Il
termine “dittico” deriva dalle parole greche δίς (= due volte) e πτύσσειν (= piegare),
con le quali originariamente era indicato qualsiasi oggetto piegato appunto in
due parti. Nella tarda antichità la parola assunse un significato più ristretto
e indicò un oggetto usato per la scrittura, consistente di due valve uguali e
chiudibili. Il primitivo uso dei dittici risale al VI sec. a. C. Furono
utilizzati per esercizi di scrittura a scuola, per abbozzi, disegni e minute nonché
per la corrispondenza. Erano usati anche per protocolli e per la redazione di
liste nelle quali dovevano facilmente intervenire dei cambiamenti. Dal IV sec.
d. C. in poi i dittici acquistarono una grande importanza nella vita politica e
sociale.
In
conformità all’uso originario di dittici per le registrazioni documentate e per
le liste di nomi, anche la Chiesa primitiva impiegava i dittici per gli atti
ufficiali. Qui ci interessa l’uso che se ne faceva nella liturgia[1]. I termini con cui sono
nominati nell’Occidente latino sono vari: tabellae,
codices, e soprattutto dyptica. Si trattava generalmente di
copie di tavolette congiunte a cerniera, in legno o anche in avorio e altri
materiali, talvolta riccamente decorate, sulle quali venivano scritti i nomi degli
offerenti, ma in seguito anche dei fondatori delle Chiese, dei vescovi che si
erano avvicendati nella sede vescovile, così come il nome di altri vescovi
della provincia o altri con cui si era in comunione, in particolare del papa, e
anche il nome dell’imperatore, dei notabili, dei benefattori, dei fedeli vivi o
defunti nonché dei santi di cui si voleva ottenere l’intercessione. Questo
elenco di persone ricordava lo stretto legame di comunione che univa i membri
della Chiesa militante, sofferente e trionfante. I nomi erano letti nel corso
della celebrazione liturgica, in particolare durante la Messa. Nei primi tempi,
la lettura ad alta voce dei dittici era fatta non dal celebrante ma dal diacono
o da qualche altro chierico. Il posto primitivo per la lettura dei dittici era
probabilmente all’offertorio; in seguito saranno letti nel corso della
preghiera eucaristica al momento delle intercessioni.
I
dittici andarono acquisendo una crescente sacralità, fino ad essere considerati
talvolta equivalenti alle reliquie. Essere
incluso nei dittici ovvero cancellato da essi, fu equivalente a venire
considerato in comunione con la Chiesa (e quindi degno di preghiere) oppure
estromesso dalla medesima come eretico, scismatico o macchiato di qualche
delitto: abbiamo testimonianze in merito di Cipriano, Giovanni Crisostomo,
Agostino, e altri[2].
Ecco quindi che avere il nomen in sacris dypticis scriptum era
segno di comunione con le persone nominate e giudizio sulla loro ortodossia e
santità. Perciò a volte i dittici si chiamavano liber vitae (con allusione a Fil 4,3; Ap 13,8; 21,27) o anche sacrus catalogus, sacrum album, sacrae tabulae,
mysticae tabulae, ecc. Tra i secoli V
e VI, Lo Pseudo-Dionigi l’Areopagita può affermare: “Sacrarum porro tabularum quae post pacen adhibetur recitatio,
depraedicat eos qui sancte vixerunt, atque ad probae vitae perfectionem
constanter pervenerunt”[3].
Quando si entrava in comunione con i vescovi di un’altra sede vescovile si
realizzava l’atto del nomen in dyptica
recipere. Al contrario, cancellare il nome nei dittici era un segno di
condanna.
Durante le lotte cristologiche dei
secoli V e VI, l’inclusione o l’esclusione dei nomi nei dittici diede occasione
a non poche controversie e abusi. Tra il secolo VIII e il secolo IX, le Chiese
sostituirono un po’ alla volta la lettura dei dittici con brevi commemorazioni,
che furono inserite nei testi fissi delle preghiere eucaristiche.
