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domenica 27 luglio 2025

MARIA VENERATA NEI SECOLI

 



 

Corrado Maggioni, Tutte le generazioni ti chiamano Beata. Due millenni di liturgia e pietà popolare (Sapientia ineffabilis 43), IF Press srl, Roma 2025. 380 pp. (€ 25,00).

 

Maria è parte del mistero di Cristo. Lo hanno compreso le prime comunità cristiane e l’hanno celebrata, chiamandola beata! La beatitudine della Madre del Signore sta tutta nell’aver creduto, divenendo matrice di salvezza per ogni generazione. La sua memoria ha infatti permeato le tradizioni oranti di Oriente e Occidente, come si descrive nei nove capitoli di questo libro.

I primi secoli testimoniano le fonti della pietà mariana (Capitolo I), approfondita in epoca patristica come attestato dall’omiletica mariana orientale dei secoli IV-V (Capitolo II) e dalla portata mariana del Natale in Occidente nella tarda antichità e primo Medioevo (Capitolo III). Sono poi le feste in onore di Maria a maturare, nei secoli V-VIII, la venerazione per la Madre di Dio nelle Chiese orientali e occidentali (Capitolo IV). La pietà liturgico-mariana si arricchisce nei secoli VIII-XI (Capitolo V), mentre nei secoli XII-XV sorgono in Occidente altre feste mariane e fiorisce rigogliosa la pietà mariana non liturgica (Capitolo VI). Il percorso continua con le feste mariane dei libri liturgici tridentini e gli sviluppi del Calendario romano nei secoli XVI-XX, senza dimenticare pie pratiche e devozioni (Capitolo VII). Il rinnovamento del Concilio Vaticano II ha riguardato anche la memoria di Maria nell’anno liturgico e nell’odierno Calendario romano, come le particolarità mariane delle altre liturgie occidentali, l’ambrosiana e l’ispano mozarabica (Capitolo VIII). Anche la pietà popolare mariana, ereditata da secoli, è chiamata al rinnovamento alla luce della liturgia, con la quale deve armonizzarsi (Capitolo IX).


(Quarta di copertina)

 

venerdì 25 luglio 2025

DOMENICA XVII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 27 Luglio 2025

 



 

Gen 18,20-32; Sal 137 (138); Col 2,12-14; Lc 11,1-13

 

Il ritornello del salmo responsoriale (“Nel giorno in cui ti ho invocato mi ha risposto”) ci invita a riflettere sulla preghiera, tema che unifica la prima e terza lettura di questa domenica.

 

La prima lettura ci parla della supplica coraggiosa e insistente di Abramo che si rivolge al Signore perché conceda misericordia alle città colpevoli di Sodoma e Gomorra, anche solo per la presenza di alcuni giusti. Purtroppo, però, questi giusti non ci sono. In ogni modo, il testo biblico sottolinea tutto il valore di intercessione di questa preghiera del patriarca, “nostro padre nella fede”; nello stesso tempo sta pure a dire che il Signore riconosce ai “giusti” una vera funzione “salvifica”. San Luca, nel brano evangelico ci racconta che un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e, quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare”. Gesù risponde con la preghiera del Padre nostro e aggiunge due brevi parabole che descrivono l’atteggiamento di fiduciosa perseveranza con cui i discepoli devono rivolgersi a Dio nella preghiera.

 

Notiamo anzitutto che la domanda del discepolo a Gesù è provocata dall’esempio dello stesso Gesù. I discepoli, come ogni ebreo, sapevano pregare, e tuttavia intuivano che c’era qualcosa di diverso nella preghiera di Gesù, un modo nuovo di rivolgersi a Dio. La novità della preghiera cristiana consiste in un nuovo rapporto con Dio, che viene invocato semplicemente come “Padre” in modo familiare: Abbà, caro Padre. L’audacia di Abramo è superata dall’audacia di Gesù e dei suoi discepoli che nel suo nome dicono: Abbà. Le parole di san Paolo (cf. seconda lettura) sembrano spiegarci il perché Dio va invocato come Padre: attraverso la morte di Cristo, Figlio di Dio, i nostri peccati sono stati perdonati, il “debito” con Dio è stato “pagato”; ormai possiamo avere con lui rapporti filiali. Un’antica tradizione raccomanda di recitare il Padre nostro “tre volte al giorno” (Didaché 8,3), mattino, mezzogiorno e sera, come preghiera fondamentale che conserva in noi l’atteggiamento filiale verso Dio. Sintesi di tutto il vangelo, come afferma Tertulliano, il Padre nostro più che una formula da recitare, esprime un atteggiamento da interiorizzare.

