La religiosità non è solo un sentimento, o una guida morale,
o un vademecum sociale. È anche un modo razionale e irrazionale insieme, di
fare i conti con la dimensione del tragico nella storia e di scendere a patti
con il mistero. Con Nietzsche ci eravamo convinti che “non esistono fatti, solo
interpretazioni”. Poi qualcosa ci cambia per sempre la vita, come la Grande
Epidemia, con migliaia di vittime, la paura lo spaesamento, la disruption che provoca,
e ci accorgiamo che i fatti esistono, altroché.
Comprendiamo allora che la religione non può essere ridotta a
un dispensatore di generi di conforto. Né possiamo richiuderla in un rapporto
privato a due, tra fedele e Dio, perché ci serve invece che continui a
rappresentare, come è stato per secoli, un fattore di civilizzazione.
[…]
La religione non serve solo a pregare in privato, è un legame
di comunità, e la fede ha rilevanza nel dibattito pubblico. La Chiesa si chiama
così perché viene da ecclesia, che in greco designava l’assemblea, la
riunione, l’adunanza, esattamente come la riunione dei cittadini nell’agorà
nella democrazia ateniese.
La religione è dunque un fatto sociale, prima ancora che
personale. Secondo il fondatore della sociologia, Émile Durkheim, la sua
originaria ragione d’essere sarebbe proprio quella di tenere insieme la
comunità di uomini. Ce ne accorgiamo quando non c’è, o quando si rinchiude o si
estremizza, e non esercita più con efficacia il suo magistero.
Fonte: Antonio Polito, Le regole del cammino. In viaggio
verso il tempo che ci attende (Universale Economica Feltrinelli), Marsilio,
Venezia 2022, pp. 101-102.