Anche se nell’uso e nell’abuso dei
dittici Occidente e Oriente si intrecciano, vorrei organizzare queste brevi
riflessioni distinguendo le due aree geografiche nonché ecclesiali. Mi soffermo
su alcuni casi più significativi, senza pretendere di essere esauriente.
I
dittici in Occidente
L’uso di ricordare i nomi degli
offerenti nonché quelli dei defunti nel corso della celebrazione eucaristica è
molto antico. Nel secolo II/III abbiamo delle testimonianze più o meno chiare
negli scritti di Tertulliano e di san Cipriano. Nel secolo IV/V abbiamo diverse
testimonianze di sant’Agostino, dalle quale si ricava che “… mai si debbono trascurare le suppliche per le anime dei
defunti. Cosa che la Chiesa, in una comune commemorazione, ha fatto da sempre
per tutti coloro che sono morti nella comunione cristiana e cattolica, anche
senza dirne i nomi…”[4] Nel
libro delle Confessioni, Agostino
racconta la morte ad Ostia si sua madre Monica. E alla fine di questo
commovente racconto, il santo afferma rivolgendosi in preghiera al Signore:
“quanti leggono queste parole si ricordino davanti al tuo altare di Monica, tua
serva, e di Patrizio, già suo marito, mediante la cui carne mi introducesti in
questa vita”[5]. Dei defunti quindi si fa
memoria e si prega per loro. Non così dei martiri, che sono nominati ma non si
prega per loro: “… E per questo si ha la disciplina ecclesiastica, che i fedeli
conoscono, per cui i martiri sono nominati all’altare di Dio in un momento nel
quale non si debba pregare in loro favore; si prega, invece, in suffragio degli
altri defunti, dei quali si fa memoria…”[6] Durante
la celebrazione dei divini misteri, oltre ai nomi dei martiri, vengano
menzionati anche quelli delle sacre vergini defunte[7].
All’inizio del secolo V, Innocenzo I
nella sua lettera a Decenzio, vescovo di Gubbio, ordina che i nomi degli offerenti
siano letti non nell’offertorio ma nel corso della preghiera eucaristica o
canone romano: “De nominibus vero
recitandis, antequam precem sacerdos faciat atque eorum oblationes, quorum
nomina recitanda sunt, sua oratione commendat, quam superfluum sit, et ipse per
tuam prudentiam recognoscis, ut cuius hostiam, nec dum Deo offeras, eius ante
nomen insinues, quamvis illi incognitum nihil sit. Prima ergo oblationes sunt
commendandae ac tunc eorum nomina, quorum sunt edicenda, ut inter sacra
mysteria nominentur, non inter alia, quae ante praemittimus, ut ipsis mysteriis
viam futuri precibus aperiamus”[8].
Non è facile dire con precisione come si faceva questa raccomandazione degli
offerenti nella liturgia che celebrava papa Innocenzo, dato che non abbiamo
nessun testo completo del canone romano anteriore a Gregorio Magno e ciò che ci
ha trasmesso sant’Ambrogio nel De
Sacramentis inizia al Quam oblationem.
In ogni modo, secondo Paul Cagin, a cui fanno seguito Bernard Capelle, Robert
Cabié e altri ancora, il testo della lettera dimostrerebbe che nel 416 circa i
dittici erano letti nel corso di una sorta di Memento, come si trova in seguito nel canone postgregoriano, e non
prima del canone come si faceva nella liturgia gallicana e proponeva il vescovo
Decenzio[9].
Ecco dunque che da parecchi anni i dittici erano già stati introdotti a Roma
nel canone della messa.
