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giovedì 27 giugno 2019

NORMA VERSUS RITO?




Il prof. Andrea Grillo ha gentilmente risposto alle mie perplessità su quanto egli aveva scritto su Rivista di Pastorale Liturgica 334 (pp. 19-23). Anche se i sette acuti chiarimenti del nuovo testo di Grillo (dalla a alla g), meriterebbero tutti la mia attenzione, mi limiterò qui a ciò che credo sia il problema fondamentale. Alla fine del suo intervento, il prof. Grillo afferma: “oso pensare che, nella sostanza, ci troviamo (io e lui) profondamente d’accordo…” Probabilmente siamo d’accordo nella sostanza, ma un po’ meno nel metodo. Mi spiego. A mio avviso, in questa problematica bisogna distinguere: ciò che di fatto succede nelle celebrazioni liturgiche delle nostre chiese; il ruolo dei pastori e degli studiosi o esperti in liturgia; il ruolo dell’autorità della Chiesa.

Di quanto succede nelle celebrazioni liturgiche delle nostre chiese, tutti abbiamo una certa conoscenza: celebrazioni corrette, ma talvolta poco incisive che rischiano di diventare abusive per difetto; celebrazioni arbitrarie, alcune anche aberranti, che stravolgono il senso della liturgia; interventi creativi o nuovi usi che cercano di esprimersi in sintonia con lo spirito della liturgia, ma vanno oltre le norme vigenti. Dinanzi a questo variegato panorama, quale atteggiamento dovrebbe avere l’esperto in liturgia? Secondo me, il liturgista dovrebbe analizzare il fenomeno, valutarne le cause e indicare, dopo un adeguato discernimento, gli aspetti che meritano una certa attenzione sia in senso positivo che negativo. Da parte sua, l’autorità della Chiesa ha il compito di salvaguardare la riforma liturgica di Paolo VI e promuovere, quando sia il caso, degli adeguamenti o cambiamenti. In questo contesto, si ricorda giustamente l’intervento di papa Francesco, attraverso la Congregazione per il culto divino, sulla lavanda dei piedi col decreto In missa in cena Domini (6 gennaio 2016). 

Anche se, come dice Grillo, quando si parla di “creatività” si vuole in ogni caso escludere un “uso arbitrario” dell’ordo, di fatto si rischia di offrire una base teorica che giustifica ogni tipo di creatività, dando spago agli abusi anche a quelli più aberranti. Chi giudica che si tratta di un uso arbitrario o meno?

Grillo afferma: “se la norma è inadeguata, si cambia la norma, non si censura il rito. Infatti non si celebra ‘iuris causa’, ma lo ius esiste ‘ritus causa’ ”. Credo che in questa affermazione ci sia una discutibile contrapposizione tra rito e norma. Il rito è da per sé normativo, non è stabilito dai partecipanti ad esso, che piuttosto devono eseguire sequenze e regole prestabilite. Se la partecipazione ad un rito dipende dalla voglia del momento, giustificata magari dalla volontà di dare parola ai diversi linguaggi della celebrazione, c’è il rischio di manomettere l’azione celebrativa e asservirla ai propri bisogni soggettivi o di gruppo. Credo che Grillo è d’accordo con me che Summorum Pontificum è stato in qualche modo un esempio di questa tendenza quando nella Lettera che accompagna il documento si giustifica il ripristino del vetus ordo affermando, tra l’altro, che “anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma, particolarmente appropriata per loro”. Una liturgia a la carte?

Secondo me, il nocciolo della questione sta nel rapporto che intercorre tra rito e norma. Al riguardo, non in vano ho citato nel mio primo intervento SC, nn. 22 e 26. Certamente, come afferma Grillo, la norma liturgica “pretende una ermeneutica più ampia e più duttile”, a mio avviso però ciò non significa che essa possa essere ignorata o stravolta. La norma non dovrebbe ostacolare l’attivazione dei linguaggi molteplici della celebrazione, ma orientarli e metterli al riparo dei soggettivismi.

                                                                                      M. Augé