Nel
Messale tridentino, le rubriche non prescrivevano nessun silenzio e nessuna
pausa durante la celebrazione della Messa. Gli unici momenti nei quali il
sacerdote era invitato a fare una pausa si trovavano nel Canone, al momento
della commemorazione dei vivi e dei defunti, al fine di pregare per loro. La
parole “silenzio” appariva nell’Ordo
Missae solo nell’espressione sub
silentio riferita all’Amen del
Padrenostro del Venerdì Santo, che il sacerdote doveva dire sub silentio.
I
fedeli avevano l’impressione di vivere dei lunghi spazi di silenzio durante la
Messa, soprattutto in quella letta. Ciò viene dal fatto che numerose preghiere
il celebrante le diceva secrete, cioè
sottovoce. Questa consuetudine si è poi accentuata con la Controriforma.
Bisognava distinguere bene fra sacerdote e fedeli perché i riformatori avevano
l’incresciosa tendenza a negare il carattere proprio dello stato sacerdotale.
Si cercò dunque, con decisione, di evitare che le preghiere latine della Messa
venissero messe alla portata dei fedeli; e affinché la Messa restasse un rito
da rispettare, le si stese sopra un velo di mistero.
Una
timida apparizione del silenzio liturgico la si trova nel 1951 con la riforma
della Veglia pasquale promulgata da Pio XII. Nelle orazioni che seguono le
letture della Veglia pasquale, fra i famosi Flectamus
genua e Levate, tutti sono
invitati a pregare in silenzio per un certo tempo. Si tratta di una
restaurazione perché il tempo di preghiera in silenzio esisteva già nelle liturgie
antiche. Nel corso dei secoli questo breve intervallo era stato abbandonato e
si assisteva ad un insensato doppio invito contradditorio: non si finiva di
dire Flectamus genua che già si
diceva Levate. Il Messale del 1962
prescriveva che la processione d’entrata dell’ufficio della Passione del
Signore venisse fatta in silenzio. I fedeli venivano invitati a mettersi in
ginocchio durante l’adorazione della croce e a “adorare per qualche minuto in
silenzio”… Vediamo dunque che le rubriche erano più precise e che comparivano
per prima volta delle indicazioni a rispettare dei tempi di silenzio.
Nel
Messale di Paolo VI, ormai il silenzio fa parte della celebrazione, in fedeltà
a quanto prescrive il Vaticano II: “Si osservi anche, a tempo debito, un sacro
silenzio” (SC 30). È la prima volta che il silenzio trova realmente posto in un
documento ufficiale della liturgia. La Costituzione liturgica lo presenta come
una delle modalità di partecipazione attiva dei fedeli. Nell’attuale terza
edizione tipica del Missale Romanum,
nell’Institutio generalis la parola
“silenzio”, che nella precedente versione ricorreva dodici volte, ora vi
ricorre ventitré volte. La natura del silenzio varia a seconda del momento
della celebrazione a cui si fa riferimento. Ci sono silenzi di “raccoglimento”,
silenzi di “meditazione”, silenzi di “lode e di preghiera”.
Ci
sono anche silenzi intempestivi che spezzano il ritmo della celebrazione. Per
esempio, fare un tempo di silenzio prolungato dopo la consacrazione non è
opportuno perché la preghiera eucaristica è un tutt’uno e costituisce essa
stessa un atto di adorazione. Ci sono poi cattivi silenzi, per esempio quando
l’assemblea non risponde o non canta, e allora la celebrazione diventa un lungo
monologo impersonale, freddo e noioso.
Come
mai il silenzio è stato riscoperto proprio col movimento liturgico e col
Vaticano II? La Costituzione liturgica ha chiesto che siano aperti “più
largamente i tesori della Bibbia, in modo che […] si legga al popolo la maggior
parte della sacra Scrittura” (n. 51). Pian piano si è venuta a formare una
specie di legge: più parola di Dio implica più silenzio della comunità
cristiana riunita.
Il
silenzio nella liturgia dice qualcosa
della teologia della Chiesa: Osservato da tutti, sacerdote e fedeli, il
silenzio è un’azione liturgica alla quale ognuno, in ragione del proprio
sacerdozio battesimale, partecipa attivamente e personalmente; il silenzio
manifesta che la Chiesa è il popolo di Dio che si raduna per celebrare,
pregare, cantare, tacere insieme; il silenzio favorisce un incontro personale
con il Signore; il silenzio di raccoglimento testimonia una Chiesa che si sa
peccatrice e invoca la grazia e il perdono di Dio; il silenzio di meditazione
indica che la celebrazione e anche luogo dove Dio parla al suo popolo
attraverso le Scritture, e questa parola ha bisogno di essere meditata; il
silenzio di preghiera e di lode, in particolare quello dopo la comunione,
attesta una Chiesa che continua ad essere nutrita dalla presenza reale del
Salvatore che la costituisce e la fa
vivere.
Fonte:
Questo post è frutto, e libera sintesi, di un libro che vale la pena di leggere:
Pascal Desthieux, Vivere il silenzio
nella liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2017. 219 pp.