 

La preghiera si può compiere più facilmente durante il tempo libero delle vacanze. Non è però una semplice attività da eseguire accanto ad altre. Nella preghiera diventiamo noi stessi nel modo più autentico, ci ritroviamo senza maschera, esprimiamo il nostro nucleo più intimo. Dopo la rivelazione del mistero della preghiera filiale di Cristo, per noi cristiani questo nucleo più intimo è il nostro essere “figli”, con un atteggiamento di piena sottomissione e di altrettanto piena fiducia in Dio, nostro Padre. Pregare non significa cercare di imporre a Dio la nostra volontà, ma chiedergli di renderci disponibili alla sua, al suo progetto di salvezza (“venga il tuo regno”). Troppo spesso le nostre preghiere guardano invece l’immediato, senza incrociare lo sguardo di Colui che sa in cosa consista la nostra felicità.

 

Una visione antropocentrica, frequente oggi, rischia, nei migliori dei casi, di ridurre la preghiera a una semplice attività di riflessione, in vista di un aggiustamento del proprio equilibrio psicologico. La preghiera invece è anzitutto ascolto, non solo della natura, della storia, di se stessi, ma ascolto soprattutto della Parola di Dio. Si potrebbe dire che, se per Dio “in principio è la Parola” (cf. Gv 1,1), per noi “in principio è l’ascolto”. 

 

domenica 20 luglio 2025

IL CASO TRISTE DELL’OMELIA

 



Fabio Rosini, Il caso triste dell’omelia. Rudimenti per un aggiornamento dell’ars homiletica, Lipa Srl, Roma 2025. 239 pp. (€ 17,00).

Don Fabio Rosini è docente di comunicazione e trasmissione della fede alla Pontificia Università della Santa Croce, dove – a partire dalla sua decennale esperienza di predicatore instancabile del Vangelo – offre preziosi contributi per un corretto approccio ad una preparazione omiletica non lasciata all’improvvisazione, mettendo anche in evidenza la problematicità di alcuni modi di predicare.

Il testo si rifà alle lezioni di quel corso, opportunamente adeguate all’esigenze di un’opera che non solo interessa i suoi studenti universitari, ma anche e soprattutto quanti sono chiamati al ministero della Parola.

Il libro è un significativo invito a riconsiderare il dono ricevuto di comunicare la fede, che l’omileta ha il compito di esercitare mettendo la vita e la Parola in relazione a quell’evento escatologico che fa irruzione nell’assemblea eucaristica.

(Quarta di copertina)      

venerdì 18 luglio 2025

DOMENICA XVI DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 20 Luglio 2025

 

 


 

 

Gen 18,1-10a; Sal 14 (15); Col 1,24-28; Lc 10,38-42

 

Gli antichi rabbini consideravano questo salmo una specie di compendio della legge data da Dio ad Israele. Soltanto un cuore semplice, sincero, amante della giustizia, libero da ogni cattiveria riesce a percepire la presenza di Dio nelle vicende di ogni giorno. Soltanto un cuore trasparente, umile e mite, capace di ascoltare la parola del Signore si rende degno di abitare in eterno nella casa del Signore. Le tre letture odierne ci invitano a passare dall’ospitalità che il Signore concede a noi, all’ospitalità che noi siamo chiamati ad offrire a Dio.

 

Il racconto proposto dal vangelo d’oggi è assai noto a tutti. Ci si potrebbe soffermare subito su Marta e Maria, spesso viste arbitrariamente come simboli contrapposti di una vita data all’attività, al servizio, alle opere, come quella di Marta, e di una vita data invece alla preghiera, alla contemplazione, come quella di Maria. È però più opportuno dare uno sguardo anche alle altre letture bibliche, in particolare alla prima. Vediamo infatti che sia la prima lettura che il racconto evangelico parlano dell’ospitalità: quella offerta da Abramo a tre personaggi misteriosi arrivati a casa sua, e quella offerta dalle sorelle Marta e Maria a Gesù. Possiamo quindi affermare che il tema centrale di questa domenica è l’ospitalità: sia Abramo che le sorelle di Lazzaro vengono presentati come modelli di accoglienza dell’ospite. Nei due episodi quest’ospite è Dio stesso. Possiamo perciò circoscrivere l’argomento e dire che si tratta di dare ospitalità a Dio. Non di rado la nostra vita appare frammentata, vuota, in balia degli eventi. Dio può dare senso e armonia alla nostra esistenza. È necessario però mettersi in atteggiamento di ascolto della sua parola, come Maria.

