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martedì 15 aprile 2025

GIOVEDI SANTO: MESSA VESPERTINA “IN CENA DOMINI” 17 Aprile 2025

 



 

 

Es 12,1-8.11-14; Sal 115 (116); 1Cor 11,23-26; Gv 13,1-15

 

Il brano evangelico d’oggi inizia con queste parole: “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine”.  La sera del Giovedì Santo celebriamo l’ora di Gesù, l’ora in cui egli manifesta pienamente se stesso facendosi dono per noi. Infatti, in questa celebrazione del Giovedì Santo la Chiesa fa memoria di tre avvenimenti, apparentemente diversi, ma in realtà strettamente connessi: l’istituzione dell’eucaristia, l’istituzione del sacerdozio ministeriale e il comandamento nuovo della carità fraterna. Questi tre doni di Cristo alla sua Chiesa sono l’autentico testamento di Gesù vicino ormai alla sua ora, cioè al passaggio da questo mondo al Padre. È un testamento dettato dal grande amore di Gesù per noi, segno vivo ed efficace della sua presenza a nostro favore.

 

Qual è il senso profondo di questo testamento? Possiamo coglierne il significato nel gesto della lavanda dei piedi: Gesù lava i piedi ai suoi discepoli. Questo gesto non è solo un atto di umiltà. E’ qualcosa di più profondo. San Giovanni ha voluto parlarne al posto del racconto dell’ultima cena. Tutti gli altri evangelisti, e anche san Paolo (cf. seconda lettura), ci narrano con grande cura l’istituzione dell’eucaristia e, implicitamente, quella del sacerdozio ministeriale (cf. “Fate questo in memoria di me”). San Giovanni invece ha voluto darci attraverso il gesto della lavanda dei piedi il significato del dono offerto a noi da Cristo nell’eucaristia: “Se io – dice Gesù – il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”. Non è tassativamente la lavanda dei piedi in se stessa che prescrive Gesù, quanto piuttosto quella disponibilità totale di servizio, di dono di sé ai fratelli che si esprime nel gesto della lavanda. Gesù compie un gesto di servizio e di abbassamento, di dono di sé per il bene degli altri. San Giovanni presenta quindi l’eucaristia come il sacramento dell’abbassamento, dell’obbedienza, del sacrificio spirituale e dell’amore di Cristo, del dono totale di sé per la salvezza di noi tutti.

 

Il dono di sé che Gesù consuma il Venerdì Santo quando porta a compimento la sua missione in totale sottomissione alla volontà del Padre fino alla morte e morte di croce, è perennemente presente nell’eucaristia affinché noi possiamo ricevere i frutti di questo donarsi del Signore per noi. Quando Gesù prende il pane fra le sue mani dice: “Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi...” Quando prende il calice del vino dice: “Questo è il calice del mio sangue versato per voi...” Ecco quindi che quando Gesù istituisce l’eucaristia ci spiega il significato della sua morte come dono di sé per la vita del mondo, dono perennemente presente in mezzo a noi nei segni del pane e del vino.

 

Possiamo affermare che il messaggio del Giovedì Santo è tutto qui. Vivere, ad esempio di Cristo, la nostra fede come dono di noi stessi al servizio dei nostri fratelli e sorelle, nella obbedienza a Dio Padre. Questo è il senso dell’eucaristia, questa è la missione fondamentale del sacerdozio ministeriale nella Chiesa e questo è il nocciolo della vita cristiana sintetizzata nel comandamento nuovo dato da Gesù quando dice: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati” (Gv 15,12).

 

venerdì 11 aprile 2025

DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE (C) 13 Aprile 2025

 



 

Is 50,4-7; Sal 21 (22) ; Fil 2,6-11; Lc 22,14-23,56

 

Gesù agonizzante attribuisce a sé il Sal 21, preghiera di lamentazione, riprendendone le prime battute: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” (cf. Mc 15,34), parole che noi ripetiamo oggi come ritornello del salmo responsoriale. Il salmo in questione è un testo di grande desolazione, segnato da immagini forti. L’orante, immerso nella sofferenza e vicino alla morte, sente il silenzio di Dio e l’ostilità degli uomini. Ma all’improvviso, la supplica diventa fiduciosa attesa dell’aiuto di Dio e poi ringraziamento festoso al Signore, re dell’universo. All’inizio della settimana di passione, questo salmo ci introduce adeguatamente nella celebrazione del mistero pasquale di Gesù, che va dalla morte alla vita, dalle ombre del sepolcro alla luce della risurrezione. Su questa linea, la colletta della messa ci invita ad avere sempre presente il grande insegnamento della passione di Cristo, per poter partecipare alla gloria della sua risurrezione.

 

Nella celebrazione odierna sono evocati i due momenti del mistero pasquale: la commemorazione del trionfale ingresso di Gesù in Gerusalemme, con cui egli afferma la sua dignità messianica, e la sua morte in croce, che indica il modo con cui essa si esprime. La passione e morte sono narrate con dovizia di dettagli nella lettura evangelica della passione secondo Luca, a cui si affiancano le altre due letture, che creano il clima adatto per l’ascolto della passione: la lettura profetica presenta la figura misteriosa del Servo sofferente, che assume su di sé le colpe di tutti e le riscatta; quella apostolica è un inno cristologico in cui si afferma che il Figlio di Dio proprio perché ha accettato i limiti e la povertà della condizione umana, Dio “l’ha esaltato”.

 

Il racconto della passione è così denso che non avrebbe bisogno di commenti. Tuttavia, notiamo alcune caratteristiche della redazione di Luca, un racconto pieno di tenerezza, impostato secondo un’ottica personale ed esortativa: spuntano nel succedersi degli eventi le continue reazioni tra il discepolo che assiste e il Cristo sofferente. Seguendo Gesù nella passione, il discepolo – ciascuno di noi – è invitato ad una adesione personale ed esistenziale. Come Simone di Cirene e le pie donne, che seguono Gesù anche in questi momenti decisivi e drammatici, pure noi siamo invitati a seguirlo e a portare la croce dietro a lui. Nel racconto del momento supremo della crocifissione e morte di Gesù, san Luca ricorda tre espressioni del Salvatore che non trovano riscontro negli altri evangelisti. Anzitutto le parole di perdono per i crocifissori: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Il Salvatore con la sua preghiera di perdono per i suoi carnefici si fa norma ed esempio vivente di quanto aveva insegnato ai discepoli. Poi al buon ladrone Gesù morente rivolge queste parole: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”. Anche queste sono parole di perdono e di bontà; parole, poi, che aprono il cuore di tutti noi alla speranza e invitano a guardare in avanti verso la luce della Pasqua di risurrezione. Finalmente nel racconto lucano, Gesù muore con la preghiera sulle labbra: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”, parole prese dal Sal 31,6 che faceva parte della preghiera serale degli ebrei. Con queste parole Gesù morente non manifesta soltanto il suo abbandono fiducioso, ma anche la sua piena accettazione del piano di salvezza voluto dal Padre; in tal modo Gesù muore come il perfetto giusto che si rimette nelle mani del Padre.   

