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venerdì 1 agosto 2025

MEDITAZIONE ESTIVA

 

Con la morte di papa Francesco e l’elezione di papa Leone XIV, si sono risvegliati i dibattiti sull’uso della liturgia di Pio V nella sua edizione del 1962. Ripropongo ai miei lettori, come meditazione estiva, quanto avevo scritto quattro anni fa.  

 

LE APORIE DI “SUMMORUM PONTIFICUM”

 

In questo blog e altrove, ho più volte segnalato i punti deboli o, mi si permetta di chiamarli, le “aporie” del Motu proprio “Summorum Pontificum” [SP] con la Lettera ai vescovi che l’accompagna. Dopo la pubblicazione del Motu proprio “Traditionis custodes”, queste aporie acquistano una maggior evidenza.

1. Si afferma che il Messale del 1962 “non fu mai giuridicamente abrogato”. È un’affermazione che contraddice quanto ripetutamente aveva detto Paolo VI. D’altra parte, esiste il Pontificio Consiglio per i testi legislativi, “la cui funzione consiste soprattutto nella interpretazione delle leggi della Chiesa”, e non consta che questo Consiglio si abbia pronunciato al riguardo.

2. Si riconosce, citando SC 22, che “ogni vescovo è il moderatore della liturgia nella propria diocesi”. D’altra parte, però si sottrae al vescovo la possibilità di regolare l’uso del Messale del 1962. A tal punto che la Conferenza dei vescovi della Francia nella risposta al formulario sull’applicazione del Motu proprio SP inviato dalla Congregazione per la dottrina della fede, dice, tra l’altro, che “l’autorità dei vescovi su queste comunità (che celebrano col Messale del 1962) è quasi nulla”.

3. SP introduce accanto alla “forma ordinaria” del rito romano (la riforma di Paolo VI) una “forma straordinaria” dello stesso rito romano (la liturgia del 1962). Rimane incomprensibile come due Liturgie, con ordinamento di letture diverso, calendari differenti, testi diversi nei Tempi centrali dell’Anno liturgico, come cioè due forme espressive diverse della lex orandi possano realmente armonizzarsi con una lex credendi della Chiesa. Ciò si può sostenere soltanto se non è il rito in sé ma il significato del rito a confrontarsi con la lex orandi. In questo modo verrebbe meno una visione teologica che è maturata nel corso del Movimento liturgico e svanirebbe una fattiva acquisizione della teologia liturgica postconciliare.

4. Si afferma che “le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda”. Affermazione ambigua che qualche anno fa ha ispirato ad un Emmo. Cardinale la proposta di aggiungere nell’offertorio del Messale paolino le preghiere (ad libitum) dell’offertorio del Messale del 1962.

5. “Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande”. Questa solenne affermazione, come è stato notato anche recentemente, è un principio che scatena una vera e propria anarchia, perché si può applicare non solo al Messale del 1962, ma ad altre espressioni rituali precedenti. Infatti, è noto che alcuni gruppi che adoperano il Messale del 1962 non accettano il Triduo pasquale riformato da Pio XII in esso inserito e, nell’occasione, adoperano una edizione del Messale anteriore a tale riforma.

6. Sembra chiaro che i criteri con cui la Lettera del 7 luglio 2007 giustifica il ripristino della liturgia del 1962 sono di carattere soggettivo (desiderio, forma a loro cara, sentirsi attirati, forma appropriata per loro…). Diverso è il criterio che il card. Joseph Ratzinger nel 2001, al tempo Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, esprimeva quando affermava: “Se l'ecclesialità diventa una questione di libera scelta, se ci sono nella Chiesa delle chiese rituali scelte secondo un criterio soggettivo, questo diventa un problema. La Chiesa è costruita sui vescovi secondo la successione apostolica, nella forma di Chiese locali, quindi con un criterio oggettivo. Io mi trovo in questa Chiesa locale e non cerco i miei amici, incontro i miei fratelli e le mie sorelle; i fratelli e le sorelle non si cercano, si incontrano” (Autour de la question liturgique. Avec le Cardinal Ratzinger, Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, Association Petrus a Stella, Fontgombault, 2001). Permettere di scegliere “à la carte” la propria tradizione rituale è un modo di ferire gravemente l’unità e la struttura della Chiesa. Il problema non è solo rituale, ma ecclesiologico.