 

Le due sorelle rappresentano due modi diversi, non in contrasto ma complementari, di accogliere il Signore. Non si tratta di proclamare la superiorità della contemplazione sull’azione ma di richiamare sia Marta che Maria all’esigenza dell’ascolto della parola di Dio che deve precedere, alimentare e sostenere ogni scelta religiosa e umana del discepolo di Gesù. Perciò Maria è raffigurata nell’atteggiamento del discepolo davanti al maestro, “ai piedi del Signore” mentre ascolta la sua parola. Abbiamo bisogno di nutrire in noi un atteggiamento di ascolto della parola di Dio, sia che la nostra vita sia come quella di Marta, indaffarata in un lavoro che assorbe, o come quella di Maria, soli nell’interno di una casa quotidiana e solitaria. Nella seconda lettura, Paolo, che ha ricevuto da Dio la missione di “portare a compimento la sua parola”, ci ricorda che l’ascolto di cui parliamo porta all’impegno nel quotidiano. Anche il canto al vangelo parla di “coloro che custodiscono la parola di Dio” e “producono frutto con perseveranza” (cf. Lc 8,15). Non ha senso la contrapposizione tra ascoltare e darsi da fare, tra contemplare e agire. Si tratta di due momenti che si compenetrano a vicenda. L’ascolto della Parola offre le motivazioni profonde che danno senso al servizio. Ecco, quindi, che ci viene offerta una linea per dare unità alla vita: l’ascolto. Tutti abbiamo bisogno di ascoltare la parola del Signore, che è capace di avvolgere di luce nuova il nostro lavoro, il nostro riposo, le nostre preoccupazioni, le nostre lotte quotidiane. 

 

domenica 13 luglio 2025

UN “MONASTERO DEI NON CREDENTI”?

 



 

Devo riconoscere che l’esistenza di luoghi che richiamino la trascendenza, in un mondo così preso dalle questioni del quotidiano e dalla corsa al successo che si misura in quantità di moneta, è di stimolo e di richiamo a questa dimensione dimenticata.

Tale convinzione ha una lunga storia. E forse il segno più esplicito di questo bisogno si lega all’idea di un “monastero dei non credenti”, un luogo di “fuga”, o meglio di “rifugio” temporaneo, lontano dal mondo in cui dedicarsi alla ricerca di Dio partendo da se stessi, dalla propria interiorità, dai segni, dall’impronta che il Creatore deve aver lasciato da qualche parte nella mente umana.

Il mondo terreno è oggi ricco di attrazioni e ha un grande fascino. Si aggiunga la tecnologia che crea ambienti digitali e community attraenti come i social network.

Richiami a Dio e al cielo sono quindi utili, anche se dovrebbero limitarsi a luoghi di totale libertà, di libera ricerca, senza imposizioni, privi di richiami che finirebbero per rappresentare altre distrazioni.

Il “monastero dei non credenti” ha ancora per me un grande fascino. Anche perché in questo monastero si può scoprire di essere credenti. Un luogo dove fare esperienza di Dio. E basta. Lo si può incontrare dappertutto, ma è più facile qui che in un pub di Londra.

 

Fonte: Vittorino Andreoli, Preghiera del non credente, TS, Milano 2025, pp. 8-86.    

