Il
simbolo della croce, per una tradizione maggioritaria del cattolicesimo, è
stato sempre interpretato come il simbolo più alto del sacrificio. Il cammino
religioso dell’Imitatio Christi che
ha ispirato gran parte della cultura cattolico-cristiana scaturisce da questa
identificazione del credente con il corpo del Cristo sofferente sulla croce.
Si
tratta di un episodio – il più alto – dell’obbedienza alla Legge di Dio che
esige addirittura il sacrificio da parte di Dio stesso del proprio unico
figlio? Questo simbolo – il simbolo di Cristo sulla croce – non è forse
l’apoteosi della cultura colpevolizzante e sacrificale del mondo cristiano? Ma
non sarebbe invece possibile leggere questo simbolo in una direzione opposta?
Provare ad accostare il mistero tremendo della crocifissione da un’altra
prospettiva? Non è possibile leggere la drammaticità di questa scena vedendovi
il momento estremo del passaggio di Gesù al di là del fantasma sacrificale?
Nel
Getsemani Gesù si mette a nudo nei confronti del proprio desiderio: sono
disposto ad andare fino in fondo al mio compito? Di bere il calice amaro dell’assoluto
abbandono? Sono capace di essere fedele sino alla fine alla Legge che mi abita?
Un bivio si spalanca: nella fedeltà di Gesù al suo compito dobbiamo vedere il
fantasma sacrificale a scena aperta o cogliere il momento più radicale del suo
superamento?
Gesù
crocifisso non è affatto il simbolo del carattere necessario del sacrificio, ma
quello del suo definitivo abbandono, dell’attraversamento del fantasma
sacrificale, del “sacrificio del sacrificio”. Se in questo fantasma il soggetto
vive nell’obbedienza sacrificando la sua vita per ottenere il massimo
risarcimento, nel gesto di Cristo in primo piano sono una donazione e una
esposizione assolute che eccedono ogni forma di calcolo. Gesù, diversamente
dell’uomo che, nella parabola dei talenti, nasconde il suo solo denaro sotto
terra per paura di perderlo, non teme l’incontro – anche il più traumatico, quello
della morte – con la perdita. Sulla croce egli porta a termine il suo destino,
quello che egli ha scelto come suo compito fondamentale, la propria vocazione: liberare gli uomini dall’illusione
idolatrica del sacrificio. Lo fa vincendo la paura che paralizza la vita e
in questo modo libera la vita dalla paura. Slavoj Žižek coglie perfettamente
questo punto quando scrive:
Il
sacrificio di Cristo ci rende liberi non perché esso sia un pagamento per i
nostri peccati, né perché sia un riscatto legalistico, ma perché mette in atto questa
apertura. Quando abbiamo paura di qualcosa (la paura della morte è la paura
ultima, che ci rende schiavi), un vero amico ci dirà qualcosa come: “Non aver
paura, guarda, io farò proprio ciò che temi e lo farò gratuitamente – non perché
devo, ma perché viene dal mio amore per te: io non ho paura” (La mostruosità di Cristo. Paradosso o
dialettica?, Transeuropa, Massa 2010, pp. 95-96).
Quale
è la differenza profonda tra “sacrificio” del Cristo crocifisso e di quello
ascetico dell’uomo religioso descritto da Nietzsche? Questo secondo sacrificio
è un modo per soddisfare la Legge attendendosi da essa i suoi – come abbiamo
visto – molteplici benefici. È quello che possiamo trovare anche nella
psicologia del terrorista: sacrificare la propria vita terrena (e quella di
altri “infedeli”) per raggiungere – in quanto martire – il paradiso come luogo
di un godimento senza limiti. Diversamente il sacrificio di Gesù non si compie
in vista di altri fini, ma come risposta soggettiva a quella Legge che egli
stesso enuncia nel suo celebre discorso della Montagna: la Legge dell’amore
come nuova forma della Legge, come movimento che si apre radicalmente verso l’Altro,
come donazione senza risparmio di se stessi. Nel dono di sé il desiderio non
vive attendendosi qualcosa dall’Altro, non è subordinato al beneficio che tale
dono potrà eventualmente procurare perché il valore di un dono è nell’atto
stesso del donare e non in quello che esso ci consente di ottenere dall’Altro […]
Nell’esperienza
cristiana della croce ogni economia del risarcimento salta: il creditore decide
– in una mossa asimmetrica – di ricompensare i suoi debitori saldando per
sempre il loro debito, lasciando liberi da ogni vincolo. Nessuna logica sacrificale
si compie quanto piuttosto la sua sovversione: la croce non è il simbolo del
sacrificio, ma è ciò che mette a morte il sacrificio, è ciò che rende per
sempre vano il sacrificio, che libera il sacrificio dal peso cupo del
sacrificio. Gesù non muore sulla croce perché ha la certezza di essere salvato
dal Padre suo che è nei cieli, ma si salva perché decide di morire sulla croce,
perché resta fedele al proprio desiderio. “Nessuno mi toglie (la vita): ma la
do da me stesso” (Gv 10,18). In questo gesto egli libera l’uomo dalla paura
della morte che è la paura che più di altre incentiva ogni pratica sacrificale.
Fonte:
Massimo Recalcati, Contro il sacrificio.
Al di là del fantasma sacrificale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017,
pp. 139-144.