 

“Con la sua morte lavò le nostre colpe e con la sua risurrezione ci acquistò la salvezza” (prefazio). Questo mistero si ripresenta sacramentalmente nel sacrificio eucaristico.

domenica 6 aprile 2025

L’EUCARISTIA

 



 

Antonio Miralles, Teologia liturgica dei sacramenti. I. Eucaristia (Veritatem inquirere 9), EDUSC, Roma 2022. 438 pp. (€ 35,00)

L’estrema luminosità del Mistero eucaristico e la sua importanza per la vita della Chiesa, si manifesta nella celebrazione. Il presente volume si propone di indagare la celebrazione eucaristica sotto il profilo teologico-liturgico, prendendone in esame lo sviluppo storico ma anche, e soprattutto, la comprensione teologica delle diverse parti. Non manca uno studio, nella seconda parte del trattato, della concelebrazione e del culto eucaristico fuori della Messa.
La trattazione riguarda il Rito romano. Punto di riferimento continuo è pertanto il Missale Romanum nella sua ultima edizione tipica. L’oggetto di studio non è propriamente il libro in se stesso, ma la Messa in quanto viene celebrata, donde l’attenzione particolare al libro liturgico, ma sempre in vista della realtà della celebrazione.

Fonte: Quarta di copertina.

 

venerdì 4 aprile 2025

DOMENICA V DI QUARESIMA (C) – 6 aprile 2025

 



 

 

Is 43,16-21; Sal 125 (126); Fil 3,8-14; Gv 8,1-11

 

 

In questa V Domenica di Quaresima, il messaggio della Parola di Dio possiamo riassumerlo dicendo che Dio dona sempre la possibilità di un futuro migliore. Lo ha fatto per bocca del profeta Isaia con Israele umiliato e deportato a Babilonia. Lo ha fatto con san Paolo che da persecutore è diventato il grande apostolo di Cristo. Lo ha fatto con la donna sorpresa in adulterio: “va’ e d’ora in poi non peccare più”.

 

Soffermiamoci brevemente sul brano evangelico. Gli scribi e i farisei trascinano una donna sorpresa in adulterio, la presentano a Gesù e gli ricordano che secondo la legge di Mosè dev’essere lapidata: “Maestro, tu che ne dici?”. Gesù non poteva negare il dettato della legge. D’altra parte, però, applicando la legge era costretto a rinnegare quell’annuncio di perdono che aveva caratterizzato la sua predicazione, quel volto di Dio tenero e compassionevole che aveva presentato a chi lo ascoltava.

 

Se, per caso, si fosse discostato dalla legge, sarebbe apparso blasfemo, avrebbe attirato su di sé la riprovazione di tutti. Tranello ben congegnato. Situazione senza via di uscita. Per questo Gesù va fino in fondo.

 

E prende sul serio questa richiesta di giustizia, motivata dalla fedeltà alla legge di Dio. Tanto sul serio da lanciare una sfida: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. Gesù ha capovolto il giudizio. Il giudizio non riguarda solo quella donna, ma tutti, E non è solo questione di adulterio… L’orrore del peccato è importante, ma non può proiettarsi solo verso il peccato degli altri. Esige altrettanta attenzione e decisione verso il proprio peccato, quello che si annida nell’intimità del nostro cuore.

 

È come se avesse detto a quegli scribi e farisei. Il vostro atteggiamento è lodevole, perché volete far rispettare la legge. Siate conseguenti, però. Esaminate voi stessi, e se non trovate in voi nessun peccato, allora procedete a fare giustizia. Ma chi può raccogliere una simile sfida, chi può considerarsi esente da peccato ed ergersi a giudice dei propri simili? Uno dopo l’altro gli accusatori se ne vanno. Senza umanità la legge può uccidere, schiacciare, umiliare. Per Gesù, più del comandamento infranto, è ormai importante la donna con la sua vita infranta. A questa vita infranta Gesù dà un futuro perché possa riprendersi: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.

domenica 30 marzo 2025

FEDE E RAGIONE

 



“La fede è la più alta passione di ogni uomo. Ci sono forse molti uomini che arrivano fino ad essa, ma nessuno va oltre”. Così nella sua opera Timore e tremore (1843) il filosofo danese Soren Kierkegaard celebra la grandezza della prima delle “virtù teologali”, la fede, dono divino ma anche impegno umano. Fede e ragione, una coppia di termini che ha dato il titolo ad una famosa enciclica di san Giovanni Paolo II, in latino Fides et ratio (1998). Il papa usava, al riguardo, un’immagine suggestiva: sono necessarie entrambe queste ali per volare nel cielo del mistero divino. Sant’Agostino giungeva al punto di scrivere: “Chiunque crede pensa e pensando crede. La fede se non è pensata è nulla”.

L’autentico credente deve procedere sul crinale tagliente di un monte, dal quale si diramano due versanti, entrambi rischiosi. Da un lato, è facile scivolare verso una fede che sia solo fiducia quasi cieca, rifuggendo da ogni interrogativo, cancellando ogni fremito del pensiero, facendo scolorire e scadere la religione in un sentimentalismo devozionale. D’altro lato, è ugualmente pericoloso inoltrarsi solo sul versante opposto, quello di una razionalità così assorbente da ridurre la religione a una serie di teoremi, a un sistema speculativo in cui tutto si ordina, a una sorta di geometria teologica che non lascia spazio al mistero e al trascendente.

Suggestiva è, al riguardo, la definizione della fede che ci è offerta da quella grandiosa omelia neotestamentaria che è la Lettera agli Ebrei: “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” (11, 1). C’è innanzitutto, l’affidarsi fiducioso alla Rivelazione divina, alla speranza che ci viene fatta balenare: non per nulla si parla di “fondamento”, di base su cui appoggiarsi, come suggerisce lo stesso termine ebraico biblico del “credere”, divenuto il nostro amen, che letteralmente indica un “fondarsi” sulla parola e sulla presenza di Dio, un cercare in lui stabilità e sicurezza in un rapporto interpersonale.

