At
10,34a.37-43; Sal 117; Col 3,1-4 (oppure: 1Cor 5,6b-8); Gv 20,1-9 (nella messa
vespertina: Lc 24,13-35)
Il
salmo responsoriale è tratto dal Sal 117, un inno di gioia e di vittoria,
proclamato in ogni celebrazione eucaristica della settimana pasquale e nella
liturgia delle ore di ogni domenica. Il salmo forma parte del “hallel
egiziano”, così chiamato perché si cantava specialmente in occasione del
memoriale della liberazione degli Israeliti dall’Egitto, durante il sacrifico
dell’agnello e durante la cena pasquale. La liturgia della domenica di Pasqua
ci ricorda che il nostro agnello pasquale è Cristo (cf. seconda lettura
alternativa, sequenza, prefazione pasquale I e antifona alla comunione); nel
mistero della sua risurrezione dai morti si compiono tutte le speranze di
salvezza dell’umanità: è questo il giorno di Cristo Signore. La risurrezione di
Cristo dai morti rappresenta il centro del mistero cristiano, è la base e la
sostanza della nostra fede. “Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la
nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1Cor 15,14). Con queste
parole l’apostolo Paolo esprime il cuore di tutto il messaggio cristiano.
Nella
prima lettura, ascoltiamo san Pietro che annuncia con decisione al popolo il
mistero della risurrezione del Signore di cui egli e gli altri apostoli sono
testimoni. Nella seconda lettura, san Paolo trae da questo evento le
conseguenze per una vita cristiana rinnovata. Ci soffermiamo sul brano
evangelico (Gv 20,1-9), che racconta lo stupore di Maria di Màgdala e di Pietro
e dell’“altro discepolo, quello che Gesù amava”, dinanzi al sepolcro vuoto. Nel
racconto si sottolinea anzitutto l’itinerario di fede di Maria e dei due
discepoli nel Cristo risorto, una fede che non si impone come un’evidenza, ma
nasce a partire da “segni” che bisogna decifrare. In primo luogo, l’itinerario
di fede di Maria di Màgdala, che giunge di buon mattino al sepolcro “quando era
ancora buio”. Sembra una donna avvolta nelle tenebre dell’incredulità: appena
vede che la pietra è stata tolta, neppure lontanamente è sfiorata dall’idea
della risurrezione; subito pensa e corre a dirlo a due discepoli: “Hanno
portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Poi
Maria ritorna al sepolcro: vede Gesù, ma lo confonde col giardiniere. Lo
riconosce solo quando Gesù la chiama per nome (cf. Gv 20,11-18). Il racconto di
Giovanni tende a relativizzare il vedere e, anche, l’esperienza del Gesù
terrestre. Non basta vedere il Signore per riconoscerlo; è Lui che deve
svelarsi.
L’itinerario
di fede dei due discepoli ha altre caratteristiche, almeno quello del discepolo
che Gesù amava. Simon Pietro guarda stupito, constatando che il corpo non è più
nel sepolcro, ma che vi sono rimasti, accuratamente piegati, il lenzuolo e il
sudario. L’altro discepolo, invece, vede e crede immediatamente. Non ha bisogno
di vedere Gesù per credere. Egli constata che Gesù non è avvolto dai panni
funebri. Quindi è vivo. Il racconto evangelico conclude con queste parole:
“Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva
risorgere dai morti”. È sempre alla luce della Scrittura che si rivela il senso
dei segni, eclatanti o modesti, e che lo sguardo si apre alle cose della fede.
La
risurrezione di Cristo, vertice del mistero della fede, inaugura l’era della
salvezza offerta a tutti gli uomini. Chiunque crede nel Risorto riceve fin
d’ora il perdono dei peccati, e vive in attesa che il Signore vincitore della
morte si manifesti come “giudice dei vivi e dei morti”. Tale è, in tutta la sua
ampiezza, l’oggetto della fede apostolica e della celebrazione pasquale.