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domenica 16 novembre 2025

L’ESPERIENZA DEL RITMO

 



 

L’esperienza del ritmo implica movimento, impulso, differenziazione, vitalità, forma riconoscibile. Ci appare non come una cosa tra le cose, ma come una qualità che è data dalla loro relazione. Come scriveva Marius Schneider, “il ritmo è una articolazione qualitativa, non quantitativa, del tempo e dello spazio. Oscillando nella ripetizione continua, esso ruota intorno a un centro inafferrabile, che però è il punto focale della relazione che si stabilisce fra due qualità o due individui, premesso che ciascuna qualità è chiaramente caratterizzata e, di conseguenza, permette all’altra di esprimersi […] Nella sua ultima astrazione, il ritmo è il modo più profondo della vita spirituale”.

Effettivamente, l’esperienza del ritmo non è legata solo alla musica, ma è molto più ampia, profonda e pervasiva; perciò, è anche difficile da definire in modo esaustivo. Sperimentiamo il ritmo nella periodicità dei fenomeni cosmici, nella ciclicità della natura, nella vitalità del mondo biologico, nelle ricorrenze delle storie che viviamo. Inoltre, l’essere umano stesso è in grado, in qualche misura, di dare un certo ritmo alla sua esistenza, ai suoi gesti, alle sue “creazioni” (si pensi in particolare alle creazioni artistiche). L’esperienza qualitativa del ritmo, che è nelle cose ma non coincide con esse, ha un che di misterioso e inafferrabile, ma anche molto reale, nel suo farci sentire in armonia e in un equilibrio dinamico dentro di noi e con l’ambiente esterno.

Attraverso queste esperienze ritmiche noi possiamo percepire una qualità del tempo e dello spazio, conosciamo e ri-conosciamo il nostro mondo e noi stessi in esso. Sentiamo l’impulso della vita, che emerge sulla piattezza dell’amorfo e dell’apatico, e percepiamo una forma del mondo. Il ritmo può permeare qualsiasi aspetto della vita fisica e spirituale, incrocia natura e cultura. Esso dice insieme differenza e relazione, distanza e collegamento, tempo e eternità. È pensabile che anche la dimensione religiosa, aperta alla trascendenza, sia caratterizzata da un modo ritmico di abitare il mondo che ce lo riveli sotto una luce nuova.

 

Fonte: Luigi Girardi (a cura di), Rito e ritmo. Celebrare la differenza (Caro salutis cardo. Contributi 40), Roma –Padova 2025, pp. 6-7.

 

venerdì 14 novembre 2025

DOMENICA XXXIII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 16 Novembre 2025

 



 

Ml 3,19-20a; Sal 97 (98); 2Ts 3,7-12; Lc 21,5-19

 

 

La fine del mondo e il giudizio universale, temi che ci propone oggi la parola di Dio, sono da considerarsi come un giorno di festa in cui Dio viene a stabilire definitivamente la giustizia. Dopo le severe parole di Gesù che abbiamo ascoltato nel vangelo, può sembrare fuori posto questa affermazione.

 

Invece questo giorno, che la Bibbia chiama “giorno del Signore”, è descritto dalla prima lettura come “un giorno rovente come un forno”, in cui Dio annienterà i superbi e gli ingiusti, ma salverà coloro che hanno timore del suo nome, e cioè quelli che servono Dio con fedeltà. Per questi “sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia” (cf anche I Vespri, ant. al Magn). Il vangelo raccoglie le parole di Gesù sulla fine del Tempio di Gerusalemme. E quando gli chiedono: “Signore, quando accadrà questo…?”, Gesù non risponde, ma prende l’occasione per portare l’attenzione dei suoi discepoli sugli ultimi tempi, di cui ne rivela l’incertezza del giorno e dell’ora. In attesa del compimento della vicenda terrena, ci viene dato come codice di comportamento l’esortazione di san Paolo ai cristiani di Tessalonica: in attesa del trionfo della giustizia, in attesa che il male sia vinto, l’Apostolo ci invita a vivere la nostra vita nella pace lavorando, cercando di non essere di peso agli altri, guadagnandoci così il nostro destino. Questa esortazione coincide con l’affermazione di Gesù che conclude il discorso sulla fine dei tempi con queste parole: “Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime” (II Vespri, ant. al Magn.).

