La parola “sacrificio” non
compare in nessuno dei quattro racconti dell’istituzione dell’Eucaristia e non
viene mai utilizzata nel Nuovo Testamento in riferimento alla cena del Signore
o alla frazione del pane.
Tuttavia, si comincerà molto
presto a parlare esplicitamente di “sacrificio” in rapporto con la pratica
eucaristica. Basti citare il testo della Didaché
14: “Ogni domenica, giorno del Signore, riuniti, spezzate il pane e rendete
grazie, dopo che avrete confessato i vostri peccati, affinché il vostro
sacrificio sia puro. Chiunque ha qualche lite con il suo compagno, non si
riunisca a voi prima che si siano riconciliati, affinché non sia profano il
vostro sacrificio. Questo è infatti il sacrificio di cui ha detto il Signore:
In ogni luogo e in ogni tempo, mi sia offerto un sacrificio mondo (cf. Ml 1,11)”.
Pian piano – soprattutto a partire dal secolo III – diventerà un fatto sempre
più comune tra i cristiani parlare di “sacrificio” in riferimento
all’Eucaristia, ma in realtà il senso di questo termine e il significato
preciso della sua applicazione a Cristo e alla celebrazione eucaristica non
saranno intesi da tutti sempre esattamente allo stesso modo lungo i secoli.
L’ambiguità della nozione di
sacro, ereditata dal paganesimo, rischia di influenzare la comprensione
cristiana del sacrificio eucaristico.
Il termine “sacrificio” è uno
dei vocaboli meno chiari e più spesso frainteso del linguaggio (cristiano)
quotidiano, e questo anche per quanto si riferisce all’espressione e all’idea
cristiana del “sacrificio della croce” e quindi del “sacrificio dell’Eucaristia”.
La tradizione biblica si
libera a poco a poco dell’idea pagana di un dio che bisogna placare. Si tratta
non più di blandire o ammansire la divinità, ma di entrare in comunione col Dio
vivente.
Il popolo giudaico non
cercava, come invece faceva il popolo romano, di accattivarsi la benevolenza di
dèi lontani, ma intendeva ringraziare un Dio vicino.
A partire dall’evento
assolutamente nuovo della risurrezione di Gesù, i suoi discepoli riconobbero
sempre più chiaramente in lui il “compimento” globale delle Scritture. I grandi
temi religiosi presenti nell’Antico Testamento furono in qualche modo visti
confluire nella persona e nella vicenda di Gesù, trovando in lui il loro
adempimento, cioè la loro realizzazione piena e perfetta, a un livello
qualitativo superiore e definitivo. La Lettera agli Ebrei – applicando a Cristo
il Sal 40 (39) – dice che egli, venuto nel mondo per fare la volontà di Dio,
con l’offerta di se stesso ha abolito il regime dei sacrifici antichi “per
costituire quello nuovo”, che realizza pienamente, nella realtà delle cose, ciò
che i sacrifici dell’Antico Testamento potevano soltanto significare come
“un’ombra” (cf. Eb 10,1-10).
Il nuovo regime di cose
inaugurato da Gesù Cristo consiste nel trasporre radicalmente l’ambito
dell’identificazione tecnica del “sacrificio” dal piano rituale a quello
esistenziale. Un’esistenza vissuta nell’amore-dedizione-obbedienza a Dio: in
questo consiste il vero culto a Dio. L’offerta di se stessi nella fedeltà
assoluta alla volontà di Dio: in questo consiste il vero sacrificio a lui
gradito, tenendo presente che – secondo l’insegnamento di Gesù – amare Dio e
cercare la sua volontà comporta per ciò stesso amare il prossimo e cercare il
bene degli altri. Tale fu precisamente il sacrificio di Cristo, da lui compiuto
una volta per sempre nel “tempio del suo corpo” (Gv 2,21), cioè in tutto
l’ambito del suo esistere storico umano. Il sacrificio di Cristo non consiste
dunque nel puro fatto della sua passione e morte in croce, ma comprende tutta
la sua vita come dono di se stesso fino all’estremo limite della morte in
croce.