La fede esige, però, anche la “prova”, cioè l’argomentazione, la riflessione, come traduceva Dante con questa parafrasi della frase biblica citata: “Fede è sustanza di cose sperate, / e argomento de le non parventi” (Paradiso XXIV, 64-65). “La fede se non è pensata – e quindi argomentata – è nulla”, come si è visto, era la convinzione di sant’Agostino. E questo grande Padre della Chiesa e genio dell’umanità è forse – con san Tommaso d’Aquino – l’esempio più alto dell’equilibrio tra fede e ragione. La potenza straordinaria del suo pensiero, della sua intuizione, della sua ricerca si sposava continuamente con l’intensità della sua fede, tant’è vero che spesso i suoi testi sono segnati dalle invocazioni tipiche della preghiera. La sua analisi teologica è molte volte rivolta a un “Tu”, è un costante appello orante indirizzato a Dio, oggetto della ricerca intensa della sua mente.

Il nesso fede e ragione non cancella ma integra la fiducia, non riesce ad esaurire il mistero ma cerca di penetrarlo, non esclude l’abandono amoroso a Dio ma lo giustifica. Il secolare impegno dei teologi nel loro studio e la conoscenza attraverso una catechesi ben fondata riescono allora a smentire la famosa accusa di Marx secondo cui la religione sarebbe “l’oppio dei popoli”, un sedativo inoculato ai fedeli per reprimere ogni ansia di giustizia e di riforma sociale.

Fonte: Gianfranco Ravasi, L’alfabeto dell’uomo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2025, pp. 143-146.    

 

venerdì 28 marzo 2025

DOMENICA IV DI QUARESIMA (C) – 30 marzo 2025

 



 

 

Gs 5,9a.10-12; Sal 33 (34); 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32

 

L’antifona d’ingresso invita alla gioia: “Rallegrati (Laetare), Gerusalemme… Esultate e gioite voi che eravate nella tristezza…”. Il salmo responsoriale riprende questa tematica in chiave di ringraziamento: “Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode…” Perciò questa domenica si chiama anche “Domenica Laetare”. Il tema ritorna nel vangelo al termine della parabola del figliol prodigo: “Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita…”

         

Le letture bibliche odierne, nel cuore del cammino quaresimale, sono una solenne proclamazione della misericordia di Dio e un pressante invito a riconciliarci con Lui. In questa domenica, come in quella precedente, ritroviamo il tema della conversione, vista però sotto l’aspetto della riconciliazione come dono dell’amore di Dio. La prima lettura parla della sollecitudine di Dio per il suo popolo, al quale, dopo la traversata del deserto, offre in dono una terra e una patria. Il brano del vangelo riporta la bellissima parabola del figliol prodigo, che viene accolto dal padre misericordioso nella casa paterna. Nella seconda lettura ascoltiamo san Paolo che parla di un Dio misericordioso che ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe; l’amore fedele di Dio ci viene comunicato tramite la fedeltà solidale di Gesù crocifisso. All’azione di Dio che salva, noi siamo invitati a corrispondere: come Israele che celebra nella gioia della Pasqua il dono della terra promessa; come il figliol prodigo che riconosce il suo peccato e si getta nelle braccia del padre.

 

La liturgia di questa domenica quaresimale è un invito alla riconciliazione con Dio e con i fratelli. Notiamo però che centro della bellissima parabola del figliol prodigo non è tanto la riconciliazione di quest’ultimo con suo padre e la sua decisione di tornare in famiglia, ma l’amore del padre che ridona al figlio minore la condizione precedente prima ancora di ascoltare il suo pentimento. Qualcuno ha chiamato questo racconto la parabola del Padre misericordioso o prodigo d’amore. È nota l’opera di Rembrandt, che ha dipinto in modo meraviglioso l’episodio della parabola: nelle mani del padre, notiamo la sinistra affusolata, femminile, materna; la destra invece forte, maschile, paterna. Mani che esprimono amore, appoggio, sollecitudine, fermezza, sicurezza.

 

La conversione – riconciliazione è anzitutto una grazia, un dono dell’immenso amore di Dio. Egli è sempre pronto ad accoglierci. Anzi Dio ha fatto già la sua parte, ci ha riconciliati a sé tramite Gesù Cristo. Tocca a noi fare la nostra parte. La misericordia di Dio ci viene incontro. Tocca a noi accoglierla nella concretezza della vita. Dio non chiude la porta in faccia a nessuno. Tocca a noi varcare la soglia di questa porta sempre aperta. Come nella parabola del figliol prodigo, il primo atto della riconciliazione per quanto a noi concerne è la constatazione della propria miseria, del proprio peccato. È un discorso che va talvolta contro corrente in un ambiente culturale in cui si è perso di molto il senso del peccato. La conversione, poi, non può esaurisci nell’intimo del cuore, è chiamata ad esprimersi nel segno sacramentale. Infatti, l’esperienza cristiana della conversione è suggellata dal sacramento del perdono e ha come effetto la riconciliazione con Dio e con i fratelli. Riconciliati con Dio, non siamo più divisi e disgregati in noi stessi, ma ritroviamo la nostra unità interiore e la nostra vera libertà, che ci rende capaci di un servizio responsabile sia a Dio che ai fratelli. Finalmente, riconciliati con Dio, possiamo gustare la gioia nella cena pasquale dell’Agnello.

         

domenica 23 marzo 2025

VERO E FALSO CULTO (Is 1,10-20)

 



Facendo eco a passi famosi di Amos (5, 21-27) e Osea (2, 13), anche Isaia (1, 10-20) denuncia le pratiche cultuali dei suoi contemporanei, vuote di autentico spirito religioso e di tensione verso la giustizia. Israele ha sempre dato molta importanza al culto, ma c’è culto e culto. Per il profeta anche l’abbondanza di pratiche cultuali può – alla fine – essere segno di incredulità, cioè di una falsa concezione di Dio. Al tempo di Isaia si erano introdotte forme cultuali che arieggiavano i culti pagani (ad esempio, i culti sotto le querce sulle alture: 1, 29). Ma forme a parte, si finiva col considerare il Signore un dio pagano. Con le loro offerte cultuali (abbondanti, generose e ripetute) i pagani si illudevano di comprare i loro dei, di rabbonirli e renderseli favorevoli, di piegarli ai loro progetti. Ma il Dio di Israele è diverso: è un Dio di amore, da amare. Certo la pioggia, il sole e la fecondità dipendono da lui: ma vuole l’amore e la giustizia, non semplicemente pratiche cultuali. Dio non si accontenta di doni, perché non è un Dio interessato a se stesso. Vuole che la sua presenza sia riconosciuta nella vita.

È interessante un confronto tra il profetismo biblico e il profetismo babilonese. Per lo più i profeti babilonesi presentano in nome di Dio richieste che riguardano sempre, o quasi, il settore cultuali: l’erezione di un santuario, offerte riparatrici, e simili. Il loro Dio è interessato alle offerte del popolo. I profeti biblici invece proclamano la sovranità divina su tutta la vita ed esigono la realizzazione incondizionata del diritto e della giustizia. Nel vero culto di Israele (così lo sognano i profeti) si rinnova l’alleanza, e questa è – contemporaneamente – alleanza del popolo di Dio e delle tribù fra di loro: una dimensione religiosa e una dimensione politica, Per questo il culto assume un aspetto di conversione e di missione: impegna a costruire la fraternità. Si veda la serie di imperativi presenti nel capitolo 1: definiscono una morale sociale, fra uomo e uomo, con particolare attenzione ai più deboli. È questo il vero culto:

Lavatevi, purificativi, togliete dalla mia vista il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova (Is 1, 16-17).

