Nelle antiche religioni pagane
la divinità è concepita a immagine e somiglianza degli esseri umani. Così, ad
esempio, gli dei dell’Olimpo, venerati dagli antichi greci e anche dagli
etruschi che assorbirono la mitologia greca, venivano immaginati con le
sembianze umane e con abitudini di vita simili a quelle degli uomini. Avevano
qualità e poteri sovrumani, ma allo stesso tempo possedevano i difetti tipici
degli umani. Invece nella Bibbia ebraico-cristiana è l’essere umano ad essere
concepito a immagine e somiglianza di Dio. Leggiamo nel libro della Genesi:
“Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza’”
(Gen 1,26). Ecco, quindi, che l’antropomorfismo con cui si esprime la Bibbia,
non significa che Dio sia come uno di noi, ma è semplicemente il modo con cui
Dio diventa in qualche modo comprensibile a noi. Infatti, Dio è trascendente e
irraggiungibile. Dice san Paolo che Dio “abita una luce inaccessibile: nessuno
fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo” (1Tm 6,16). Quando parliamo
quindi di Dio, nel nostro caso della misericordia di Dio, bisogna aver sempre
presente questo divario che c’è tra Lui e noi. Il nostro linguaggio è inadeguato
ad esprimere ciò che Dio è. A questo proposito, Papa Francesco in una delle sue
omelie a Santa Marta, a proposito della misericordia di Dio, ha detto: “Dio ci
perdona come Padre, non come un impiegato del tribunale”
“Paziente e misericordioso” è
il binomio che riassume meglio la descrizione che di Dio fa l’Antico
Testamento. Il suo essere misericordioso trova riscontro concreto in tante
azioni della storia della salvezza dove la bontà prevale sulla punizione. “Il
suo amore è per sempre” è il ritornello che viene riportato ad ogni versetto
del Sal 136 mentre si narra l’agire di Dio nella creazione e nella storia
d’Israele.
Il Figlio di Dio incarnato,
Gesù Cristo, è il volto della misericordia del Padre. La missione che Gesù ha
ricevuto dal Padre è stata quella di rivelare il mistero dell’amore divino
nella sua pienezza. “Dio è amore” (1
Gv 4,8.16), afferma per la prima e unica volta in tutta la Sacra
Scrittura l’evangelista Giovanni. Questo amore è ormai reso visibile e
tangibile in tutta la vita di Gesù. I segni che egli compie, soprattutto nei
confronti dei peccatori, delle persone povere, escluse, malate e sofferenti,
sono all’insegna della misericordia. Tutto in Lui parla di misericordia. Nulla
in Lui è privo di compassione.
Quando si leggono i vangeli,
si resta sorpresi nel constatare con quanta frequenza Gesù lascia trasparire la
sua compassione di fronte alle più diverse situazioni umane di sofferenza,
fisica o morale che sia. Nel linguaggio del Vangelo, compassione è una parola
che ha a che vedere con le “viscere”: “essere commosso fino alle viscere”. È un
sentimento, o meglio uno sconvolgimento che prende nell’intimo viscerale
appunto. E Gesù passa dal sentimento all’intervento, all’azione concreta.
L’evangelista Luca parla
frequentemente della misericordia/compassione; il suo Vangelo è stato chiamato
il Vangelo della misericordia. Qui vorrei invitarvi a ricordare tre passaggi in
cui il tema della misericordia è in primo piano: il racconto della risurrezione
del figlio della vedova di Naim (Lc 7,11-17), e due parabole: quella del buon
Samaritano (Lc 10,25-37) e quella del padre misericordioso nei confronti del
figlio prodigo (Lc 15,11-32). Questi tre brani hanno un significato, un
messaggio, che va aldilà delle situazioni concrete raccontate. Vi troviamo le
situazioni umane più tipiche:
La morte, nella sua
manifestazione più drammatica e con quel clima di angoscia che sconvolge i
protagonisti: un giovane dinanzi alla morte e una madre che perde il suo unico
figlio; la malvagità umana, o meglio, le sue infinite vittime abbandonate sul
ciglio di tutte le strade del mondo; le situazioni di perdizione, nelle quali
gli individui, più o meno coscientemente, hanno svenduto la propria dignità e
si ritrovano così umiliati nell’intimo da non riuscir più nemmeno a
sperare.