Naturalmente, la lettura dei nomi in
pubblico poteva lusingare la vanità degli offerenti in modo particolare se
altolocati, o anche prestarsi a giudizi malevoli. Ciò risulta da
un’osservazione un po’ brusca di san Girolamo, il quale riferendosi probabilmente
all’uso occidentale, afferma nel suo Commento al profeta Ezechiele, scritto
nell’anno 411: “… ut de multis parva
pauperibus tribuant, et in suis sceleribus glorientur. Publiceque diaconus in
Ecclesiis recitet offerentium nomina: tantum offert illa, tantum ille
pollicitus est, placentque sibi ad plausum populi, torquente eos conscientia”[10].
Nel sec. VI nominare il papa nella
preghiera di intercessione del canone va assumendo sempre più il carattere di
regola fissa nelle Chiese occidentali. Nel 500 riscontriamo tale uso a Milano e
a Ravenna. Nel 519 ne riferiscono due vescovi dell’Epiro. Nel 529 questa usanza
viene prescritta, su domanda di san Cesareo di Arles, dal Concilio di Vaison
per il relativo territorio[11].
Nella complessa questione dei “Tre Capitoli”,
alcune chiese occidentali cancellarono il nome di papa Pelagio I dai dittici.
L’imperatore Giustiniano, sperando di ottenere il favore dei monofisiti, con un
editto del 545 giudicò eretici tutti gli scritti di Teodoro di Mopsuestia (+
428), alcuni di Teodoreto di Ciro (+ 458) nonché una lettera del teologo,
scrittore e vescovo siro Iba di Edessa (+ 457). Questi scritti, raccolti
appunto in “Tre Capitoli”, venivano considerati di tendenza nestoriana. Papa
Vigilio (537-555) si oppose al provvedimento imperiale, però poi mutò opinione
col protrarsi delle pressioni dell’imperatore. Il suo successore Pelagio I (556-561),
che era stato sempre contrario alla condanna dei “Tre Capitoli”, cambiò
improvvisamente atteggiamento quando Giustiniano gli fece capire che avrebbe
appoggiato la sua candidatura al soglio pontificio. Pelagio fu costretto a
condannare i Tre Capitoli e ad approvare il concilio di Costantinopoli.
In seguito, Pelagio I si trovò a
dover contrastare e appianare l’opposizione dell’episcopato occidentale, ostile
alle dottrine imposte dall’Oriente. I metropoliti di Aquilea e Milano
disdissero la comunione ecclesiale con lui. Nella Toscana (Tuscia Annonaria) parecchi vescovi si rifiutarono di fare menzione
del nome del nuovo papa nella celebrazione eucaristica. Il defensor romano inviato da papa Pelagio ne risentì, ma otto vescovi
gli consegnarono una relazione in cui spiegavano la posizione assunta: non
intendevano interrompere la comunione col vescovo di Roma, ma chiedevano
garanzie in merito all’ortodossia di Pelagio. Il papa rispose con una lettera dal
tono particolarmente benevolo indirizzata ai dilectissimis fratribus, ma in cui esigeva dai vescovi della
Toscana che fosse fatto il suo nome nei dittici della messa: “quomodo vos ab universi orbis communione
separatos esse non creditis, si mei inter sacra mysteria secundum consuetudinem
nominis memoriam reticetis?”. Solo nel seguito della lettera, il papa, per
evitare ogni sospetto sulla sua fede, formulava la professione di fede nei
quattro concili ecumenici, tacendo del concilio di Costantinopoli del 553[12].
Lo scisma prodottosi nell’Italia settentrionale riuscì a ridimensionarlo solo
il successore di Pelagio, Giovanni III (561-574).
Ancora nel secolo IX i dittici erano
d’uso comune in Occidente. Il pontificato di papa Nicolò I
(858-867) è stato un periodo di affermazione del primato papale sulle Chiese e
sulle monarchie carolingie. Nel suo pontificato, Nicolò I ha agito con energia
e fermezza. Nei suoi rapporti con i vescovi metropoliti, spesso in omaggio ai
principi ha sacrificato la giustizia della causa[13]. Non c’è da meravigliarsi
che si sia procurato dei nemici. Il suo successore Adriano II (867-872) ha
dovuto ingiungere ai vescovi radunati nel sinodo di Troyes del 867 di rimettere
il nome del suo predecessore nei dittici[14].