 

venerdì 11 luglio 2025

DOMENICA XV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 13 Luglio 2025

 



 

 

Dt 30,10-14; Sal 18; Col 1,15-20; Lc 10,25-37

 

Il tema del comandamento dell’amore vicendevole, di cui parla il brano evangelico, ci viene proposto più volte lungo l’anno liturgico. Si tratta della legge fondamentale del credente, quella legge di cui Mosè tesse le lodi nella la prima lettura. Alla domanda del dottore della legge su che cosa debba egli fare per ereditare la vita eterna, Gesù non risponde ma rimanda l’interlocutore a ciò che sta scritto nella Legge di Mosè e che lo stesso dottore della legge riassume bene così: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. Partendo dall’amore di sé e da quello di Dio, diventa autentico l’amore per l’altro. Diversamente, c’è il pericolo di amare il prossimo, presentandogli il conto. La novità però dell’insegnamento di Gesù sta nella risposta alla seconda domanda formulata dallo scriba: “chi è il mio prossimo?”, questione dibattuta dal rabbinismo. A questa domanda Gesù risponde con la splendida parabola del Samaritano. Con questa parabola Gesù invita a superare ogni diatriba teorica ed evasiva sul contenuto reale da dare al termine “prossimo”: ogni uomo che si trova nel bisogno sia esso amico o nemico, è “prossimo” a tutti gli altri uomini che, in qualsiasi maniera, vengono in contatto con lui.  

 

Cosa fa il Samaritano? Prima di tutto si ferma perché si muove a compassione, che qui è vero amore. Per chi ha sempre troppo da fare, preso dai propri interessi, fermarsi per interessi altrui significa accorgersi che esiste un altro, che soffre e che è nel bisogno. In secondo luogo, si fa vicino all’uomo sofferente, non solo fisicamente ma anche con una vicinanza affettiva: se i cuori sono distanti, la vicinanza fisica non serve. In terzo luogo, si prodiga nei primi aiuti, cioè si rimbocca le maniche e offre un aiuto concreto. Finalmente, il buon Samaritano si assicura che il suo assistito possa ricuperarsi pienamente dalla disavventura. Non si accontenta di fare una buona azione, ma si preoccupa dell’individuo incontrato per caso affinché questi possa ritornare alla vita normale.

 

Nella seconda lettura si parla di Cristo “immagine del Dio invisibile”, espressione perfetta del volto del Padre, e perciò anche del suo amore infinito. Nel malcapitato della parabola i Padri della Chiesa vedono l’umanità peccatrice e nel buon Samaritano vedono il Cristo, che su tale umanità si china per prendersene cura. In Cristo Dio si è fatto “vicino” (cf Rm 10,5-10) e in lui e con lui è possibile amare il prossimo. Nell’eucaristia “l’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Solo a partire da questo fondamento cristologico - sacramentale si può capire correttamente l’insegnamento di Gesù sull’amore” (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 14).

 

domenica 6 luglio 2025

UN RITO NON RITUALE?

 



“Benedizione pastorale” è il nome dato alla nuova modalità di benedizione introdotta dal Dicastero per la dottrina della fede con la dichiarazione Fiducia supplicans sul senso pastorale delle benedizioni (18/12/2023), che venne commentata dopo pochi giorni, il 4 gennaio 2024, in un Comunicato stampa emanato per “aiutare a chiarire la ricezione”. Francesco Pieri fa delle considerazioni interessanti al riguardo in un breve articolo pubblicato in Rivista di pastorale liturgica (Liscia, solenne o… pastorale? Il crinale sottile del benedire senza approvare: RPL n. 368, 1/2025, pp. 37-41). Di questo testo riproduco in seguito le conclusioni (senza le note a pie pagina).

Alla precisa domanda su “come potrebbero essere queste benedizioni” il card. Fernández ha proposto l’esempio di una coppia di divorziati passati a nuova unione: Il sacerdote può recitare una semplice orazione come questa: “Signore, guarda a questi tuoi figli, concedi loro salute, lavoro, pace e reciproco aiuto. Liberali da tutto ciò che contraddice il tuo vangelo e concedi loro di vivere secondo la tua volontà. Amen”. E conclude con il segno della croce su ciascuno dei due. Si tratta di dieci o quindici minuti.

Notiamo come la mancanza di un testo prestabilito non coincide con l’assenza di un “rito” (sia pure ridotto ai minimi termini) che si esprime nella preghiera e nel gesto benedicente. La stessa dinamica della benedizione rimane ben riconoscibile: in risposta ad un’invocazione di aiuto (dimensione ascendente), si formula una preghiera – rigorosamente spontanea – che personalizza l’annuncio kerygmatico dell’amore di Dio (dimensione discendente). Viene nella sostanza proposto un “rito non rituale”, ossimorico nella sua stessa pretesa malgrado i notevoli sforzi concettuali compiuti. Non c’è da stupirsi del pesante, ma assolutamente prevedibile “contraccolpo” ecumenico (forse non ponderato a sufficienza nella fase di preparazione della dichiarazione), subito manifestatosi nella reazione risolutamente negativa della chiesa ortodossa greca e dello stesso Bartolomeo I, nonché nella interruzione di ogni dialogo con la chiesa cattolica da parte della chiesa ortodossa copta.