Naturalmente Isaia non è il difensore di una religione spirituale, interiore, senza culto. Più semplicemente critica il fatto che il culto sia diventato un atto magico, che distrae dalla conversione e dalla giustizia. Non nega il culto, bensì non tollera di vederlo profanato.

 

Fonte: Bruno Maggioni, Ritrovare la speranza. Figure dell’Antico Testamento, Milano 2024, pp. 78-79.

venerdì 21 marzo 2025

DOMENICA III DI QUARESIMA (C) – 23 marzo 2025

 



 

 

Es 3,1-8a.13-15; Sal 102 (103); 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9

 

Nelle domeniche III, IV e V di Quaresima il ciclo di letture bibliche di quest'anno si presenta come una specie di catechesi sulla conversione o riconciliazione, tema che trova il suo vertice nella celebrazione della Pasqua, segno supremo della nostra riconciliazione con il Padre.

 

Nel mondo ebraico si pensava che colui al quale le cose della vita andavano bene (salute, denaro, posizione sociale, affetti e così via) era benedetto da Dio e ovviamente non aveva bisogno di convertirsi. Diversamente, colui a cui le cose della vita andavano male, era considerato non benedetto da Dio e, quindi, aveva bisogno di convertirsi. La tentazione di sempre è quella di applicare uno schema di interpretazione abbastanza rudimentale anche se immediato: se ti vanno male le cose della tua vita, si tratta di un castigo di Dio e, naturalmente, meritato per qualche colpa più o meno evidente. Non è forse un esercizio a cui ci applichiamo anche noi?

 

Gesù pone fine a questa mentalità: i Galilei uccisi da Erode e i 18 uccisi dal crollo della torre di Siloe, due fatti di cronaca di cui parla il Vangelo, non erano più peccatori degli ascoltatori di Gesù e quindi essi non dovevano pensare di non aver bisogno di conversione perché non erano stati castigati con la morte come gli altri. L'appello alla conversione è un appello imprescindibile per tutti. Non cogliere l'appello equivale a firmare la propria condanna: se non vi convertite, dice Gesù, perirete tutti allo stesso modo.

 

In ogni caso la pazienza di Dio, la sua misericordia sono fuori dubbio come spiega la breve parabola con cui si conclude il racconto. La parabola parla del fico che non porta frutto e che si vorrebbe tagliare, ma invece viene risparmiato con la speranza di una maturazione ulteriore. Con questa parabola Gesù non si propone di indicare i limiti della misericordia di Dio ma intende affermare con assoluta chiarezza che egli nella sua bontà accorda a tutti il tempo per accogliere il suo invito alla conversione. E’ un messaggio di consolazione e un invito a non ritardare il tempo per portare frutti degni di conversione.

 

La conversione è uno dei punti nodali della predicazione di Gesù e quindi un elemento costitutivo e costante dell'esistenza cristiana. Gesù inizia la sua vita pubblica con queste parole: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15). Possiamo ben dire che l'esistenza cristiana trae origine dalla conversione e si sviluppa attraverso un continuo cammino di conversione che la Quaresima esprime in modo simbolico come tempo di preparazione alla Pasqua. Ricordiamo però che la conversione diventa effettiva solo se la nostra vita cambia, se la parola di Dio ascoltata e accolta diventa in noi comportamento di vita. Ciascuno di noi sa quali sono gli aspetti della propria vita che hanno bisogno di conversione, di cambiamento, o di miglioramento.

domenica 16 marzo 2025

LA SPERANZA NELL’ANTICO TESTAMENTO

 



Bruno Maggioni, Ritrovare la speranza. Figure dell’Antico Testamento (In cammino), Ancora, Milano 2024. 287 pp. (€ 24,00).

“Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?” (Es 17,7). “Signore, se tu sei con noi, perché ci è capitato tutto questo?” (Gdc 6,13). La speranza d’Israele non è facile. Spesso è messa in crisi non da ragionamenti astratti, ma dagli avvenimenti della storia che sembrano smentire le promesse del Signore. Nell’esperienza dell’abbandono la fiducia nell’adempimento della parola di Dio non scompare; è solo messa alla prova. Purificata, non vinta. Don Bruno, con la sapienza del maestro guida il lettore e ripercorre il difficile cammino di fede dei personaggi biblici, per scoprire che il vero modo di stare davanti a Dio – a volte misteriosamente incomprensibile – è affidarsi.

(risvolto)

 

venerdì 14 marzo 2025

DOMENICA II DI QUARESIMA (C) – 16 Marzo 2025

 


  

 



Domenica scorsa abbiamo visto Gesù uscire vittorioso dalle insidie del tentatore perché si è fidato di suo Padre, perché non ha avuto paura di sottomettere la propria libertà, i propri progetti alla volontà e al progetto che Dio ha su di lui. Tutto questo significa, implicitamente, per Gesù iniziare il cammino verso la passione. L’esperienza della trasfigurazione che ci narra il vangelo è da leggersi in questo contesto. La meta del cammino intrapreso da Gesù è la risurrezione, di cui la trasfigurazione è anticipo, ma la strada passa attraverso l’esperienza dolorosa della passione e della morte. Questa è la verità che Gesù intende far capire ai tre discepoli che l’hanno accompagnato. Perciò, dopo averli resi testimoni della gloria della trasfigurazione, Egli annuncia la sua morte e risurrezione. 

Gesù offre ai tre discepoli prediletti, Pietro, Giovanni e Giacomo, una visione anticipata della sua gloria di risorto, che culmina nella testimonianza del Padre che rivela l’identità profonda di Gesù: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo”. È da sottolineare l’invito all’ascolto, ripreso dalla orazione colletta del giorno. Come ricorda il prefazio, poco prima dell’evento della trasfigurazione, Gesù fa il primo annuncio della sua passione e morte e, in seguito, indica le condizioni per seguirlo: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23). In questo contesto, l’invito ad ascoltare Gesù acquista un senso preciso e particolare: ascoltate Gesù perché è mio Figlio; ascoltatelo nonostante le parole che dice siano paradossali. 

Fidatevi anche se vi propone un cammino di sofferenza; seguitelo anche se dovete passare per sentieri stretti e disagevoli. La trasfigurazione è la grande rivelazione di Gesù, la scoperta piena della sua realtà a cui si è invitati attraverso l’ingresso nell’oscurità della fede che ci conduce attraverso la via della croce, sorretti dalla speranza, all’esperienza della risurrezione. 

