Giuseppe
Ungaretti, in una strofa della sua poesia “I Fiumi” scriveva: “Il mio supplizio
è quando non mi credo in armonia”. Quando partecipo a certe celebrazioni della
Messa piene di parole, canti, rumori e movimenti, mi viene in mente questo
testo che il grande poeta scrisse nel 1916, cento anni fa. In siffatte celebrazioni
non mi sento in armonia con me stesso e con gli altri.
Qualcuno
ha scritto: “la musica che mi piace dii più è il silenzio”. Intendiamoci, non
si tratta di costruire celebrazioni silenziose in cui il prete di spalle al
resto dell’assemblea mastica silenziosamente le parole del Messale ed i fedeli
si immergono nei loro pensieri talvolta lontani dalla proposta rituale. Si
tratta piuttosto di eseguire il rito con “armonia”.
Ci
sono silenzi che non costruiscono armonia, silenzi malvagi come diceva Martin
Luther King: “La nostra generazione non si rammaricherà tanto dei crimini dei
perversi quanto del imbarazzante silenzio dei buoni”. Ci sono silenzi che
possiamo chiamare perversi perché distruggono l’armonia del rito, come, ad
esempio, quelle Messe in cui nessuno risponde alle parole che il sacerdote
rivolge ai fedeli presenti al rito: “il Signore sia con voi”...; “rendiamo grazie
al Signore, nostro Dio”...; “Mistero della fede”...; ecc. Quante volte nelle Messe
dii funerale, il povero prete si trova dinanzi ad assemblee mute…
Ci
sono invece silenzi che costruiscono armonia. Silenzi previsti dal libro
liturgico, che vanno rispettati senza però prolungarli in modo tale da
interrompere il ritmo della celebrazione. Questi silenzi sono parte della celebrazione, non pause inserite nella celebrazione. C’è
poi un modo che possiamo chiamare discreto, mite, silenzioso, lento di
adoperare la parola e gli altri linguaggi del rito. La lentezza immerge il partecipante
nel cuore della celebrazione, pone i dettagli del rito all’altezza dei sensi e
offre i mezzi per appropriarsene subito. Un rito pieno di parole e consumato in fretta è
“indigesto”.