 

La perseveranza è frutto della grazia, è frutto dello Spirito, ma è anche risposta coerente e quotidiana della nostra volontà al dono di Dio. La vita cristiana non è passiva attesa di doni che piovono dal cielo; è invece ricerca appassionata, impegno generoso che si traduce in un concreto sforzo per testimoniare la giustizia e la salvezza di Dio. In questo mondo siamo di passaggio. Tante volte invece le realtà terrene ci si offrono in tutta la loro forza seducente, in modo che non è facile mantenersene liberi. Il nostro sguardo deve rivolgersi verso quei beni che ci procurano “felicità piena e duratura” (colletta). A questo proposito, sant’Agostino dice che il cristiano deve “servirsi del mondo, non farsi schiavo del mondo” (Ufficio delle letture, 2a lettura). Dio ha progetti di pace su di noi, non progetti di sventura (cf ant. d’ingresso, Ger 29,11). Infatti, dopo le severe parole di Gesù, abbiamo ascoltato che egli afferma: “Nemmeno un capello del vostro capo perirà”. Pertanto, il linguaggio immaginoso che usa la Scrittura per descrivere il giorno finale non deve incutere paura. Non serve vivere in attesa ansiosa e oziosa del futuro. L’attesa cristiana si chiama speranza, la quale non è né ansiosa né oziosa ma attiva. La vita è amministrazione di un dono che ci è stato affidato, quindi è responsabilità. Bisogna prendere sul serio il tempo presente. Siamo chiamati non all’evasione dal mondo, ma a costruire qui e ora le premesse che preparano l’avvento definitivo del regno di Dio.

 

Il Signore che verrà alla fine dei tempi come giudice è realmente presente nell’Eucaristia sotto gli umili segni sacramentali del pane e del vino. Nell’Eucaristia quindi è racchiusa e già in atto la beata speranza che alimenta l’attesa e il desiderio della Chiesa e di ogni credente nel ritorno del Signore. Perciò possiamo gridare ai quattro venti con gli antichi cristiani: “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20).

 

domenica 9 novembre 2025

RITO E RITMO

 



Luigi Girardi (a cura di), Rito e ritmo. Celebrare la differenza (Caro salutis cardo. Contributi 40), CLV-Edizioni liturgiche, Roma – Abbazia di Santa Giustina, Padova 2025. 238 pp. (€ 32,00).

L’esperienza del ritmo è vasta, profonda e pervasiva. La incontriamo nei fenomeni cosmici, naturali, biologici, culturali. Il ritmo conserva e dischiude una qualità particolare della nostra esperienza, decisiva anche per la dimensione religiosa. Occorre chiedersi allora in che modo il ritmo è presente nella dinamica del rito e che cosa è in gioco attraverso di esso. Non ha forse la liturgia un proprio ritmo? Come interagire con i ritmi della vita sociale di oggi? L’arte di celebrare non è forse una questione (anche) di ritmo? Questi e altri interrogativi aprono un percorso riflessivo estremamente fecondo.

Contributi di Andrea Albertin, Giorgio Bonaccorso, Claudio Ubaldo Cortoni, Loris Della Pietra, Serena Facci, Marco Gallo, Luigi Girardi, Paolo Tomatis, Lorenzo Voltolin.

venerdì 7 novembre 2025

DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE – 9 Novembre 2025

 



 

Ez 47,1-2.8-9.12; Sal 4 (46); 1Cor 3,9c-11.16-17; Gv 2,13-22.