 




domenica 27 luglio 2025

MARIA VENERATA NEI SECOLI

 



 

Corrado Maggioni, Tutte le generazioni ti chiamano Beata. Due millenni di liturgia e pietà popolare (Sapientia ineffabilis 43), IF Press srl, Roma 2025. 380 pp. (€ 25,00).

 

Maria è parte del mistero di Cristo. Lo hanno compreso le prime comunità cristiane e l’hanno celebrata, chiamandola beata! La beatitudine della Madre del Signore sta tutta nell’aver creduto, divenendo matrice di salvezza per ogni generazione. La sua memoria ha infatti permeato le tradizioni oranti di Oriente e Occidente, come si descrive nei nove capitoli di questo libro.

I primi secoli testimoniano le fonti della pietà mariana (Capitolo I), approfondita in epoca patristica come attestato dall’omiletica mariana orientale dei secoli IV-V (Capitolo II) e dalla portata mariana del Natale in Occidente nella tarda antichità e primo Medioevo (Capitolo III). Sono poi le feste in onore di Maria a maturare, nei secoli V-VIII, la venerazione per la Madre di Dio nelle Chiese orientali e occidentali (Capitolo IV). La pietà liturgico-mariana si arricchisce nei secoli VIII-XI (Capitolo V), mentre nei secoli XII-XV sorgono in Occidente altre feste mariane e fiorisce rigogliosa la pietà mariana non liturgica (Capitolo VI). Il percorso continua con le feste mariane dei libri liturgici tridentini e gli sviluppi del Calendario romano nei secoli XVI-XX, senza dimenticare pie pratiche e devozioni (Capitolo VII). Il rinnovamento del Concilio Vaticano II ha riguardato anche la memoria di Maria nell’anno liturgico e nell’odierno Calendario romano, come le particolarità mariane delle altre liturgie occidentali, l’ambrosiana e l’ispano mozarabica (Capitolo VIII). Anche la pietà popolare mariana, ereditata da secoli, è chiamata al rinnovamento alla luce della liturgia, con la quale deve armonizzarsi (Capitolo IX).


(Quarta di copertina)

 

venerdì 25 luglio 2025

DOMENICA XVII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 27 Luglio 2025

 



 

Gen 18,20-32; Sal 137 (138); Col 2,12-14; Lc 11,1-13

 

Il ritornello del salmo responsoriale (“Nel giorno in cui ti ho invocato mi ha risposto”) ci invita a riflettere sulla preghiera, tema che unifica la prima e terza lettura di questa domenica.

 

La prima lettura ci parla della supplica coraggiosa e insistente di Abramo che si rivolge al Signore perché conceda misericordia alle città colpevoli di Sodoma e Gomorra, anche solo per la presenza di alcuni giusti. Purtroppo, però, questi giusti non ci sono. In ogni modo, il testo biblico sottolinea tutto il valore di intercessione di questa preghiera del patriarca, “nostro padre nella fede”; nello stesso tempo sta pure a dire che il Signore riconosce ai “giusti” una vera funzione “salvifica”. San Luca, nel brano evangelico ci racconta che un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e, quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare”. Gesù risponde con la preghiera del Padre nostro e aggiunge due brevi parabole che descrivono l’atteggiamento di fiduciosa perseveranza con cui i discepoli devono rivolgersi a Dio nella preghiera.