Dirò in conclusione come – a mio avviso – anche un gesto estemporaneo e che prescinde intenzionalmente da ogni presupposto di ordine morale non pare comunque esimere il ministro da un certo impegno previo volto a conoscere la vicenda e le condizioni di vita di coloro che richiedono la benedizione, il loro grado di formazione e di consapevolezza riguardo al gesto che intendono compiere. Nel loro carattere prevalentemente negativo, le indicazioni in merito alla estemporaneità della formula e quelle sul contesto informale dello svolgimento di una “benedizione pastorale” intendono lasciare aperto all’interpretazione e alla prassi un campo molto ampio, che può andare dalla conoscenza dei soggetti tramite una regolare consuetudine di dialogo alla quai mancanza di elementi precisi di valutazione. È in questo spazio che la prassi e la discretio pastorale hanno una parte decisiva da svolgere.

venerdì 4 luglio 2025

DOMENICA XIV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 6 Luglio 2025

 



 

 

Is 66,10-14c; Sal 65 (66); Gal 6,14-18; Lc 10,1-12.17-20

 

Le tre letture parlano della salvezza, della realtà nuova che Dio ha operato in noi. Nel vangelo vediamo che Gesù invia i suoi settantadue discepoli (tanti quanti sono le nazioni pagane secondo Gen 10) in missione di “pace”, a “curare i malati” e ad annunciare: “È vicino a voi il regno di Dio”. Che cos’è il regno di Dio? Per rispondere a questa domanda, iniziamo dalla prima lettura, la quale riporta un brano profetico pronunciato in un momento difficile per la storia d’Israele: dopo l’esilio di Babilonia, la situazione di coloro che sono ritornati a Gerusalemme è disperata; praticamente c’è penuria di tutto. È il momento impegnativo della ricostruzione. In questo contesto, il profeta annuncia un futuro di gioia e di benessere. Quale rapporto ha tutto ciò col regno di Dio? Quando la Bibbia parla del regno di Dio usa un concetto molto generale. Esso comprende anche l’appagamento di quei desideri umani che sorgono nei cuori degli uomini e nutrono le speranze dei popoli specie nei momenti di prova. Così si oppongono al regno di Dio la malattia, la morte, la povertà opprimente, la fatica, l’oppressione politica e sociale, la guerra. Possiamo quindi affermare che quando il profeta consola i rimpatriati da Babilonia e annuncia un futuro migliore, la prospettiva di fondo è quella del regno di Dio, quella situazione ideale di salvezza che tutti speriamo di poter raggiungere. Ciò che è tipicamente cristiano del regno di Dio è che il raggiungimento di un tale traguardo non è sperato solo in quanto frutto dell’opera umana, ma come dono che Dio ha promesso definitivamente per mezzo di Cristo.

 

Nel brano della seconda lettura, san Paolo annunzia al centro del suo vangelo la croce di Cristo, sorgente dell’essere “nuova creatura”. Il regno di Dio, di cui stiamo parlando, si realizza anche attraverso la via della croce. La croce assume in sé tutta la violenza dell’uomo, anzi essa è il risultato tenebroso dell’azione stessa di satana, ma nello stesso tempo la croce afferma la vittoria definitiva dell’amore di Dio sulle tenebre del peccato e della morte. È solo la conformità esistenziale alla croce, che ci unisce intimamente al Cristo glorioso.

 

Il messaggio di questa domenica lo si può riassumere in tre immagini: la gioia che scende su Gerusalemme, di cui parla il profeta, e anche la gioia che, secondo il vangelo, riempie il cuore dei settantadue discepoli al ritorno della missione; la cura dei malati come segno del regno di Dio che è vicino; la croce che ci rende partecipi della passione di Cristo e non veniamo meno perché sappiamo di essere partecipi anche della sua forza e della sua risurrezione. Tre immagini della salvezza, della realtà nuova, della nuova creatura, del regno di Dio.