At
4,8-12; Sal 117; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18
Il brano evangelico presenta Gesù come buon
pastore che spontaneamente offre la vita per le pecore, a differenza di tutti
gli altri, semplici mercenari che badano soltanto nel loro egoismo a sé stessi.
Per questo, san Pietro afferma in pieno sinedrio, dopo aver guarito lo storpio
nel nome di Gesù Cristo, che “non vi è sotto il cielo altro nome dato agli
uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (prima lettura). Grazie a
lui, aggiunge san Giovanni, siamo “chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente”
(seconda lettura). Questa è la “buona notizia” che annuncia la Pasqua. Il
contenuto di questa notizia lo possiamo esprimere con queste altre parole: Dio
in Cristo viene incontro a noi per offrirci la sua amicizia, senza badare ai
nostri meriti, alla nostra bontà o cattiveria. La morte di Gesù è un atto di amore
e di libertà. Gesù è l’insuperabile manifestazione dell’assoluto amore di Dio
per tutti gli uomini senza distinzioni, anche per quelli che non appartengono a
“questo ovile”. La prospettiva universale dell’amore salvifico del Signore si
estende a tutto il genere umano. Nell’Antico Testamento, Dio si esprime per
bocca del profeta Osea con queste parole: “Il mio cuore si commuove dentro di
me, il mio intimo freme di compassione” (Os 11,8). Il cuore di Dio non cessa di
ripeterci queste parole attraverso il cuore trafitto del Figlio.
Nel brano evangelico odierno, Gesù non si
paragona solamente a “un” buon pastore, ma è “il” buon Pastore. Intrattiene con
le sue pecore relazioni di conoscenza reciproca, fondate sull’amore che il
Padre ha per loro come per lui. Poiché gli appartengono, si prende cura di loro
e le difende coraggiosamente da ogni pericolo. Ha dato la sua vita per loro,
per far sì che non vi sia più che un solo gregge, così come non vi è che un
solo Pastore. Questo insieme di tratti rinviano al mistero pasquale che ne
svela pienamente il significato. L’immagine del buon pastore forse dice poco a
noi, figli di una società industriale e democratica; per alcuni anzi potrebbe
risultare offensivo l’essere paragonati ad un “gregge”. Dobbiamo quindi soffermarci
sulla sostanza sempre attuale tramandata dall’immagine del buon pastore, che è
il dono della vita. Gesù ha come fondamentale obiettivo non la difesa della
propria vita, ma quella degli altri; per la nostra redenzione ha impegnato
tutto se stesso. Di conseguenza “gregge” e “pecore” non evocano assolutamente
una folla di discepoli senza personalità, che seguono il loro pastore e gli
obbediscono passivamente belando. Ognuno di noi è chiamato a diventare
partecipe della realtà di Cristo nella misura in cui la sua vita diventa
veramente dedita, offerta, data per gli altri. C’è più gioia nel dare che nel
ricevere!
Nell’assemblea eucaristica, convocata e riunita
dal buon Pastore che la presiede, Egli nutre con il suo corpo e il suo sangue
coloro che hanno ascoltato la sua voce.