questa frase di Cristo ripetuta ogni volta dal
sacerdote nella celebrazione eucaristica, proponiamo proprio quella parola
greca che indica il “corpo” e che risuona 142 volte nel Nuovo Testamento. È evidente
che nelle parole pronunciate da Gesù nel Cenacolo in quest’ultima sera della
sua vita terrena, sôma à la sua stessa persona che si dona in un
abbraccio di comunione col suo fedele attraverso il segno del pane e del vino.
Ora, a differenza della cultura greco classica – che pone una netta
divisione e distinzione tra l’anima spirituale e il corpo materiale, simili a
due poli che si respingono pur essendo forzosamente costretti a coesistere – la
Bibbia considera l’essere umano come un’unità ove carne, vita, spirito,
coscienza sono tra loro compatti. Per i semiti, infatti, noi siamo un
corpo perché è in esso e con esso che viviamo e comunichiamo, mentre noi
occidentali abbiamo un corpo che controlliamo, detestiamo oppure
idolatriamo. In questa luce è comprensibile come sia rilevante la corporeità
nelle pagine della Bibbia.
Come si diceva, essa in pratica coincide con la persona e non si
ferma alla sola carnalità, segno di debolezza, fragilità e miseria, che pure è
un aspetto del corpo. Il Cantico dei cantici non ha nessun imbarazzo nel
celebrare la bellezza e l’eros dei corpi dei due innamorati (cc. 4; 5; 7). Così
non ci deve stupire che già nell’Antico Testamento e in forma unica e altissima
nel Nuovo il destino ultimo della creatura redenta sia la risurrezione dei
corpi (Ez 37 e la Pasqua di Cristo e dei cristiani) e non tanto l’immortalità
della sola anima. Similmente è significativo che l’attività pubblica di Cristo
sia stata dominata oltre che dalla predicazione, dalla guarigione dei malati.
Il ministero pubblico di Gesù, attraverso i miracoli, si è concentrato
per una metà proprio sul corpo umano per riportarlo al suo splendore. Inoltre,
come si è detto, attraverso l’eucaristia, egli offrirà il suo corpo come cibo,
creando così una comunione non genericamente spirituale ma personale, tra sé e
il fedele, essendo – come si diceva – il corpo espressione della persona. Paolo
concepirà, poi, nella Prima Lettera ai Corinzi, la Chiesa come corpo del Cristo
risorto e ai Corinzi domanderà retoricamente: “Non sapete che il vostro corpo è
tempio dello Spirito Santo?” (6,19; 12,12-30).
Certo, nel nostro corpo c’è lo stigma della morte e la ferita del
peccato. L’Apostolo usa, infatti, le espressioni “corpo di morte” e “corpo di
peccato”. Ma con l’Incarnazione del Figlio di Dio, il nostro corpo mortale e
peccatore è sepolto e viene fatto rinascere il “corpo spirituale”, cioè animato
dallo stesso Spirito di Dio. “Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo per
conformarlo al suo corpo glorioso” (Fil 3,21). Infatti, la meta a cui tendiamo,
quella della risurrezione, è segnata già in noi attraverso l’anelito verso una
salvezza piena dell’adozione a figli e della “redenzione del nostro corpo” (Rm
8,23).
Anche se è difficile definire come sarà il destino del nostro corpo
glorioso nella creazione rinnovata (si leggano le argomentazioni paoline nel
capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi), sappiamo che esso ha un destino di
gloria. Per questo già fin d’ora dobbiamo consacrare a Dio i nostri corpi perché
essi, espressione della nostra persona e della nostra esistenza, sono “il
sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, il nostro culto spirituale (Rm 12,1).
Fonte:
Gianfranco Ravasi, L’alfabeto di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023,
pp. 283-285.