La lettura evangelica ci ricorda che Gesù è il nuovo tempio: “Egli parlava del tempio del suo corpo”. In Lui Dio si è fatto carne ed è venuto a piazzare la sua tenda in mezzo a noi. Come dice san Paolo, noi siamo membra vive del corpo di Cristo, quindi anche noi siamo “tempio di Dio”. I templi fatti dalla mano dell’uomo sono al servizio del tempio di pietre vive, non fatto dalla mano dell’uomo; come dice il prefazio della messa, la “Chiesa è significata dalle chiese che edifichiamo”. Questa dottrina acquista un particolare significato nel giorno della dedicazione della basilica di San Giovanni in Laterano, la cattedrale del vescovo di Roma, che “sovrintende alla carità” (sant’Ignazio di Antiochia) di tutte le Chiese locali e perciò viene chiamata anche “Chiesa madre di tutte le chiese”. Celebrando dunque questa festa, ricordiamo innanzitutto che siamo in comunione gli uni con gli altri, nonostante le diversità, e tutti siamo in comunione con il papa, vescovo di Roma.

Anche se ogni vescovo esercita il suo ministero di santificazione e di culto in tutta la diocesi, la cattedrale è il luogo proprio in cui egli svolge le funzioni di grande sacerdote del suo gregge, il luogo dove proclama la Parola e presiede le celebrazioni sacramentali, in particolare l’eucaristia. Da una parte, la Chiesa, come sacramento o segno e strumento della presenza della salvezza offerta in Cristo, ha bisogno di realizzarsi e rendersi visibile in un luogo concreto. D’altra parte, la liturgia è un’azione che si svolge necessariamente nell’ambito spazio-temporale. Ciò la rende, di fatto, manifestazione del mistero della Chiesa, rappresentata nella comunità riunita e presieduta dai suoi pastori.

La dedicazione della chiesa cattedrale può essere interpretata alla stregua di una iniziazione cristiana dell’edificio che rappresenta la comunità dei fedeli. Infatti, così come “con i sacramenti dell’iniziazione cristiana, il battesimo, la confermazione e l’eucaristia, sono posti i fondamenti di ogni vita cristiana” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1212), così anche la dedicazione dell’edificio ecclesiale sta a significare la consacrazione di una Chiesa particolare. In questo senso, l’anniversario della dedicazione della chiesa cattedrale, che deve celebrare l’intera comunità diocesana, è come l’anniversario del battesimo dell’intera comunità cristiana e, in definitiva di un popolo santificato con la Parola e i sacramenti, chiamato a crescere e a svilupparsi, in analogia con il corpo umano, fino a raggiungere la misura di Cristo in pienezza (cf. Ef  4,13-16). Nell’Ufficio delle letture del Comune della dedicazione di una chiesa, la Liturgia delle Ore ci propone un brano tratto da un discorso di sant’Agostino, in cui il santo vescovo d’Ippona afferma, tra l’altro: “La dedicazione della casa di preghiera è la festa della nostra comunità. Questo edificio è divenuto la casa del nostro culto. Ma noi stessi siamo casa di Dio. Veniamo costruiti in questo mondo e saremo dedicati solennemente alla fine dei secoli…”

La preghiera dopo la comunione, dopo aver affermato che la Chiesa è il segno visibile della Gerusalemme celeste, chiede al Signore che ci “trasformi in tempio vivo della sua grazia perché possiamo entrare nella dimora della sua gloria”.

domenica 2 novembre 2025

LA GIOIA IN UNA ESPERIENZA RELIGIOSA

 



 

Non c’è forse una gioia che non sia, o che possa non essere, anche esperienza religiosa, e di questa vorrei ora dire qualcosa che possa rimanere nel cuore, e nella memoria di chi voglia leggere queste mie considerazioni, nutrite di psichiatria, ma anche dei pensieri di sant’Agostino e di santa Teresa d’Avila, di Blaise Pascal e di santa Teresa di Lisieux, di madre Teresa di Calcutta e di Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo protestante che fu recluso in un carcere berlinese e poi  condotto alla morte, a trentanove anni, nel campo di concentramento di Fossenbürg. Ho già richiamato le sue parole vibranti perché le cose che egli ha scritto sulla gioia sono di una straordinaria bellezza, e sono animate da una fede e da una speranza luminose e incancellabili.

