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venerdì 25 settembre 2020

DOMENICA XXVI DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 27 Settembre 2020

 



Ez 18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32

 

Nella prima lettura, vediamo che Dio ammonisce i figli d’Israele, tramite il profeta Ezechiele, e li richiama al senso della responsabilità personale di fronte alle scelte della vita: l’uomo è responsabile delle sue azioni, e queste sono strettamente connesse con la giustizia. Perciò, se vogliamo una vita autentica, non possiamo sottrarci a far propri i valori che la determinano; dobbiamo semplicemente accettarli e viverli coerentemente. Anche dal brano evangelico emerge un forte richiamo alla coerenza della vita. Servendosi, come al solito, di una parabola, Gesù parla di due figli, ai quali il padre dà lo stesso ordine: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Il primo risponde con religioso rispetto e docilità, ma non va a lavorare nella vigna come aveva promesso; il secondo figlio, invece, risponde con arroganza e insolenza in senso negativo, ma alla fine si ravvede e va in campagna a lavorare nella vigna. La morale della storia è così chiara che Gesù vuole che siano i suoi stessi ascoltatori a ricavarla: “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”, domanda Gesù. Non c’è dubbio dicono tutti: l’ultimo. La parabola sottolinea il contrasto che esiste tra il dire e il fare, tra la parola e l’azione. Non basta la semplice conoscenza teorica del vangelo o l’adesione verbale ad esso, ma occorre una conversione totale in modo che l’insegnamento di Gesù sia tradotto in comportamento di vita. Il sì della bocca è insufficiente, quello decisivo è il sì dei fatti. Possiamo ben dire che non esiste affermazione di fede che non possa e non debba essere verificata nella prassi della vita quotidiana. Nel regno di Dio entra solo chi fa la volontà del Padre: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21).

 

Nella seconda lettura, san Paolo ci dà il punto di riferimento della nostra obbedienza al Padre. Siamo infatti invitati ad avere in noi “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione divina […] svuotò se stesso assumendo una condizione di servo […] umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. Il brano paolino sintetizza le varie tappe del mistero di Cristo: la sua preesistenza divina, l’abbassamento alla condizione di servo nel mistero dell’incarnazione e una ulteriore umiliazione fino alla morte di croce, alla quale fa seguito l’esaltazione. A noi interessa qui sottolineare che queste tappe sono percorse da Cristo sotto il segno dell’obbedienza al Padre.              

 

Nella celebrazione eucaristica noi comunichiamo sacramentalmente proprio con il mistero della morte di Cristo e quindi della sua umiliazione e obbedienza. Notiamo però che la partecipazione sacramentale esige una coerenza esistenziale che va al di là del momento strettamente rituale.