La vita comunitaria è molto più che una
istituzione. È la realizzazione di un modo di rapportarsi, insito nel disegno
di Dio creatore, che è stato minacciato fin dall’inizio della storia, a causa
del ripiegarsi dell’uomo su se stesso, dell’egoismo e della lotta per il
potere. Da qui sono sorte le invidie, le divisioni e le guerre fratricide. Ecco
perché Gesù conclude la sua esistenza con la morte in croce “per riunire
insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). D’allora la comunità dei
discepoli di Gesù sarà perseverante “nell’insegnamento degli apostoli e nella
comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere […] Tutti i credenti
stavano insieme e avevano ogni cosa in comune […] Ogni giorno erano
perseveranti insieme nel tempio e spezzando il pane nelle case, prendevano cibo
con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il
popolo” (At 2,42.44.46-47). Da notare in questa descrizione della vita della
primitiva comunità di Gerusalemme, l’armonia tra celebrazione del culto e vita
comune.
La celebrazione
liturgica è un fatto comunitario e insieme personale, che impegna il
coinvolgimento libero e responsabile dei singoli partecipanti nell’azione
cultuale che è essenzialmente e costitutivamente ecclesiale. Parlare di partecipazione
interna e di partecipazione esterna come di due momenti diversi e separabili, è
ambiguo e deviante. Il Concilio Vaticano II ha avuto il merito di condensare in
una espressione lapidaria e ormai nota le modalità della partecipazione: “per ritus et preces id [= mysterium fidei] bene
intellegentes” (SC
48): “comprendendo bene [il mistero della fede] nei suoi riti e nelle sue
preghiere”. I riti e le preghiere non sono una realtà esterna, ma sono la
mediazione con cui si accede al mistero che si celebra. La stessa comprensione
di cui parla il testo non si ferma ai riti, né raggiunge il mistero della fede
senza di essi; al contrario, si comprende il mistero della fede proprio
attraverso i riti e le preghiere con cui si celebra.
Il rito comprende
parola e gesto, e deve essere interpretato come azione. È famosa l’affermazione
dell’intellettuale africano del Senegal Léopold Senghor: “Gli occidentali
dicono (con Renato Cartesio): penso, quindi sono; noi africani diciamo: danzo,
quindi esisto”. Dobbiamo ricuperare il valore del rito, azione simbolica, come
strumento di partecipazione e via attraverso cui entriamo nella profondità del
mistero.
Il teologo irlandese
Thomas O’Loughlin, con un suo stile molto particolare, afferma che benché si
potrebbe partecipare grazie ad un ascolto orante e ad un’attenzione assorta e
silenziosa, noi siamo il popolo dell’incarnazione, dei corpi tanto quanto delle
menti e dello spirito (Cf. Th. O’Loughlin, Riti corretti. Perché
celebrare bene conviene, Queriniana, Brescia 2020, 77). E, come nota
Aristotele, ci impegniamo maggiormente in ciò che ci coinvolge attraverso i
sensi: più veniamo coinvolti mediante i cinque sensi, più siamo interessati a
quel che accade intorno a noi.
Una celebrazione è intessuta di segni e di simboli, di parole e di azioni (cfr.
CCC 1145 e 1153). La partecipazione si svolge attraverso questi diversi
linguaggi.
Papa Francesco ha detto: “La liturgia non è “il campo del fai-da-te”, ma
l’epifania della comunione ecclesiale. Perciò, nelle preghiere e nei gesti
risuona il “noi” e non l’“io”; la comunità reale, non il soggetto ideale” (Discorso
alla Plenaria della CCDDS, 14.02.2019). La celebrazione liturgica ci
sradica dal nostro individualismo e ci educa a stare insieme, a condividere, a
pregare insieme. L’individualismo soffoca il senso della comunità.
L’eucaristia è presenza di Cristo, memoria efficace del suo sacrificio y
comunione ad esso. In tempi passati queste tre dimensioni dell’eucaristia
(presenza, sacrificio e comunione) sono state vissute talvolta come devozioni
private e separate: così dal secolo XII/XIII in poi la presenza di Cristo era
adorata nelle esposizioni del Santissimo, ma la comunione era una prassi
privata fatta poche volte e fuori della messa. La liturgia ci insegna a vivere
queste tre dimensioni dell’eucaristia in modo unitario e comunitario. Se le
separiamo sarebbe come illudersi di poter gustare una parmigiana di melanzane,
mangiando prima il pomodoro, poi le melanzane e poi la mozzarella, gradevoli
anche separatamente ma niente a che vedere con il gusto di una buona
parmigiana.
Caratteristica della modernità è una forte e crescente disaffezione verso
il rito, la tradizione e il linguaggio simbolico, che va di pari passo con la
crescita dell’individualismo. E ciò viene da lontano. Secondo alcuni studiosi,
nella storia culturale e religiosa europea degli ultimi secoli c’è stata una
tendenza a la comprensione fredda e intellettuale della religione e
conseguentemente della liturgia. Anzitutto troviamo una progressiva
“razionalizzazione” della religione e un primato attribuito alla ragione a
partire dall’illuminista Immanuel Kant, secondo il quale l’essenza della
religione è la “fede razionale”, o meglio una ragione che sappia controllare la
fede. Friedrich Schleiermacher, uno dei massimi rappresentanti del romanticismo
tedesco, volendo combattere il razionalismo di Kant, esalterà l’esperienza
religiosa, concepita però come “pura esperienza interiore” e questa
interpretata come semplice “sentimento”. In questo modo, se tutto viene interiorizzato,
la liturgia come rito perde la sua capacità simbolica. Ciò spiegherebbe la
crescente “testualizzazione” della liturgia a scapito della sua dimensione propriamente rituale (Cf. Aldo Natale Terrin, Liturgia come gioco, Morcelliana 2014, 11-16).
Alcuni anni fa, la Congregazione per la Dottrina della Fede nella Lettera
Placuit Deo (22.02.2018) su alcuni aspetti della salvezza cristiana,
quando si descrive l’impatto delle trasformazioni culturali attuali sul
significato della salvezza cristiana, si afferma: “si diffonde la visione di una salvezza meramente interiore, la quale
suscita magari una forte convinzione personale, oppure un intenso sentimento,
di essere uniti a Dio, ma senza assumere, guarire e rinnovare le nostre
relazioni con gli altri e con il mondo creato. Con questa prospettiva diviene
difficile cogliere il senso dell’Incarnazione del Verbo, per cui Egli si è
fatto membro della famiglia umana, assumendo la nostra carne e la nostra
storia, per noi uomini e per la nostra salvezza”. Quindi, per quanto a noi riguarda qui, si
tratta di un tipo di spiritualità che non guarisce e non rinnova le nostre
relazioni con gli altri, non crea uno spirito comunitario.
La liturgia invece è un antidoto contro l’individualismo. Alla
celebrazione cultuale siamo convocati come comunità e in essa siamo coinvolti
in una azione comunitaria che, a sua volta, può rinvigorire i nostri legami
come comunità.