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domenica 28 settembre 2025

IL "SACRIFICIO" EUCARISTICO

 



 

La parola “sacrificio” non compare in nessuno dei quattro racconti dell’istituzione dell’Eucaristia e non viene mai utilizzata nel Nuovo Testamento in riferimento alla cena del Signore o alla frazione del pane.

Tuttavia, si comincerà molto presto a parlare esplicitamente di “sacrificio” in rapporto con la pratica eucaristica. Basti citare il testo della Didaché 14: “Ogni domenica, giorno del Signore, riuniti, spezzate il pane e rendete grazie, dopo che avrete confessato i vostri peccati, affinché il vostro sacrificio sia puro. Chiunque ha qualche lite con il suo compagno, non si riunisca a voi prima che si siano riconciliati, affinché non sia profano il vostro sacrificio. Questo è infatti il sacrificio di cui ha detto il Signore: In ogni luogo e in ogni tempo, mi sia offerto un sacrificio mondo (cf. Ml 1,11)”. Pian piano – soprattutto a partire dal secolo III – diventerà un fatto sempre più comune tra i cristiani parlare di “sacrificio” in riferimento all’Eucaristia, ma in realtà il senso di questo termine e il significato preciso della sua applicazione a Cristo e alla celebrazione eucaristica non saranno intesi da tutti sempre esattamente allo stesso modo lungo i secoli.

L’ambiguità della nozione di sacro, ereditata dal paganesimo, rischia di influenzare la comprensione cristiana del sacrificio eucaristico.

Il termine “sacrificio” è uno dei vocaboli meno chiari e più spesso frainteso del linguaggio (cristiano) quotidiano, e questo anche per quanto si riferisce all’espressione e all’idea cristiana del “sacrificio della croce” e quindi del “sacrificio dell’Eucaristia”.

La tradizione biblica si libera a poco a poco dell’idea pagana di un dio che bisogna placare. Si tratta non più di blandire o ammansire la divinità, ma di entrare in comunione col Dio vivente.

Il popolo giudaico non cercava, come invece faceva il popolo romano, di accattivarsi la benevolenza di dèi lontani, ma intendeva ringraziare un Dio vicino.

A partire dall’evento assolutamente nuovo della risurrezione di Gesù, i suoi discepoli riconobbero sempre più chiaramente in lui il “compimento” globale delle Scritture. I grandi temi religiosi presenti nell’Antico Testamento furono in qualche modo visti confluire nella persona e nella vicenda di Gesù, trovando in lui il loro adempimento, cioè la loro realizzazione piena e perfetta, a un livello qualitativo superiore e definitivo. La Lettera agli Ebrei – applicando a Cristo il Sal 40 (39) – dice che egli, venuto nel mondo per fare la volontà di Dio, con l’offerta di se stesso ha abolito il regime dei sacrifici antichi “per costituire quello nuovo”, che realizza pienamente, nella realtà delle cose, ciò che i sacrifici dell’Antico Testamento potevano soltanto significare come “un’ombra” (cf. Eb 10,1-10).

Il nuovo regime di cose inaugurato da Gesù Cristo consiste nel trasporre radicalmente l’ambito dell’identificazione tecnica del “sacrificio” dal piano rituale a quello esistenziale. Un’esistenza vissuta nell’amore-dedizione-obbedienza a Dio: in questo consiste il vero culto a Dio. L’offerta di se stessi nella fedeltà assoluta alla volontà di Dio: in questo consiste il vero sacrificio a lui gradito, tenendo presente che – secondo l’insegnamento di Gesù – amare Dio e cercare la sua volontà comporta per ciò stesso amare il prossimo e cercare il bene degli altri. Tale fu precisamente il sacrificio di Cristo, da lui compiuto una volta per sempre nel “tempio del suo corpo” (Gv 2,21), cioè in tutto l’ambito del suo esistere storico umano. Il sacrificio di Cristo non consiste dunque nel puro fatto della sua passione e morte in croce, ma comprende tutta la sua vita come dono di se stesso fino all’estremo limite della morte in croce.