La seconda lettura è un’esortazione alla speranza, non in una terra o in una discendenza, come per Abramo, ma in Dio stesso che si pone come terra promessa, come futuro capace di appagare pienamente le nostre attese: “La nostra cittadinanza è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso”. La contemplazione anticipata della gloria di Gesù non ci risparmia lo scandalo della croce, ma lo sostiene nella speranza.  

La pienezza perpetua e stabile della nostra trasfigurazione in Cristo avverrà nella vita eterna, ma si prepara e anticipa qui e ora. La celebrazione eucaristica è prefigurazione e anticipazione del banchetto eterno nel quale contempleremo il volto glorioso del Cristo, quel volto trasfigurato di cui i discepoli Pietro, Giovanni e Giacomo ebbero sul monte Tabor un saggio transitorio

 

 

venerdì 7 marzo 2025

DOMENICA I DI QUARESIMA (C) – 9 Marzo 2025



 

Dt 26,4-10; Sal 90 (91); Rm 10,8-13; Lc 4,1-13

 

Il salmo responsoriale, ripreso poi dall’antifona alla comunione, parla della protezione divina accordata a colui che ha fiducia in Dio. Nel vangelo con la citazione di questo salmo il diavolo ricorda a Gesù che, in quanto Figlio di Dio, ha il diritto di essere salvato dalla morte e da ogni pericolo; ha questo diritto perché Dio stesso ha promesso il suo aiuto a chi confida in lui. Gesù però risponde: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”. Non si può usare la parola di Dio per eludere la sua volontà. Bisogna piuttosto fidarsi di lui nell’obbedienza incondizionata al suo volere.

 

Le letture odierne sono incentrate sulla fede, che è anche un atteggiamento interiore di fiducia nelle promesse divine. Il brano del Deuteronomio riporta una lunga preghiera che, per ordine di Mosè, l’israelita doveva pronunciare nel momento in cui egli offriva le primizie dei frutti del suolo per ringraziare il Signore di avergli donato la terra. Questa preghiera è la più antica professione di fede in Dio del popolo d’Israele, in un Dio fedele alle sue promesse. Infatti, il dono della terra è visto come l’ultimo di una serie di doni, di interventi salvifici che Dio ha compiuto lungo la storia del suo popolo, da Abramo in poi. Con il gesto dell’offerta delle primizie e la professione di fede che l’accompagna, Israele riconosce che tutto quanto è e possiede è dono di Dio. Anche il brano di san Paolo è una professione di fede, in questo caso di fede cristiana in Gesù quale “Signore”, fonte di salvezza per tutti: chi riconosce e proclama che Gesù Cristo, il crocifisso, è il Signore risorto dai morti, approda alla salvezza che è il dono di Dio promesso ai credenti.

 

L’evento delle tentazioni di Gesù, riportato dal vangelo, episodio che tradizionalmente apre la Quaresima, può anch’esso essere considerato una vera professione di fede. La fede è messa alla prova dalla tentazione, la quale non risparmia neppure il Cristo. Ma vediamo come egli affronta questa prova. Tutte le risposte che Gesù dà al tentatore sono ispirate alle parole della Scrittura. Satana cerca in modo subdolo, usando anche lui le parole della Scrittura, di indurre Gesù a fare delle scelte personali e comode contrarie al disegno di Dio su di lui. Ma Gesù, rispettando la libertà sovrana del disegno salvifico, al cui compimento è votato, pronuncia il suo “sì” definitivo al Padre e si abbandona totalmente al suo destino. In questo modo, “vincendo le insidie dell’antico tentatore” (prefazio), Gesù diventa per noi l’emblema luminoso della fede in Dio, cioè dell’adesione piena e totale a Dio e al suo piano tracciato nel cosmo e nella storia. “La vittoria di Gesù sul tentatore nel deserto anticipa la vittoria della passione, suprema obbedienza del suo amore filiale per il Padre” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 539). Come per Cristo, anche la nostra strada di fedeltà alla parola di Dio è cosparsa di ostacoli e tentazioni. Dio però ci assicura il suo aiuto e la sua forza per superare ogni prova. Abbiamo la certezza che Cristo ha vinto le forze del male e la sua vittoria è anche di tutti coloro che si uniscono a lui per mezzo della fede e dei sacramenti.

 

La Quaresima si apre con un forte appello alla riscoperta della purezza della fede liberata da tutte le ignoranze, i surrogati e le escrescenze abitudinarie e magiche. Bisogna prendere chiara coscienza di tutto ciò che nella nostra vita contraddice la scelta fondamentale fatta nel battesimo abbracciando i valori del vangelo, scelta che deve orientare l’intero corso della nostra esistenza. Di fronte alla tentazione costante, che per la nostra naturale fragilità avvertiamo, di emanciparci da Dio e di prostituirci agli “idoli”, occorre riaffermare la fedeltà alla parola di Dio e la fede nella potenza salvatrice del Signore. 

lunedì 3 marzo 2025

MERCOLEDI DELLE CENERI – 5 Marzo 2025



 

 

Gl 2,12-18; Sal 50 (51); 2Cor 5,20-6,2; Mt 6,1-6.16-18

 

Il Mercoledì delle Ceneri è la porta della Quaresima, il periodo dell’anno liturgico che ha lo scopo di preparare la Pasqua. Il cammino quaresimale verso la Pasqua è un viaggio gioioso perché ci porta alla Vita. Questa gioia però scaturisce dai cuori purificati dalle opere del peccato che conducono, invece, alla morte. Il secondo prefazio di Quaresima definisce questo Tempo quale “tempo di rinnovamento spirituale”. Sulla stessa lunghezza d’onda, le due prime letture della messa d’oggi parlano della conversione. La calamità che ai tempi di Gioele ha colpito la terra di Giuda diventa per il profeta un segno per invitare il popolo alla conversione: “Così dice il Signore: ritornate a me con tutto il cuore” (prima lettura). San Paolo ci ricorda che la conversione, nella prospettiva cristiana, non è il cammino che noi dobbiamo fare per andare a Dio, ma piuttosto il cammino di riscoperta di quanto Dio in Cristo Gesù ha fatto per noi: “lasciatevi riconciliare con Dio” (seconda lettura). La riconciliazione fra noi e Dio è possibile perché il Padre ha già rappacificato il mondo nella croce del Figlio. Da parte sua, il brano evangelico illustra il significato delle pratiche quaresimali tradizionali: elemosina, preghiera e digiuno, con un continuo richiamo a superare il formalismo. Gesù ne parla nel contesto del discorso sulla nuova giustizia, superiore all’antica; egli illustra le caratteristiche di questa nuova giustizia e le applica alle tre pratiche fondamentali della pietà giudaica: l’elemosina, la preghiera e il digiuno.  