I
Dittici in Oriente
Sull’uso e abuso dei dittici in Oriente, in particolare a
Costantinopoli, ricordo alcuni dei fatti più rilevanti seguendo anche qui un
ordine cronologico.
Sono note le vicende di san Giovanni Crisostomo, diventato
vescovo di Costantinopoli nel 398[15]. Lo
zelo coraggioso, la moralità severa, l’avversione al lusso procurarono a
Giovanni molti nemici, specie negli alti ranghi della società compreso l’alto
clero. E ostile gli diventò anche la corte, ove l’imperatrice Eudossia, che
aveva nelle mani le redini del governo, mal sopportava le poco velate allusioni
del patriarca alla lussuria e alla depravazione, allusioni che diventavano
sempre più aspre. Ma implacabile fu soprattutto Teofilo, il patriarca di
Alessandria, che fu al centro di tutti gli intrighi contro il Crisostomo. Un
Sinodo di trentasei vescovi convocato dall’imperatore Arcadio e presieduto da
Teofilo, il cosiddetto “Sinodo della Quercia”, dal luogo presso Calcedonia dove
si riunì alla fine di settembre del 403, depose Giovanni. Il suo nome fu
cancellato dai dittici, malgrado l’energica protesta del papa Innocenzo I, e Arcadio
lo condannò all’esilio in Armenia. Le energiche proteste del popolo,
ottennero il suo richiamo; ma su pressione dell’imperatrice, Giovanni fu
nuovamente esiliato nel Ponto fino alla sua morte nel 407[16].
Nelle vicende del Crisostomo ebbe un
ruolo importante anche Acacio di Berea, l’odierna Aleppo in Siria.
All’inizio dell’episcopato di Giovanni Crisostomo, nel 398, Acacio giunse a
Costantinopoli, dove si sentì trattato con meno rispetto di quello che sperava,
se ne risentì grandemente e divenne un nemico accanito e irriducibile di
Giovanni non perdendo occasione per attaccarlo. Presente nel Sinodo della
Quercia, si mostrò fieramente avversario del Crisostomo. Non solo, ma in ogni
sinodo convenuto per riabilitarlo, si dimostrò suo infaticabile denigratore.
Sembra che la sua inimicizia restò tale anche dopo la morte del suo
antagonista, al punto che nel 421 scrisse ad Attico di Costantinopoli
lagnandosi del fatto che Teodoto di Antiochia aveva inserito il nome di
Giovanni Crisostomo nei dittici. Attico succedette nel 406 al deposto Giovanni
Crisostomo, dopo aver testimoniato contro di lui nel Sinodo della Quercia. La
deposizione di Giovanni, disapprovata da Innocenzo I, provocò una forte
tensione fra Roma e Costantinopoli durata fino a quando Attico ripristinò nei
dittici il nome del deposto. Infatti, il Papa separò dalla sua comunione
Teofilo e gli altri vescovi orientali e mise come condizione per la
riconciliazione la riabilitazione di Giovanni, ossia la reposizione del suo
nome nei dittici[17].
Qualche parola sul cosiddetto Latrocinium Ephesinum. Il cinque legati
pontifici al Concilio di Calcedonia del 451, dichiararono espunti dai dittici i
nomi di Dioscoro vescovo di Alessandria, Giovenale vescovo di Gerusalemme ed
Eustazio vescovo di Beirut. Questi tre vescovi erano stati i promotori qualche
anno prima del Latrocinium Ephesinum.
Papa Leone Magno per fugare ogni dubbio del patriarca di Costantinopoli
Anatolio, che presiedeva il Concilio, confermò in una lettera al patriarca il
giudizio espresso dai suoi legati[18].