Nel sacrificio di Cristo si trova dunque come “rovesciata” l’idea che sta alla base della concezione comune del sacrificio religioso. Nella vicenda di Gesù non è tanto “l’uomo che si accosta a Dio tributandogli un dono”, quanto piuttosto “Dio che si avvicina all’uomo” per fargli dono della sua grazia di riconciliazione e della comunione di vita con lui.

Nella cena del Signore, “memoriale” di Cristo, si celebra il sacrificio di Cristo. Se è teologicamente legittimo chiamare “sacrificio” l’evento della vita e morte di Gesù, allora diventa legittimo chiamare “sacrificio” anche il rito memoriale in cui questo evento viene celebrato e attraverso cui se ne diviene partecipi. “Annunciare la morte del Signore”, mangiando del pane e bevendo al calice dell’Eucaristia, vuol dire riconoscere e proclamare il valore salvifico della morte di Gesù in croce; vuol dire accogliere con riconoscenza nel presente il dono di Dio nel sacrificio di Cristo; ma vuol dire anche ri-presentare ogni volta al Padre quel sacrificio di se stesso che Cristo ha offerto una volta per tutte. Celebrando il memoriale del sacrificio di Cristo, si diventa partecipi di questo sacrificio, non solo nel senso che se ne ricevono i benefici di riconciliazione e di salvezza, ma anche nel senso che si viene personalmente coinvolti nel dinamismo specifico di questo sacrificio.

Il sacrificio di Cristo, così come noi lo riviviamo in ogni Eucaristia, è anzitutto dono, il dono che Egli fa di sé stesso, di cui la morte è il momento culminante ma non unico. È l’intero mistero dell’Incarnazione, dalla sua origine e lungo l’intera vita di Cristo, che sostituisce i sacrifici antichi (cf Eb 10,5-7). Quando nell’ultima Cena Gesù prende il pane e il calice del vino, è l’intera sua esistenza che Egli prende ricapitolandola in questo gesto.

Noi siamo sempre portati a pensare al sacrificio in termini di privazione, e alla nostra partecipazione al sacrificio di Cristo in termini di offerta di noi stessi. Questo non è falso. La nostra offerta, infatti, è necessaria, e richiede da parte nostra delle rinunce, delle rotture, delle privazioni, che sono per noi vere “morti”, attraverso le quali possiamo partecipare alla morte del Signore.

Si è sviluppato in passato nei nostri tempi una tendenza che finisce per accantonare le celebrazioni liturgiche (celebrazione eucaristica compresa), nella convinzione che il vero culto cristiano consista esclusivamente in un’esistenza vissuta all’insegna della solidarietà verso gli altri. Se ci fosse da scegliere tra la partecipazione alla messa e la condivisione di un pasto fraterno con poveri ed extracomunitari, alcuni cristiani preferirebbero il secondo. A loro parere, dar da mangiare all’affamato (cf. Mt 25,31-46) sarebbe meno formalistico e più evangelico che celebrare l’Eucaristia.

Prima di tutto, forse si dimentica che la celebrazione eucaristica non è una sacra rappresentazione formale ed esteriore (cf. 1Cor 11,29), ma attua una comunione profonda – sacramentale – tra esistenze reali, cioè tra l’esistenza di Cristo e l’esistenza dei cristiani (cf Gv 6,51.53-58; 1Cor 10,16-17).

In secondo luogo, coloro che pensano così probabilmente non si rendono conto del carattere illusorio del tentativo di imitare da soli la solidarietà di Cristo. Senza Cristo, non possiamo fare nulla di buono (cf. specialmente Gv 15,5). Per mezzo di lui (cf. Eb 7,25; 13,15-21; cf. anche Rm 8,34; 1Gv 2,1), invece, i cristiani siamo in grado fin d’ora di avvicinarsi a Dio (cf. Eb 4,16; 7,19-25; 10,22; 12,22-23) “in pienezza di fede” (cf. Eb 10,22; cf 4,3; 6,1; 10,39), speranza e carità (cf. Eb 10,22-24), partecipando allo stesso sacrificio di Cristo.