 

Il rito penitenziale dell’imposizione delle ceneri si compie subito dopo la liturgia della Parola. Si tratta di un gesto, antico ma non antiquato, che intende esprimere lo stesso messaggio che illustrano le letture bibliche della messa. Nell’ultima riforma si è voluto conservare la formula classica dell’imposizione delle ceneri: “Ricordati, uomo, che polvere tu sei, e in polvere ritornerai”, ma se ne è aggiunta un’altra: “Convertitevi, e credete al Vangelo”. La prima si ispira a Gn 3,19; la seconda a Mc 1,15. Sono formule che si completano a vicenda: una ricorda la caduta umana, il cui simbolo sono la polvere e la cenere; l’altra indica l’atteggiamento interiore di conversione a Cristo e al suo Vangelo, proprio della Quaresima. Con il gesto della cenere iniziamo la Quaresima, ma finiremo con quello dell’acqua della Veglia pasquale. Cenere all’inizio; acqua battesimale alla fine. Ambedue i gesti esprimono un’unità dinamica. La cenere sporca; l’acqua pulisce. La cenere parla di distruzione e morte; l’acqua battesimale della Veglia pasquale è la fonte della Vita. Nella notte di Pasqua accendiamo il fuoco nuovo, simbolo di rinnovamento e di vita risorta: la cenere è, invece, fuoco spento, morto. La Quaresima comincia con la cenere e finisce con il fuoco nuovo e l’acqua battesimale.

 

La Quaresima che iniziamo oggi è un tempo di maturazione individuale e collettiva della fede. Fuori di una prospettiva di fede, essa corre il pericolo di svilirsi in un periodo di tempo in cui lo sforzo morale e le pratiche ascetiche rischiano di diventare fine a sé stesse e pertanto possono condizionare negativamente l’approfondimento di una autentica esperienza di vita cristiana. La Chiesa non insiste più, come ha fatto in tempi passati, nelle pratiche penitenziali in sé come gesti puntuali da compiere. Mutati i tempi, possono e debbono cambiare anche i modi concreti di esprimere l’ascesi; non può scomparire però il sincero slancio di conversione verso Dio. L’orazione colletta della messa parla della Quaresima come di “un cammino di vera conversione, per affrontare vittoriosamente con le armi della penitenza il combattimento contro lo spirito del male”. La partecipazione all’eucaristia ci è di sostegno in questo cammino (cf. orazione dopo la comunione)

 

  

venerdì 28 febbraio 2025

DOMENICA VIII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 2 Marzo 2025



 

Sir 27,5-8; Sal 91 (92); 1Cor 15,54-58; Lc 6,39-45

Le letture bibliche odierne sono un pressante invito a rientrare in se stessi per arricchire il cuore e trasformare la propria vita in un “albero che produca frutti buoni”. Il breve brano del libro del Siracide, proposto come prima lettura (Sir 27,4-7) mette in risalto l’importanza e la funzione della parola: essa prova quanto valga una persona e rivela i sentimenti più intimi del suo cuore. Soltanto chi ha un cuore ricco di Dio potrà dire parole di vero amore che infondano gioia e speranza.

 

Nel brano evangelico (Lc 6,39-45) Gesù con un linguaggio semplice e concreto, a portata di coloro che lo ascoltano, allarga il discorso e parla della vera ricchezza dell’uomo che, radicata nel suo cuore, e si manifesta nelle sue opere: “L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene”. Parole, intenzioni, programmi, non bastano. Si richiedono i frutti, che a loro volta rivelano la natura buona o cattiva dell’albero. Per l’uomo quello che conta è il cuore, il centro dei suoi pensieri e delle sue scelte, dove la libertà esprime se stessa: il cuore “è il luogo della decisione […] È il luogo della verità, là dove scegliamo la vita o la morte” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2563). Quando le parole e le opere non sono in sintonia, allora il nostro cuore è diviso. È l’ipocrisia di cui parla Gesù. L’epiteto “ipocrita” nella lingua classica greca designa l’attore che recita una parte mettendosi la maschera. Chi si comporta con la presunzione di condannare gli altri si rivela un ipocrita, che per dissimulare le proprie miserie si mostra zelante della perfezione altrui. Dio solo è il giudice perché soltanto lui conosce veramente le profondità del cuore umano. All’ipocrisia, alla doppiezza si oppone la sincerità del cuore.

 

In una società, come la nostra, fondata sulla comunicazione orale, le parole non mancano mai. Possiamo ben dire però che oggi troppe parole si vendono a buon mercato. È un chiasso assordante! Si ha poi la sensazione che le parole non hanno valore per quel che esprimono ma per come si dicono. Sembra addirittura che abbia ragione chi grida di più. La parola è svalutata perché non è in armonia col cuore e con la vita. La parola ritroverà tutto il suo valore a condizione che diventi espressiva di fatti, di autentici valori di vita, e ciò è possibile solo se le nostre parole vengono ricollegate alla Parola di verità che è Cristo. Si tratta di accogliere questa Parola nel cuore e attuarla nella vita. È un impegno quotidiano del discepolo di Gesù, una fatica che, come dice san Paolo nella seconda lettura (1Cor 15,54-58) non è vana, perché per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo Dio ci dà la vittoria.

  

domenica 23 febbraio 2025

L’UNICO ED ETERNO SACRIFICIO DI CRISTO


 


Cristo, essendo solidale con l’umanità in senso reale e non metaforico, diviene il perfetto mediatore: egli è come un ponte che ha una base nei cieli, ove Cristo è assiso come Figlio di Dio, e un altro fondamento sulla terra, ove Cristo è fratello degli uomini e delle donne, sofferente come loro e votato come loro alla morte. Proprio questa unità di divino e di umano, fa sì che il suo sacrificio sia incastonato nella storia ma sia anche un atto eterno. Il nostro oratore usa a più riprese (Eb 7,27; 9,12.26.28; 10,10) l’espressione greca ephápax, “una volta per sempre”, per indicare l’intreccio di tempo e di eterno che si consuma sulla croce del Golgota. Il sacrificio di Cristo accade un volta sola, in una data e in un luogo preciso, ma non si esaurisce là.

All’interno di quell’evento, infatti, c’è il seme del divino e quindi di un’eternità che pervade tutti i secoli, sostiene tutte le celebrazioni cristiane, si irradia nella distesa del tempo e dello spazio, alimenta la vita di tutti i credenti, salva le generazioni umane. Un unico sacrificio, ma una presenza ininterrotta; un unico sacrificio che si effonde nella molteplicità dei riti; un'unica alleanza che però coinvolge l’intera umanità. “Con un’unica offerta Cristo ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati” (Eb 10,14).

