2Cr
36,14-16.19-23; Sal 136; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21
Nei
testi biblici di questa domenica si contrappongono il peccato dell’uomo e
l’amore di Dio. Il Sal 136 è una meravigliosa e drammatica preghiera di lamentazione
innalzata dagli ebrei esuli lungo i canali di Babilonia dopo la distruzione di
Gerusalemme alla fine del VI secolo a.C. Questo testo esprime il dramma di
tutto un popolo sradicato dalla sua terra e strappato ai suoi affetti più cari.
La disperazione dell’esilio è controbilanciata dalla speranza del ritorno a Gerusalemme.
Così come Babilonia è la personificazione della potenza del male, Gerusalemme
rappresenta la patria definitiva in cui ogni lacrima sarà asciugata. Quella che
fu esperienza d’Israele diventa drammaticamente esperienza di ciascuno di noi.
Ma Cristo non ci ha abbandonato in balia del nostro peccato; con la sua
vittoria sulla morte ha dato a tutti noi la possibilità di ritrovare il
paradiso perduto. Il ricordo di questo evento è la nostra gioia.
La
Pasqua ormai vicina, la Chiesa ci invita alla gioia (cf. antifona d’ingresso).
Infatti, il Figlio dell’uomo è stato innalzato in croce, dice il brano
evangelico, affinché chiunque crede in lui, abbia la vita eterna. Per far capire
che cosa vuol dire credere nel Figlio dell’uomo, l’odierno brano del vangelo di
Giovanni rimanda alla storia del popolo d’Israele che nel cammino del deserto
si era ribellato contro Mosè e contro lo stesso Dio, per cui molti furono
puniti con i morsi di serpenti velenosi e morirono. Avendo però gli israeliti
riconosciuto il loro peccato, Dio promette che chiunque, morso dai serpenti,
guarderà il serpente di rame collocato sopra un’asta, resterà in vita. La
storia di Israele va interpretata come un messaggio profetico nel suo aspetto
di severo giudizio sull’infedeltà del popolo e nel suo aspetto di accorato
invito al pentimento fondato sulla fedeltà incondizionata di Dio. Il serpente
innalzato da Mosè nel deserto è una prefigurazione di Gesù innalzato sulla
croce. Il serpente di rame salvava perché presupponeva la fede nella parola di
Dio che promette la salvezza. In modo analogo Gesù morto in croce è fonte di
salvezza per chiunque vi riconosce la rivelazione dell’amore di Dio che “ha
tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito; chiunque crede in lui ha la
vita eterna” (canto al vangelo).
Alla
nostra infedeltà e al nostro peccato si contrappongono la fedeltà e l’amore
misericordioso di Dio. Al peccato che conduce l’uomo alla schiavitù e alla
morte si contrappone l’amore di Dio che dona liberazione e salvezza. La prima lettura
illustra lo stesso concetto: al peccato d’Israele che gli ha meritato la
punizione della deportazione in Babilonia, si contrappone l’amore di Dio che,
fedele alla sua parola, libera il suo popolo dall’oppressione e lo riconduce a
Gerusalemme. La nostra salvezza non è fondata sui nostri meriti, ma
sull’infinita ricchezza della misericordia di Dio. È ciò che ricorda san Paolo
ai primi cristiani di Efeso: la salvezza “non viene da voi, ma è dono di Dio” (cf.
seconda lettura). E tutto ciò, aggiunge l’Apostolo, trova pieno compimento in
Cristo Gesù: “da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con
Cristo”. L’ultima parola di Dio non è la morte ma la vita.
Quando
si parla di “colpa” o di peccato si ha a che fare con il compimento o il fallimento
di una esistenza: solo chi ha forte il senso della dignità dell’uomo davanti a
Dio, del suo destino eterno, è capace di percepire quanto grande sia la
tragedia del peccato. Paradossalmente però il peccato rivela chi è Dio: quanto
più profondo è il rifiuto dell’uomo, tanto più grande appare l’abisso
dell’amore divino, che la croce mostra in tutta la sua concretezza e veracità.