 

Notiamo anzitutto che la domanda del discepolo a Gesù è provocata dall’esempio dello stesso Gesù. I discepoli, come ogni ebreo, sapevano pregare, e tuttavia intuivano che c’era qualcosa di diverso nella preghiera di Gesù, un modo nuovo di rivolgersi a Dio. La novità della preghiera cristiana consiste in un nuovo rapporto con Dio, che viene invocato semplicemente come “Padre” in modo familiare: Abbà, caro Padre. L’audacia di Abramo è superata dall’audacia di Gesù e dei suoi discepoli che nel suo nome dicono: Abbà. Le parole di san Paolo (cf. seconda lettura) sembrano spiegarci il perché Dio va invocato come Padre: attraverso la morte di Cristo, Figlio di Dio, i nostri peccati sono stati perdonati, il “debito” con Dio è stato “pagato”; ormai possiamo avere con lui rapporti filiali. Un’antica tradizione raccomanda di recitare il Padre nostro “tre volte al giorno” (Didaché 8,3), mattino, mezzogiorno e sera, come preghiera fondamentale che conserva in noi l’atteggiamento filiale verso Dio. Sintesi di tutto il vangelo, come afferma Tertulliano, il Padre nostro più che una formula da recitare, esprime un atteggiamento da interiorizzare.

 

La preghiera si può compiere più facilmente durante il tempo libero delle vacanze. Non è però una semplice attività da eseguire accanto ad altre. Nella preghiera diventiamo noi stessi nel modo più autentico, ci ritroviamo senza maschera, esprimiamo il nostro nucleo più intimo. Dopo la rivelazione del mistero della preghiera filiale di Cristo, per noi cristiani questo nucleo più intimo è il nostro essere “figli”, con un atteggiamento di piena sottomissione e di altrettanto piena fiducia in Dio, nostro Padre. Pregare non significa cercare di imporre a Dio la nostra volontà, ma chiedergli di renderci disponibili alla sua, al suo progetto di salvezza (“venga il tuo regno”). Troppo spesso le nostre preghiere guardano invece l’immediato, senza incrociare lo sguardo di Colui che sa in cosa consista la nostra felicità.

 

Una visione antropocentrica, frequente oggi, rischia, nei migliori dei casi, di ridurre la preghiera a una semplice attività di riflessione, in vista di un aggiustamento del proprio equilibrio psicologico. La preghiera invece è anzitutto ascolto, non solo della natura, della storia, di se stessi, ma ascolto soprattutto della Parola di Dio. Si potrebbe dire che, se per Dio “in principio è la Parola” (cf. Gv 1,1), per noi “in principio è l’ascolto”. 

 

domenica 20 luglio 2025

IL CASO TRISTE DELL’OMELIA

 



Fabio Rosini, Il caso triste dell’omelia. Rudimenti per un aggiornamento dell’ars homiletica, Lipa Srl, Roma 2025. 239 pp. (€ 17,00).

Don Fabio Rosini è docente di comunicazione e trasmissione della fede alla Pontificia Università della Santa Croce, dove – a partire dalla sua decennale esperienza di predicatore instancabile del Vangelo – offre preziosi contributi per un corretto approccio ad una preparazione omiletica non lasciata all’improvvisazione, mettendo anche in evidenza la problematicità di alcuni modi di predicare.

Il testo si rifà alle lezioni di quel corso, opportunamente adeguate all’esigenze di un’opera che non solo interessa i suoi studenti universitari, ma anche e soprattutto quanti sono chiamati al ministero della Parola.

Il libro è un significativo invito a riconsiderare il dono ricevuto di comunicare la fede, che l’omileta ha il compito di esercitare mettendo la vita e la Parola in relazione a quell’evento escatologico che fa irruzione nell’assemblea eucaristica.