 

Fonte: Gianfranco Ravasi, Ero un blasfemo, un persecutore e un violento. Biografia di Paolo (Scienza e Idee 370), Raffaello Cortina Editore, Milano 2024, p. 129.

venerdì 21 febbraio 2025

DOMENICA VII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 23 Febbraio 2025

 

 

 

1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23; Sal 102 (103); 1Cor15,45-49; Lc 6,27-38

 

Le letture bibliche di questa domenica al tempo stesso che ci invitano a celebrare la misericordia di Dio, ci propongono di imitarla. Infatti, il vertice dell’insegnamento di Gesù nel vangelo d’oggi è costituito dall’invito a diventare “misericordiosi” come lo stesso Padre celeste è misericordioso. Attraverso questa imitazione di Dio noi ci trasformiamo in figli suoi.

 

La liturgia eucaristica inizia col canto d’ingresso il quale è una fiduciosa e gioiosa confessione di fede nella misericordia di Dio: “Io nella tua fedeltà ho confidato […] Canterò al Signore che mi ha beneficato” (canto d’ingresso - Sal 12,6). La prima lettura ci propone la grandezza di animo di Davide che, pur avendo occasione di eliminare il suo nemico, il re Saul, si mostra misericordioso con lui e lo risparmia perché, nonostante tutto, è “il consacrato del Signore”. Con questo gesto Davide, eminente figura messianica, annuncia il superamento della vendetta e apre la strada al perdono. Gesù nel brano evangelico odierno proclama il suo nuovo comandamento sull’amore che si estende anche ai nemici, che non solo bisogna amare, ma anche fargli del bene, benedirli e per i quali si deve pregare. L’insegnamento di Gesù è fondato su due principi: il primo, preso dalla saggezza degli antichi, dice “come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro”; il secondo è squisitamente teologico e dice “siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Il modello proposto è infinito, è l’amore stesso di Dio. In particolare, il perdono dei nemici è un gesto di bontà, di grandezza e di sapienza, perché è imitazione del modo di agire di Dio, che “è benevolo verso gli ingrati e i malvagi”. Alla fine del brano evangelico viene enunciato il criterio che regola il rapporto dell’agire dell’uomo e quello di Dio: “con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio”. Si fa esperienza dell’amore salvifico di Dio nella misura in cui si è generosi e misericordiosi con gli altri, anche se nemici.

 

Lungo l’anno liturgico ritorna più volte il tema dell’amore come centro della vita cristiana. C’è forse il rischio di assuefarsi al solito e vago discorso che ci richiama ad amarci gli uni gli altri. L’appello di Gesù è però estremamente concreto, realistico, al tempo stesso che esigente e radicale. L’amore cristiano deve essere vissuto in modo profondo e totalizzante, come comportamento interiore ed esteriore che abbraccia tutti, che non esclude nessuno. Se è rivoluzionario l’annuncio delle “beatitudini”, proclamate domenica scorsa, lo è forse anche di più l’annuncio di un amore che insegna ad amare l’altro solo perché è l’altro. Questo ideale sublime lo ha incarnato perfettamente Cristo, l’ultimo Adamo, la cui immagine sarà compiuta in noi con la nostra partecipazione piena alla risurrezione del Signore (cf. seconda lettura). Occorre passare dalla mensa della Parola alla mensa del corpo di Cristo: “nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri […] L’amore può essere ‘comandato’ perché prima è donato” (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 14).

 

 

 

domenica 16 febbraio 2025

LA PRESIDENZA INVADENTE

 



 

Un presidente agisce in modo disturbante quando non rispetta nella sua natura profonda il rito in cui è chiamato a presiedere. Non è infatti il presidente che inventa il rito o ne determina il senso; il rito precede il presidente e gli assegna il compito proprio. La serietà di questa affermazione è connessa con il fatto che nel rito, nella forma pratica che gli è propria, la Chiesa viene disposta a “stare davanti a Dio” ed è associata dallo Spirito all’azione di Cristo nell’invocarlo e nel rendergli lode (cfr. SC 7). Perciò chi presiede un rito non ne è “padrone”, ma è chiamato a svolgere un servizio perché ciò accada. Il “soggetto regolatore” di questa pratica rituale è la Chiesa: essa discerne e trasmette -vero atto di tradizione ecclesiale - il modo di vivere nella forma rituale questa particolare relazione con Dio, in fedeltà alla rivelazione di Gesù Cristo. Oggi questo compito della Chiesa ha la sua manifestazione autorevole nei libri liturgici promulgati. Posiamo quindi ritenere che l’infrazione per eccesso o per difetto dell’ordine rituale previsto dalla Chiesa costituisca potenzialmente un elemento di disturbo perché interferisce sul modo proprio della Chiesa di “stare” davanti a Dio.

Fonte: Luigi Gerardi, “La presidenza invadente”, in Loris Della Pietra (a cura di), La liturgia manomessa (“Caro salutis cardo”. Contributi 39), Edizioni Liturgiche, Roma – Abbazia di Santa Giustina, Padova 2024, pp. 133-134.

 

venerdì 14 febbraio 2025

DOMENICA VI DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 16 Febbraio 2025



 

 

Ger 17,5-8; Sal 1; 1Cor 15,12.16-20; Lc 6,17.20-26

 

Il salmo responsoriale odierno è il primo salmo del salterio, che può essere considerato la chiave di lettura di tutta la collezione dei salmi, una vera introduzione al salterio. Due vie, due destini, due umanità si confrontano: il giusto che ripone la propria fiducia nella legge del Signore è come un albero alto che non vede appassire le sue foglie; l’empio invece è arido come pula dispersa dal vento. Il salmo ci pone di fronte a noi stessi e al conflitto tra il bene e il male che agita la storia dell’umanità e la vita di ognuno di noi. Il ritornello ci invita a scegliere la via della salvezza, a porre cioè la speranza nel Signore; solo in questo modo la nostra vita sarà piena e fruttifera. 

 

Nel breve brano di Geremia (prima lettura) ascoltiamo lo stesso messaggio del salmo responsoriale: “Benedetto l’uomo che confida nel Signore”. Anzi, il salmo responsoriale riprende le parole di Geremia e le sviluppa con nuove immagini. Che senso ha confidare nel Signore, porre la legge di Dio al centro della nostra vita? Che significa scegliere la via non di rado faticosa del bene? “Confidare nel Signore” significa porre il fondamento dell’edificio della propria esistenza in Dio. Il contrario equivale a costruire l’esistenza sulla fragilità ed i limiti delle proprie risorse. Due vie o due possibili scelte. Su questo dualismo legato alle decisioni umane, si articola anche la struttura delle beatitudini, che il vangelo d’oggi ci propone nell’originale versione di san Luca. 