Alla fine del V secolo, emersero con
rinnovata asprezza le controversie cristologiche, mai spente in Oriente. Nel
482 l’imperatore Zenone, d’accordo col patriarca di Costantinopoli Acacio,
promulgò l’Henotikon, la cui dottrina
si rifaceva a Nicea e Costantinopoli ma trascurava Calcedonia. L’Henotikon non fu accettato da Roma. Lo
scisma acaciano durò trentaquattro anni ed ebbe fine con l’ascesa al trono
imperiale di Giustino I[19].
L’imperatore
Giustino I (518-527), nella cerimonia di incoronazione professò la sua
ortodossia e contrariamente a quello che era stato l’atteggiamento dei suoi
antecessori, perseguitò i monofisiti e riprese i rapporti con Roma, anche per influenza del
nipote Giustiniano, da lui associato al trono poco prima di morire. A furore di
popolo, furono iscritti nei dittici i nomi di Papa Leone Magno e di altri
vescovi che erano stati perseguitati per la loro fedeltà all’ortodossia.
Inoltre per la prima volta si iscrissero nei dittici non solo il nome delle
persone, ma anche quelli dei Concili (i primi quattro ecumenici). Invece il
nome di Acacio, patriarca di Costantinopoli (471-489), come quelli degli
imperatori Zenone (474-491) e Anastasio (491-518), furono eliminati dai sacri
dittici. Ecco
quindi che, dopo un
periodo di tensione con Roma, nel VI secolo si recitava il nome del papa nei
dittici, e dal tempo di Giustiniano al primo posto[20].
Conclusione
Mario Righetti colloca i dittici
nella serie dei “libri liturgici di lettura”[21].
In ogni modo, se non si tratta di un libro liturgico vero e proprio, i dittici
hanno avuto nella Chiesa antica un ruolo importante nel bene come nel male. La
lettura dei nomi nel corso della celebrazione eucaristica è stata certamente
segno di comunione ecclesiale. Anzi l’iscrizione nei dittici dei vescovi che si
erano distinti in vita per la loro santità equivaleva ad una sorta di
canonizzazione. Di qui proviene, secondo il Du Cange, il verbo canonizare (introdurre nel canone)[22].
E quindi essere esclusi dai dittici è stato segno di una sorta di scomunica.
Non sempre però l’inclusione o l’esclusione dal liber vitae è stata fatta secondo i criteri dettati
dall’ortodossia. D’altra parte, come ci ricorda san Girolamo, la lettura dei
nomi in pubblico poteva lusingare la vanità degli offerenti, in modo
particolare se altolocati. Abbiamo visto che l’ambiguità con cui Pelagio I
affrontò la complessa questione dei “Tre Capitoli”, fu strumentalizzata da
alcuni vescovi del centro-nord della penisola italiana, ostili alle dottrine
imposte dall’Oriente, creando una situazione di forte tensione con il vescovo
di Roma cancellato dai dittici.
Ho illustrato alcuni casi in cui i
rancori personali hanno avuto un ruolo importante nell’esclusione dai dittici,
come nelle vicende del grande vescovo e dottore della Chiesa san Giovanni
Crisostomo, vicende in cui oltre ai rancori personali si sono mescolati anche inconfessabili
interessi politici. Infatti, le tensioni tra le Chiese di Oriente e quelle di Occidente
non sono state sempre provocate da divergenze dottrinali; la politica imperiale
ha avuto non di rado la sua parte includendo o escludendo dalla lista dei
vescovi nominati nei dittici quelli graditi o non graditi secondo i casi.
Matias Augé, in Costellazioni geo-ecclesiali da Costantino a Giustiniano: dalle Chiese
‘Principali’ alle Chiese Patriarcali. XLIII Incontro di Studiosi dell’Antichità
Cristiana (Studia Ephemeridis Augustinianum 149), Roma 2017, 211-218.
l
Mar Nero. Qui il 14 settembre 407prima in Armenia, poi sulle rive del ar Nero.