(Quarta di copertina)      

venerdì 18 luglio 2025

DOMENICA XVI DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 20 Luglio 2025

 

 


 

 

Gen 18,1-10a; Sal 14 (15); Col 1,24-28; Lc 10,38-42

 

Gli antichi rabbini consideravano questo salmo una specie di compendio della legge data da Dio ad Israele. Soltanto un cuore semplice, sincero, amante della giustizia, libero da ogni cattiveria riesce a percepire la presenza di Dio nelle vicende di ogni giorno. Soltanto un cuore trasparente, umile e mite, capace di ascoltare la parola del Signore si rende degno di abitare in eterno nella casa del Signore. Le tre letture odierne ci invitano a passare dall’ospitalità che il Signore concede a noi, all’ospitalità che noi siamo chiamati ad offrire a Dio.

 

Il racconto proposto dal vangelo d’oggi è assai noto a tutti. Ci si potrebbe soffermare subito su Marta e Maria, spesso viste arbitrariamente come simboli contrapposti di una vita data all’attività, al servizio, alle opere, come quella di Marta, e di una vita data invece alla preghiera, alla contemplazione, come quella di Maria. È però più opportuno dare uno sguardo anche alle altre letture bibliche, in particolare alla prima. Vediamo infatti che sia la prima lettura che il racconto evangelico parlano dell’ospitalità: quella offerta da Abramo a tre personaggi misteriosi arrivati a casa sua, e quella offerta dalle sorelle Marta e Maria a Gesù. Possiamo quindi affermare che il tema centrale di questa domenica è l’ospitalità: sia Abramo che le sorelle di Lazzaro vengono presentati come modelli di accoglienza dell’ospite. Nei due episodi quest’ospite è Dio stesso. Possiamo perciò circoscrivere l’argomento e dire che si tratta di dare ospitalità a Dio. Non di rado la nostra vita appare frammentata, vuota, in balia degli eventi. Dio può dare senso e armonia alla nostra esistenza. È necessario però mettersi in atteggiamento di ascolto della sua parola, come Maria.

 

Le due sorelle rappresentano due modi diversi, non in contrasto ma complementari, di accogliere il Signore. Non si tratta di proclamare la superiorità della contemplazione sull’azione ma di richiamare sia Marta che Maria all’esigenza dell’ascolto della parola di Dio che deve precedere, alimentare e sostenere ogni scelta religiosa e umana del discepolo di Gesù. Perciò Maria è raffigurata nell’atteggiamento del discepolo davanti al maestro, “ai piedi del Signore” mentre ascolta la sua parola. Abbiamo bisogno di nutrire in noi un atteggiamento di ascolto della parola di Dio, sia che la nostra vita sia come quella di Marta, indaffarata in un lavoro che assorbe, o come quella di Maria, soli nell’interno di una casa quotidiana e solitaria. Nella seconda lettura, Paolo, che ha ricevuto da Dio la missione di “portare a compimento la sua parola”, ci ricorda che l’ascolto di cui parliamo porta all’impegno nel quotidiano. Anche il canto al vangelo parla di “coloro che custodiscono la parola di Dio” e “producono frutto con perseveranza” (cf. Lc 8,15). Non ha senso la contrapposizione tra ascoltare e darsi da fare, tra contemplare e agire. Si tratta di due momenti che si compenetrano a vicenda. L’ascolto della Parola offre le motivazioni profonde che danno senso al servizio. Ecco, quindi, che ci viene offerta una linea per dare unità alla vita: l’ascolto. Tutti abbiamo bisogno di ascoltare la parola del Signore, che è capace di avvolgere di luce nuova il nostro lavoro, il nostro riposo, le nostre preoccupazioni, le nostre lotte quotidiane. 

 

domenica 13 luglio 2025

UN “MONASTERO DEI NON CREDENTI”?

 



 

Devo riconoscere che l’esistenza di luoghi che richiamino la trascendenza, in un mondo così preso dalle questioni del quotidiano e dalla corsa al successo che si misura in quantità di moneta, è di stimolo e di richiamo a questa dimensione dimenticata.

