Il rito è legato a un fare,
a un'azione che la liturgia rappresenta, espone e richiede i movimenti del
nostro corpo. La liturgia è anche linguaggio del nostro corpo; è
un'affermazione che trova ancora difficoltà ad essere consapevolmente assunta nella
dimensione liturgica protestante.
Parola e rito. gesti e simboli,
partecipano tutti alla costruzione di un ordine di senso nell'ambito liturgico.
È noto che il linguaggio rituale si situa lungo un'asse pragmatico più
che semantico; funziona al livello dei significanti e delle figure
che esso forma, e non in primo luogo, al livello dei significati e
dei “contenuti” “ideali”. La legge fondamentale della liturgia, come ricorda Chauvet
è: “Non dite ciò che fate, fate ciò che dite”. Tanto più, dunque, è necessario
che la comunità sappia ciò che sta facendo! In questa prospettiva una lettura
protestante del rito richiede un’integrazione non secondaria: “Fate ciò che dite…
ma capite ciò che fate!”. Il capire ciò che si fa tiene aperta la
dimensione ermeneutica del fare e combatte i rischi insiti nella ripetitività
rituale che funziona anche senza l’intelligibilità.
Il rito è però anche sempre legato
a un sistema di valori, a un “plusvalore simbolico” (W. Jetter) che lo rende
strumento di integrazione simbolica. Il rito stabilisce il confine tra
appartenenza e non appartenenza; nell’ambito del culto cristiano il rito
partecipa alla costruzione delle “notae ecclesiae” in quanto rende
visibile la comunità di fede (Gv 17,16). In questo processo di integrazione
comunitaria a cui partecipa il rito, si struttura anche l’io del singolo
credente in un processo di autoidentificazione, di rassicurazione e di
protezione. Ma perché non nascano delle false sicurezze, anche questo “plusvalore
simbolico” del rito ha bisogno di essere costantemente interrogato dalla
dimensione della parola.
Fonte: Ermanno Genre, Il
culto cristiano. Una prospettiva protestante (Piccola Biblioteca Teologica
66), Claudiana, Torino 20222, pp. 163-164 (non sono riportate le note)..