A differenza del Credo, che
prevede un “io” come soggetto di quella che è una dichiarazione, la preghiera
eucaristica si esprime nel “noi”, che ha per soggetto l’intera assemblea, anche
se uno solo proclama a titolo comune. Il termine “sacerdote” per indicare il singolo
che prega a nome di tutti, va considerato nel suo mero uso colloquiale,
bisognoso di molti distinguo. Nella storia cristiana, infatti, non sono mancati
i momenti in cui si sono reintrodotti quegli elementi di interdetto e di
mediazione tipici di una sacralità che la liturgia cristiana ha sempre voluto
superare. Per secoli il “sacerdote” è tornato ad essere nei fatti un mediatore
del sacro, vecchia maniera. Essere speciale e separato, egli era il solo a
poter maneggiare le cose sante, è l’unico, sostanzialmente, a rendere vera e
valida la celebrazione.
La logica del sacro, le cui radici
antropologiche affondano dentro profondità che a stento controlliamo, sta
sempre in aguato. Il canone della preghiera però vigila più di noi, e nella
parola prescritta tiene fermo quello che è dirimente. Quindi essa ci ricorda
che magari uno presiede, ma a celebrare sono tutti. Anche quello
che sta in fondo alla chiesa, nascosto dietro al confessionale, e non lo sa. Il
popolo sacerdotale è anche santo, non perché tutti sono santi, nel senso
convenzionale del termine, ma in virtù dell’essere parte di un organismo che è
la santità di Gesù a qualificare nella sua interezza.
Fonte: Giuliano Zanchi, Preghiera e liturgia; San Paolo, Cinisello Balsamo 2024, pp. 66-67.