 

Le beatitudini sono l’espressione più genuina del messaggio evangelico, e quindi possono essere considerate come una sintesi della fisionomia morale del discepolo di Gesù. Nel testo che ci offre Luca emerge con insistenza l’esaltazione della povertà che l’evangelista presenta come una chiara esigenza per colui che intende seguire Gesù. Infatti, la prima beatitudine, che definisce e specifica tutte le altre, inizia con queste parole: “Beati voi poveri…”, e in seguito: “Beati voi che ora avete fame…” Nella redazione di san Luca, alla serie delle quattro beatitudini segue poi quella delle quattro maledizioni o dei quattro “guai”: “Ma guai a voi, ricchi… Guai a voi, che ora siete sazi…”. La povertà esaltata dalle beatitudini, pur essendo una vera povertà, non è una misura mortificante di austerità, non è disprezzo dei beni di questo modo; viene piuttosto presentata come una situazione che diventa segno della disposizione totale del cuore dell’uomo che intende seguire Gesù povero e stabilire con lui una vera comunione di vita. Il povero è beato, perché ha le mani e il cuore aperti all’attesa d Dio, che non delude. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci ricorda che “la vera felicità non si trova nella ricchezza o nel benessere, né nella gloria umana o nel potere, né in alcuna attività umana, per quanto utile possa essere, come le scienze, le tecniche e le arti, né in alcuna creatura, ma in Dio solo, sorgente di ogni bene e di ogni amore” (n. 1723). Santa Teresa di Gesù afferma: “a chi possiede Dio non manca nulla: Dio solo basta”.

 

Si potrebbe riassumere il messaggio della parola di Dio in questa domenica con le parole dell’antifona d’ingresso, tratte dal Sal 30: Dio è “mio baluardo e mio rifugio”, o anche col ritornello del salmo responsoriale: “Beato l’uomo che confida nel Signore”; chi confida in Lui, non resterà mai deluso.

 

 

domenica 9 febbraio 2025

LA LITURGIA MANOMESSA

 



Loris Della Pietra (a cura di), La liturgia manomessa (“Caro salutis cardo”. Contributi 39), Edizioni Liturgiche, Roma – Abbazia di Santa Giustina, Padova 2024, 226 pp. (€ 30,00).

Se i primi passi della recezione della riforma liturgica, non senza ingenuità e sbavature, si sono mossi nella consapevolezza di una mutabilità del culto ecclesiale, ora siamo più avveduti, anche grazie agli apporti dell’antropologia culturale, circa la “canonicità” del rito che lo preserva da manomissioni estrose e ne permette il ricorso nel passaggio e nella comunione delle generazioni. La sfida, alla quale dal fronte della riflessione teorica l’istituto di Liturgia Pastorale non si è sottratto, è di celebrare (e di pensare) una liturgia consegnata e ricevuta e, al contempo, che sia ancora riconoscibile, ovvero praticabile dagli uomini e dalle donne di oggi. Se il rito cristiano rimane così, un ordine “predisposto” ma visibile, potrà ancora attestare la precedenza del dono su ogni compito e dichiarare la perenne disponibilità dell’indisponibile.

Contributi di A. Alessio, B. Baratto, G. Bonaccorso, U.R. Del Giudice, L. Della Pietra, L. Girardi, M. Naro, P. Tomatis.

(Quarta di copertina)

venerdì 7 febbraio 2025

DOMENICA V DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 9 Febbraio 2025

 

 


 

Is 6,1-2a.3-8; Sal 137 (138); 1Cor 15,1-11; Lc 5,1-11

 

 

Le letture bibliche di questa domenica ci ricordano che la nostra vita acquista senso e indirizzo quando facciamo una personale esperienza di Dio. Ogni vero incontro con Dio non lascia mai l’uomo come prima, ma lo cambia, lo rende cosciente della propria missione e delle proprie responsabilità. È quello che succede a Isaia nella grandiosa visione ambientata nel tempio di Gerusalemme, di cui ci parla la prima lettura, ed è quello che succede a Pietro e ai suoi compagni Giacomo e Giovanni allorché incontrano Gesù presso il lago di Genesaret (cf. il vangelo): mentre da una parte provano sgomento, perché, come Isaia, davanti alla santità di Dio scoprono il proprio peccato, dall’altra sono affascinati da questo incontro e trovano il senso della loro vita, scoprono la loro missione. Come afferma san Paolo nella seconda lettura, essa consisterà nell’annunciare l’opera di salvezza del Signore. Non c’è missione senza un’esperienza di Dio.

 

La missione d’Isaia, quella di Pietro, di Giacomo e Giovanni, e quella di Paolo nascono da una profonda e personale esperienza di Dio. Colto di stupore per la pesca straordinaria Pietro reagisce come Isaia che vede la gloria del Signore nel tempio di Gerusalemme. Le loro vite da ora in poi saranno profondamente trasformate da questa esperienza. Fare esperienza della vicinanza di Dio è possibile a tutti noi. Se guardiamo con fede il mondo e gli eventi della storia, vi possiamo trovare sempre la trasparenza diafana della rivelazione del Signore. Ma Dio ci si rivela soprattutto attraverso la sua Parola che è il Figlio suo incarnato. Il brano evangelico odierno inizia affermando che la folla faceva ressa intorno a Gesù “per ascoltare la parola di Dio”. È questa stessa parola che ascoltata da Pietro, Giovanni e Giacomo, li trasforma in discepoli di Gesù e continuatori della sua opera. Essi, dice il vangelo, “tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. È l’inizio di una vita nuova che rompe con il passato per proiettarsi verso un futuro affascinante e fecondo. 

 

Il canto al vangelo, tratto da Gv 15,16, ci ricorda che tutti noi siamo stati scelti perché portiamo frutti duraturi di salvezza. La Chiesa ha sempre sentito l’esistenza cristiana come una chiamata, una vocazione: san Paolo afferma un parallelismo reale tra lui che è “apostolo per chiamata” (Rm 1,1) e i cristiani di Roma che sono “santi per chiamata” (Rm 1,7) o quelli di Corinto che sono stati “santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata” (1Cor 1,2). Ogni chiamata è fondata sul fascino e sulla potenza della parola di Dio sperimentata. Ognuno di noi è chiamato personalmente a “lasciare…” per poter “seguire” Gesù ed essere, come dice san Paolo di se stesso, testimone della risurrezione di Cristo. Oggi l’umanità crederà alla risurrezione di Cristo non per i testimoni di ieri ma per quelli di oggi, che siamo tutti noi, solo però se imiteremo quelli di ieri con fedeltà e generosità. Cristo non ha altro corpo visibile che quello dei cristiani, non ha altro amore da mostrare che il nostro.