Dio è misericordioso, ma è
anche giusto. Come si possono conciliare questi due attributi divini? Noi siamo
inclini a parlare della giustizia di Dio interpretandola semplicemente come una
giustizia giudiziaria, secondo le nostre categorie giuridiche. Secondo la
Bibbia però la giustizia divina non può ridursi all’esercizio di un giudizio.
San Paolo ci ricorda che Dio “vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano
alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4). La giustizia di Dio è anzitutto
misericordiosa fedeltà alla sua volontà di salvezza. Possiamo dire che Dio è
giusto perché è fedele alla sua alleanza con l’umanità, anche quando noi siamo
infedeli ad essa. Per capire meglio questo concetto di giustizia divina,
occorre anche dire che la misericordia di Dio è possibile soltanto se è unita
al suo perdono. La misericordia senza perdono non avrebbe senso; al massimo
manifesterebbe un sentimento che assomiglia alla tolleranza o, peggio,
all’indifferenza. Potrebbe perfino essere fraintesa, e colui che ne è
beneficiario potrebbe pensare che gli è andata bene, non imparando nulla dai
suoi errori. Provvidenzialmente, finché si vive, l’atteggiamento offensivo
dell’uomo è ricambiato dall’amore misericordioso di Dio, che lo richiama
continuamente invitandolo a ravvedersi.
E l’inferno? E’ nota la
battuta di Hans Urs von Balthasar: “L’inferno c’è, ma
è vuoto”. Ma come si concilia l’esistenza dell’inferno con l’infinita
misericordia di Dio? Il Catechismo della
Chiesa Cattolica risponde con le parole seguenti: “Morire in peccato
mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di
Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera
scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio
e con i beati che viene designato con la parola ‘inferno’” (n. 1033). Dio ci ha creati liberi e responsabili, e
quindi rispetta le nostre decisioni. L’inferno è la possibilità negativa che si
possa perdere consapevolmente la salvezza eterna.
San Paolo nella sua prima
Lettera ai cristiani di Corinto, dopo aver denunciato gli scandali provocati da
alcuni in quella comunità, si fa una domanda retorica: “Devo venire da voi con
il bastone o con dolcezza d’animo?”. Certamente san Paolo va a Corinto con un
cuore misericordioso È innegabile che oggi si preferisce parlare più della
misericordia di Dio piuttosto che della sua giustizia. E ciò è vero anche a
livello del supremo magistero della Chiesa. Ricordiamo l’enciclica Dives in misericordia di Giovanni Paolo
II (anno 1980); l’enciclica Deus caritas
est di Benedetto XVI (anno 2005) e il magistero di papa Francesco
culminante nella iniziativa di indire un Giubileo straordinario della
Misericordia. Forse gli uomini e le donne di questa nostra epoca abbiamo più
bisogno non tanto di temere un Dio giusto, quanto di confidare in un Dio
misericordioso. D’altra parte, confidare nella misericordia di Dio non nega
certo la sua giustizia; semmai, la esalta.
La misericordia di Dio ci
insegna che è importante non chiuderci nelle nostre sofferenze, nei nostri
piccoli o grandi problemi, al fine di poter accogliere le sofferenze ed i
problemi degli altri. Papa Francesco adopera frequentemente l’espressione
“uscire da se stessi”. Uscire da se stessi, da un modo di vivere la fede stanco
e abitudinario, dalla tentazione di chiudersi nei propri schemi mentali che
finiscono per chiudere l’orizzonte dell’azione creativa di Dio. Dio è uscito da
se stesso per venire in mezzo a noi, ha posto la sua tenda tra noi per portarci
la misericordia che salva e dona speranza. Gesù, dopo il discorso sulle
beatitudini, dice a tutti noi: “Siate misericordiosi come il Padre vostro è
misericordioso” (Lc 6,36).
Con Platone, ma poi
soprattutto con lo stoicismo, che considerava la compassione e la misericordia
come una malattia dell’animo – aegritudo
animi – la filosofia aveva considerato la misericordia alla pari di una
debolezza umana (cf. Apologia 34c
ss.) che si opponeva ad un comportamento guidato dalla ragione. Per il
cristianesimo invece la misericordia è la virtù dei forti, di coloro che,
dimentichi di sé, sono capaci di avvicinarsi con uno sguardo compassionevole
alle miserie degli altri.
M. Augé