Ascoltiamole ancora, quando la tristezza e l’angoscia scendono in noi: “Come possiamo aiutare chi non ha la gioia e si è perso di coraggio, se noi stessi non abbiamo gioia né coraggio?” E ancora: “In Dio abita la gioia e da lui essa discende prendendo spirito, anima e corpo, e dove questa gioia ha afferrato l’uomo lì essa si propaga e diviene trascinante, lì spalanca porte chiuse”; e un suo ultimo pensiero: “C’è una gioia che non sa niente del dolore, della miseria e dell’angoscia del cuore; essa non ha consistenza, e vale soltanto per dei momenti. La gioia di Dio è passata per la povertà della mangiatoia e la miseria della croce; per questo è insuperabile, inconfutabile”. Alla gioia, mirabilmente descritta da Bonhoeffer, dovremmo sempre guardare come a una stella cometa che non si spenga mai.

La gioia sconfina nella preghiera, e ci fa uscire dai limiti aridi del nostro egoismo, aprendoci agli sconfinati orizzonti della relazione con Dio, e con gli altri, nel contesto di una gioia che non morirà. Madre Teresa di Calcutta diceva alle sue consorelle che ogni missionaria della carità avrebbe dovuto essere testimone di una gioia da far risplendere negli occhi, negli sguardi, nel volto e nelle azioni. Così, tutti, e in particolare i poveri e i sofferenti, avrebbero riconosciuto la presenza della gioia in lei, e nelle sue consorelle. Le parole di madre Teresa: “La gioia è preghiera, è il segno della nostra generosità, del nostro altruismo, dell’unione intima e continua con Dio”. Non dovremmo mai dimenticarlo.

 

Fonte: Eugenio Borgna. Con un ricordo di Vittorio Lingiardi (Vele 23), Giulio Einaudi editore, Torino 2025, pp. 34-36.  

 

venerdì 31 ottobre 2025

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI – 2 Novembre 2025 1° formulario di Messa


 


 

Gb 19,1.23-27°; Sal 26 (27); Rm 5,5-11; Gv 6,37-40

 

L’intero formulario della Messa è improntato alla “speranza che i tuoi fedeli risorgeremo a vita nuova” (colletta). La speranza cristiana è essenzialmente speranza di fronte alla morte.

Nella prima lettura, Giobbe, a metà del suo tempestoso contendere con Dio, intravede un barlume di speranza. Egli, intuendo che il Dio vivente è della sua parte, fa un atto di fede nella risurrezione: “Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! […] e i miei occhi lo contempleranno”. Chi sia il “redentore” di cui parla Giobbe, lo illustrano le altre due letture. Nel secondo brano biblico, san Paolo afferma che “la speranza non delude” Infatti se quando eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi, può perderci ora che siamo stati da lui “riconciliati” con Dio?. Il brano evangelico conferma che chi crede nel Figlio di Dio ha la vita eterna, ed egli lo risusciterà nell’ultimo giorno. Su questa linea, i cinque prefazi dei defunti esaltano la speranza nella vita futura fondata sulla risurrezione di Cristo. La morte acquista tutto il suo significato solo se riportata alla dimensione e illuminazione cristologica.

Siamo abituati a ricordare in questo mese autunnale di novembre i nostri cari defunti. Nonostante la morte e al di là di essa, noi speriamo che la vicenda storica dell’uomo su questa terra avrà una conclusione positiva. Ci attende non il vuoto, non il nulla, ma l’incontro definitivo con il nostro Redentore. Per il cristiano la morte è una nuova nascita: “come in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita” (antifona d’inizio; cf. 1 Cor 15,22). Con la morte cadono tutti i limiti della nostra condizione terrena per essere liberi pienamente e definitivamente nella totalità della nostra esperienza, portando con noi la nostra storia che in qualche modo ritroveremo in Dio. Con la preghiera del salmo responsoriale, abbiamo esclamato: “Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”. Sono immagini con cui la Bibbia esprime la beatitudine eterna a cui siamo tutti chiamati.

Il mistero della morte, che si è compiuto nei nostri congiunti, ci invita ad approfondire il senso della vita da cui la morte ricava significato. Tutti abbiamo bisogno di un qualche punto di riferimento, nessuno può vivere senza ideali, senza valori di riferimento. Alla luce di questi ideali cerchiamo di dare un senso alla vita. Per il cristiano, Cristo e il suo vangelo rappresentano l’ideale a cui far riferimento. La vita presente prepara quella futura e definitiva. Nell’aldilà ritroveremo ciò che abbiamo seminato qui. Il pensiero della morte è salutare quando ci incoraggia ad una vita vissuta consapevolmente, quando ci aiuta a non disperdere i doni di Dio che sono in noi. 