Qui il 14 settembre prima in Armenia, poi sulle rive del Mar Nero. Qui il 14
settembre 407prima in Armenia, poi sulle rive del 407
[1]
Cf. F. Cabrol,
“Diptyques (Liturgie)”, in DACL IV,1,
1045-1094; F. Oppenheim,
“Dittico”, in Enciclopedia Cattolica IV,
Città del Vaticano 1950, 1759-1763
[2]
Cf. Richard Delbrueck, Dittici consolari tardoantichi,
a cura di Marilena Abbatepaolo, Edi-puglia, Bari, 2009, 565-584 e 571-573.
[3] Pseudo-Dionigi
l’Areopagita, De Ecclesiastica
Hierarchia 3, 9: PG 3, 438.
[4] Agostino,
Sulla cura dovuta ai morti 4. Leggo le opere di Agostino nel sito http://www.augustinus.it/ di Città Nuova
Editrice.
[5] Agostino,
Le Confessioni 9,13.
[6] Agostino,
Discorso 159,1; La Città di Dio
22, 10.
[7] Agostino,
La Santa Verginità 45.
[8] Innocenzo
I, Epist. 25, 2: PL 20, 553-554.
[9] Cf. R. Cabié,
La lettre du pape Innocent Ier
à Décentius de Gubbio (19 mars 416). Texte critique, traduction et commentaire (Bibliothèque
de la RHE 58), Louvain 1973, 35-61.
[10] Girolamo,
In Ezechielem, cap. 18: PL 25, 175. Nove
anni dopo, lo stesso Girolamo, nel suo Commento a Geremia, deplora che il
perdono dei peccati richiesto nella recita dei nomi degli offerenti, si
converta in lode di colui che presenta l’offerta: “At nunc publice recitantur offerentium nomina et redemptio peccatorum
mutatur in laudem” (In Jeremiam, 2, 11: PL 24, 755).
[11] “Et hoc nobis justum visum, ut nomen domini papae, quicumque sedis
apostolicae praefuerit, in nostris ecclesiis recitetur” (Concilium Vasense III, can. 4: Mansi Sacrorum
Conciliorum nova et amplissima collectio, 8, 728).
[12] Cf. Pelagio I, Ep.
5 Ad Episcopos Tusciae: PL 69, 398 C.
[13]
Cf. P. Paschini – V. Monachino (edd.), I Papi nella storia, 1, Coletti, Roma
1961, 292-304.
[14] Il testo della lettera di
Adriano II al sinodo di Troyes si trova in Mansi
Sacrorum Conciliorum nova et amplissima
collectio, 15, 821-822. Vedi anche M. Righetti,
Storia Liturgica, vol. 1. Introduzione generale, edizione
anastatica, Àncora, Milano 1998, 315.
[15] Si può consultare, tra l’altro, Niceforo Callisto Xanthopoulos, Historia Ecclesiastica 14, 26-27: PG 146, 1137-1149.
[16] Cf. P.
Paschini – V. Monachino (edd.), I
Papi nella storia, 1, cit., 70-73.
[17] Cf. Innocenzo
I, Epist. 21 e 22: PL 20, 543-546.
[18] Cf. Leone
Magno, Epist. 80: PL 54,
914-915.
[19] Cf. G.
Filoramo, E. Lupieri, S. Pricoco, Storia
del cristianesimo. L’antichità, Laterza 20042, 403.
[20] Su questi dati, cf. Hubert Jedin (ed.), Storia
della Chiesa, vol. 3, Jaca Book, Milano 1978, 17-19; J.A. Jungmann, Missarum
Sollemnia. Origini, liturgia, storia e teologia della Mesa romana, Edizione
anastatica, Àncora, Milano 2004, parte
II, 121.
[21] Cf. M. Righetti,
Storia Liturgica, vol. 1. Introduzione generale, cit., 314.
[22] Cf. Du
Cange, Glossarium Mediae et
Infimae Latinitatis, alla voce “canonizare”.