Nel sacrificio di Cristo si
trova dunque come “rovesciata” l’idea che sta alla base della concezione comune
del sacrificio religioso. Nella vicenda di Gesù non è tanto “l’uomo che si
accosta a Dio tributandogli un dono”, quanto piuttosto “Dio che si avvicina
all’uomo” per fargli dono della sua grazia di riconciliazione e della comunione
di vita con lui.
Nella cena del Signore,
“memoriale” di Cristo, si celebra il sacrificio di Cristo. Se è teologicamente
legittimo chiamare “sacrificio” l’evento della vita e morte di Gesù, allora
diventa legittimo chiamare “sacrificio” anche il rito memoriale in cui questo
evento viene celebrato e attraverso cui se ne diviene partecipi. “Annunciare la
morte del Signore”, mangiando del pane e bevendo al calice dell’Eucaristia,
vuol dire riconoscere e proclamare il valore salvifico della morte di Gesù in
croce; vuol dire accogliere con riconoscenza nel presente il dono di Dio nel
sacrificio di Cristo; ma vuol dire anche ri-presentare ogni volta al Padre quel
sacrificio di se stesso che Cristo ha offerto una volta per tutte. Celebrando
il memoriale del sacrificio di Cristo, si diventa partecipi di questo
sacrificio, non solo nel senso che se ne ricevono i benefici di riconciliazione
e di salvezza, ma anche nel senso che si viene personalmente coinvolti nel
dinamismo specifico di questo sacrificio.
Il sacrificio di Cristo, così
come noi lo riviviamo in ogni Eucaristia, è anzitutto dono, il dono che Egli fa
di sé stesso, di cui la morte è il momento culminante ma non unico. È l’intero
mistero dell’Incarnazione, dalla sua origine e lungo l’intera vita di Cristo,
che sostituisce i sacrifici antichi (cf Eb 10,5-7). Quando nell’ultima Cena
Gesù prende il pane e il calice del vino, è l’intera sua esistenza che Egli
prende ricapitolandola in questo gesto.
Noi siamo sempre portati a
pensare al sacrificio in termini di privazione, e alla nostra partecipazione al
sacrificio di Cristo in termini di offerta di noi stessi. Questo non è falso.
La nostra offerta, infatti, è necessaria, e richiede da parte nostra delle
rinunce, delle rotture, delle privazioni, che sono per noi vere “morti”,
attraverso le quali possiamo partecipare alla morte del Signore.
Si è sviluppato in passato nei
nostri tempi una tendenza che finisce per accantonare le celebrazioni
liturgiche (celebrazione eucaristica compresa), nella convinzione che il vero
culto cristiano consista esclusivamente in un’esistenza vissuta all’insegna
della solidarietà verso gli altri. Se ci fosse da scegliere tra la
partecipazione alla messa e la condivisione di un pasto fraterno con poveri ed
extracomunitari, alcuni cristiani preferirebbero il secondo. A loro parere, dar
da mangiare all’affamato (cf. Mt 25,31-46) sarebbe meno formalistico e più
evangelico che celebrare l’Eucaristia.
Prima di tutto, forse si dimentica
che la celebrazione eucaristica non è una sacra rappresentazione formale ed
esteriore (cf. 1Cor 11,29), ma attua una comunione profonda – sacramentale –
tra esistenze reali, cioè tra l’esistenza di Cristo e l’esistenza dei cristiani
(cf Gv 6,51.53-58; 1Cor 10,16-17).
In secondo luogo, coloro che
pensano così probabilmente non si rendono conto del carattere illusorio del
tentativo di imitare da soli la solidarietà di Cristo. Senza Cristo, non
possiamo fare nulla di buono (cf. specialmente Gv 15,5). Per mezzo di lui (cf. Eb
7,25; 13,15-21; cf. anche Rm 8,34; 1Gv 2,1), invece, i cristiani siamo in grado
fin d’ora di avvicinarsi a Dio (cf. Eb 4,16; 7,19-25; 10,22; 12,22-23) “in
pienezza di fede” (cf. Eb 10,22; cf 4,3; 6,1; 10,39), speranza e carità (cf. Eb
10,22-24), partecipando allo stesso sacrificio di Cristo.