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venerdì 21 giugno 2019

DOMENICA II DOPO PENTECOSTE: SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO 23 Giugno 2019





Gen 14,18-20; Sal 109 (110); 1Cor 11,23-26; Lc 9,11b-17


La prima lettura parla di Melchisedek, “re di Salem” e “sacerdote del Dio altissimo”, che, come segno di ospitalità e amicizia, “offrì pane e vino” e “benedisse” Abram che tornava da una vittoriosa campagna militare. La seconda lettura invece riporta la descrizione dell’ultima cena, in cui Gesù istituisce l’eucaristia col pane e col vino, sacrificio della nuova ed eterna alleanza. Il brano evangelico racconta la moltiplicazione dei pani e dei pesci, in cui Gesù compie gli stessi gesti con cui istituisce poi l’eucaristia: “prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli” (v. 16). Le tre letture fanno riferimento al mistero eucaristico che la Chiesa propone oggi di nuovo alla nostra attenzione dopo averlo contemplato la sera del Giovedì santo con gli occhi rivolti alla Croce del Venerdì santo. Che cos’è l’eucaristia? Non è possibile dare una risposta esauriente. Ci limitiamo ad una lettura del mistero eucaristico a partire dalla persona di Cristo sacerdote, come suggeriscono le letture bibliche odierne.



Possiamo prendere come punto di partenza un aspetto tipico del racconto di Paolo, soffermandoci cioè sul mandato di Gesù, ricorrente ben due volte in questa breve lettura: “fate questo in memoria di me”. Fare qualcosa “in memoria” non è semplicemente ripetere e neppure ricordare qualcosa o qualcuno. Sullo sfondo del contesto del rituale della Pasqua biblica, “fare memoria” vuol dire rendere presente l’evento salvifico per prendervi parte. Nell’orazione della messa si dice che nell’eucaristia il Signore Gesù “ci ha lasciato il memoriale della sua Pasqua”. Gesù, che ha vissuto una vita di totale obbedienza al Padre e di servizio agli uomini, cioè il vero culto e il vero sacrificio, alla fine della sua esistenza la riprende riassumendola ed esprimendola con il gesto simbolico, cultuale, del pane spezzato e condiviso e del calice del vino distribuito. Riassunta in un gesto rituale, ripetibile, celebrativo, Gesù consegna la sua vita ai discepoli perché noi tutti ne facciamo memoria nel rito (“fate questo in memoria di me”) e nella propria esistenza (“prendete e mangiate”) inseparabilmente. Come Cristo ha raccolto la sua esistenza (il vero culto) nei segni, così l’esistenza umana (il culto spirituale) si raccoglie in momenti – segno che in certo qual modo separano dal quotidiano per celebrare però il grande evento che dà senso al quotidiano. Ciò che dà consistenza all’eucaristia non è un rito, ma un’esistenza, quella di Cristo. Ciò che quindi è essenziale in questa celebrazione è la “memoria” di questa esistenza e di questa persona, la comunione con essa, l’appropriazione dei suoi stessi atteggiamenti esistenziali.  



 Il sacerdozio di Cristo non è né rituale né semplicemente esteriore, bensì personale e vitale. Cristo si rende presente nell’eucaristia perché, partecipando ad essa, facciamo nostra la sua vita di oblazione e di condivisione. Celebrare l’eucaristia vuol dire riprodurre in noi i sentimenti di Cristo, di colui che ha vissuto una vita di totale obbedienza al Padre donandosi per la nostra salvezza. Egli diventa per noi pane, perché noi impariamo a diventarlo per gli altri.