Il prof.
Andrea Grillo ha gentilmente risposto alle mie perplessità su quanto egli aveva
scritto su Rivista di Pastorale Liturgica 334 (pp. 19-23). Anche se i
sette acuti chiarimenti del nuovo testo di Grillo (dalla a alla g),
meriterebbero tutti la mia attenzione, mi limiterò qui a ciò che credo sia il
problema fondamentale. Alla fine del suo intervento, il prof. Grillo afferma:
“oso pensare che, nella sostanza, ci troviamo (io e lui) profondamente
d’accordo…” Probabilmente siamo d’accordo nella sostanza, ma un po’ meno nel
metodo. Mi spiego. A mio avviso, in questa problematica bisogna distinguere:
ciò che di fatto succede nelle celebrazioni liturgiche delle nostre chiese; il
ruolo dei pastori e degli studiosi o esperti in liturgia; il ruolo
dell’autorità della Chiesa.
Di quanto
succede nelle celebrazioni liturgiche delle nostre chiese, tutti abbiamo una
certa conoscenza: celebrazioni corrette, ma talvolta poco incisive che
rischiano di diventare abusive per difetto; celebrazioni arbitrarie, alcune
anche aberranti, che stravolgono il senso della liturgia; interventi creativi o
nuovi usi che cercano di esprimersi in sintonia con lo spirito della liturgia,
ma vanno oltre le norme vigenti. Dinanzi a questo variegato panorama, quale
atteggiamento dovrebbe avere l’esperto in liturgia? Secondo me, il liturgista
dovrebbe analizzare il fenomeno, valutarne le cause e indicare, dopo un
adeguato discernimento, gli aspetti che meritano una certa attenzione sia in
senso positivo che negativo. Da parte sua, l’autorità della Chiesa ha il
compito di salvaguardare la riforma liturgica di Paolo VI e promuovere, quando
sia il caso, degli adeguamenti o cambiamenti. In questo contesto, si ricorda
giustamente l’intervento di papa Francesco, attraverso la Congregazione per il
culto divino, sulla lavanda dei piedi col decreto In missa in cena Domini (6
gennaio 2016).
Anche se,
come dice Grillo, quando si parla di “creatività” si vuole in ogni caso
escludere un “uso arbitrario” dell’ordo, di fatto si rischia di offrire
una base teorica che giustifica ogni tipo di creatività, dando spago agli abusi
anche a quelli più aberranti. Chi giudica che si tratta di un uso arbitrario o
meno?
Grillo
afferma: “se la norma è inadeguata, si cambia la norma, non si censura il rito.
Infatti non si celebra ‘iuris causa’, ma lo ius esiste ‘ritus causa’ ”. Credo
che in questa affermazione ci sia una discutibile contrapposizione tra rito e
norma. Il rito è da per sé normativo, non è stabilito dai partecipanti ad esso,
che piuttosto devono eseguire sequenze e regole prestabilite. Se la
partecipazione ad un rito dipende dalla voglia del momento, giustificata magari
dalla volontà di dare parola ai diversi linguaggi della celebrazione, c’è il
rischio di manomettere l’azione celebrativa e asservirla ai propri bisogni
soggettivi o di gruppo. Credo che Grillo è d’accordo con me che Summorum
Pontificum è stato in qualche modo un esempio di questa tendenza quando
nella Lettera che accompagna il documento si giustifica il ripristino del vetus
ordo affermando, tra l’altro, che “anche giovani persone scoprono questa forma
liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma,
particolarmente appropriata per loro”. Una liturgia a la carte?
Secondo me,
il nocciolo della questione sta nel rapporto che intercorre tra rito e norma.
Al riguardo, non in vano ho citato nel mio primo intervento SC, nn. 22 e 26.
Certamente, come afferma Grillo, la norma liturgica “pretende una ermeneutica
più ampia e più duttile”, a mio avviso però ciò non significa che essa possa
essere ignorata o stravolta. La norma non dovrebbe ostacolare l’attivazione dei
linguaggi molteplici della celebrazione, ma orientarli e metterli al riparo dei
soggettivismi.
M. Augé