Tale convinzione ha una lunga storia. E forse il segno più esplicito di questo bisogno si lega all’idea di un “monastero dei non credenti”, un luogo di “fuga”, o meglio di “rifugio” temporaneo, lontano dal mondo in cui dedicarsi alla ricerca di Dio partendo da se stessi, dalla propria interiorità, dai segni, dall’impronta che il Creatore deve aver lasciato da qualche parte nella mente umana.

Il mondo terreno è oggi ricco di attrazioni e ha un grande fascino. Si aggiunga la tecnologia che crea ambienti digitali e community attraenti come i social network.

Richiami a Dio e al cielo sono quindi utili, anche se dovrebbero limitarsi a luoghi di totale libertà, di libera ricerca, senza imposizioni, privi di richiami che finirebbero per rappresentare altre distrazioni.

Il “monastero dei non credenti” ha ancora per me un grande fascino. Anche perché in questo monastero si può scoprire di essere credenti. Un luogo dove fare esperienza di Dio. E basta. Lo si può incontrare dappertutto, ma è più facile qui che in un pub di Londra.

 

Fonte: Vittorino Andreoli, Preghiera del non credente, TS, Milano 2025, pp. 8-86.    

 

venerdì 11 luglio 2025

DOMENICA XV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 13 Luglio 2025

 



 

 

Dt 30,10-14; Sal 18; Col 1,15-20; Lc 10,25-37

 

Il tema del comandamento dell’amore vicendevole, di cui parla il brano evangelico, ci viene proposto più volte lungo l’anno liturgico. Si tratta della legge fondamentale del credente, quella legge di cui Mosè tesse le lodi nella la prima lettura. Alla domanda del dottore della legge su che cosa debba egli fare per ereditare la vita eterna, Gesù non risponde ma rimanda l’interlocutore a ciò che sta scritto nella Legge di Mosè e che lo stesso dottore della legge riassume bene così: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. Partendo dall’amore di sé e da quello di Dio, diventa autentico l’amore per l’altro. Diversamente, c’è il pericolo di amare il prossimo, presentandogli il conto. La novità però dell’insegnamento di Gesù sta nella risposta alla seconda domanda formulata dallo scriba: “chi è il mio prossimo?”, questione dibattuta dal rabbinismo. A questa domanda Gesù risponde con la splendida parabola del Samaritano. Con questa parabola Gesù invita a superare ogni diatriba teorica ed evasiva sul contenuto reale da dare al termine “prossimo”: ogni uomo che si trova nel bisogno sia esso amico o nemico, è “prossimo” a tutti gli altri uomini che, in qualsiasi maniera, vengono in contatto con lui.  

 

Cosa fa il Samaritano? Prima di tutto si ferma perché si muove a compassione, che qui è vero amore. Per chi ha sempre troppo da fare, preso dai propri interessi, fermarsi per interessi altrui significa accorgersi che esiste un altro, che soffre e che è nel bisogno. In secondo luogo, si fa vicino all’uomo sofferente, non solo fisicamente ma anche con una vicinanza affettiva: se i cuori sono distanti, la vicinanza fisica non serve. In terzo luogo, si prodiga nei primi aiuti, cioè si rimbocca le maniche e offre un aiuto concreto. Finalmente, il buon Samaritano si assicura che il suo assistito possa ricuperarsi pienamente dalla disavventura. Non si accontenta di fare una buona azione, ma si preoccupa dell’individuo incontrato per caso affinché questi possa ritornare alla vita normale.

 

Nella seconda lettura si parla di Cristo “immagine del Dio invisibile”, espressione perfetta del volto del Padre, e perciò anche del suo amore infinito. Nel malcapitato della parabola i Padri della Chiesa vedono l’umanità peccatrice e nel buon Samaritano vedono il Cristo, che su tale umanità si china per prendersene cura. In Cristo Dio si è fatto “vicino” (cf Rm 10,5-10) e in lui e con lui è possibile amare il prossimo. Nell’eucaristia “l’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Solo a partire da questo fondamento cristologico - sacramentale si può capire correttamente l’insegnamento di Gesù sull’amore” (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 14).