 

giovedì 30 ottobre 2025

TUTTI I SANTI – 1° novembre 2025

 



 

Ap 7,2-4.9-14; Sal 23 (24); 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a

         

Il Sal 23, nella sua prima parte riportata dal salmo responsoriale odierno, è un cantico di pellegrinaggio e riflette una situazione storica ben concreta. Giunti nella prossimità del tempio di Gerusalemme, i pellegrini si pongono la domanda: “Chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo?”. La risposta è categorica: “Chi ha mani innocenti e cuore puro”. I cristiani possiamo riprendere le parole del salmo perché pure noi siamo in cammino, pellegrini verso il luogo santo, verso la dimora del Signore, verso “la città del cielo, la santa Gerusalemme che è nostra madre” (prefazio). Ricuperando e attualizzando il messaggio del salmo, la Chiesa ribadisce che saranno ammessi all’assemblea festosa della gloria e vedranno Dio “i puri di cuore”. 

 

La prima lettura, tratta dall’Apocalisse, propone due visioni di san Giovanni: nella prima, contempliamo la schiera dei santi che si trovano ancora nel tempo del loro pellegrinaggio terrestre; nella seconda, vediamo la moltitudine di quelli che già godono della gloria eterna. Il numero degli eletti è simbolico, ad indicare la pienezza: centoquarantaquattromila, il quadrato di dodici moltiplicato per mille. Esso ha inoltre il carattere dell’universalità; infatti, gli eletti o “segnati con il sigillo” provengono da “ogni nazione, tribù, popolo e lingua”. Nel brano del vangelo viene proclamata una pagina centrale del messaggio di Gesù, il programma di vita che egli propone a coloro che intendono seguirlo: le Beatitudini. È un programma impegnativo; un progetto costruito non secondo i valori del mondo e le possibilità di successo ad essi collegate ma secondo i valori di Dio e i doni che da lui ci vengono offerti gratuitamente. La santità è, come in Cristo, donazione totale dell’essere nella “povertà”, cioè nell’apertura dell’essere intero a Dio, al suo regno e al prossimo.

 

La santità non è impresa per pochi eroi: tutti “siamo chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (Lumen Gentium, n. 40). Il traguardo della santità è per tutti perché, come dice san Giovanni nella seconda lettura, tutti siamo stati oggetto dell’amore di Dio. Infatti, la santità è anzitutto il dono di Dio che ci ama e ci si dona nel suo proprio Figlio. Il progetto del Padre è che noi siamo simili all’immagine del Figlio suo Gesù Cristo. In ciascuno di noi è quindi presente il germe della santità; compito nostro è svilupparlo in pienezza per la vita eterna. Al traguardo della santità ci si arriva attraverso un impegno costante, come ricorda san Giovanni: “Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli - cioè Gesù - è puro”. In modo simile, san Paolo afferma: “purifichiamoci da ogni macchia della carne e dello spirito, portando a compimento la nostra santificazione, nel timore di Dio” (Secondi vespri, lettura breve: 2Cor 7,1).

 

Nel Credo professiamo la fede nella “comunione dei santi”. La solennità odierna celebra i santi appunto come nostri “amici e modelli di vita” (prefazio). Cristo è l’archetipo di ogni santità, il santo per eccellenza, anzi il “solo santo”. Coloro che noi chiamiamo santi sono quindi tali nella misura in cui si identificano con Cristo. Nei santi noi possiamo contemplare realizzata in modo multiforme ed esemplare l’immagine di Cristo ed in essi abbiamo degli amici che ci proteggono nel nostro pellegrinaggio e intercedono perché anche noi possiamo raggiungere l’ambito traguardo. 

         

L’eucaristia è la sorgente di ogni santità e il nutrimento spirituale “che ci sostiene nel pellegrinaggio terreno” verso il traguardo (orazione dopo la comunione).