Gen 14,18-20; Sal 109 (110); 1Cor 11,23-26; Lc
9,11b-17
La prima lettura parla di
Melchisedek, “re di Salem” e “sacerdote del Dio altissimo”, che, come segno di
ospitalità e amicizia, “offrì pane e vino” e “benedisse” Abram che tornava da
una vittoriosa campagna militare. La seconda lettura invece riporta la descrizione
dell’ultima cena, in cui Gesù istituisce l’eucaristia col pane e col vino,
sacrificio della nuova ed eterna alleanza. Il brano evangelico racconta la
moltiplicazione dei pani e dei pesci, in cui Gesù compie gli stessi gesti con
cui istituisce poi l’eucaristia: “prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli
occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai
discepoli” (v. 16). Le tre letture fanno riferimento al mistero eucaristico che
la Chiesa propone oggi di nuovo alla nostra attenzione dopo averlo contemplato
la sera del Giovedì santo con gli occhi rivolti alla Croce del Venerdì santo.
Che cos’è l’eucaristia? Non è possibile dare una risposta esauriente. Ci
limitiamo ad una lettura del mistero eucaristico a partire dalla persona di
Cristo sacerdote, come suggeriscono le letture bibliche odierne.
Possiamo prendere come punto
di partenza un aspetto tipico del racconto di Paolo, soffermandoci cioè sul
mandato di Gesù, ricorrente ben due volte in questa breve lettura: “fate questo
in memoria di me”. Fare qualcosa “in memoria” non è semplicemente ripetere e
neppure ricordare qualcosa o qualcuno. Sullo sfondo del contesto del rituale
della Pasqua biblica, “fare memoria” vuol dire rendere presente l’evento
salvifico per prendervi parte. Nell’orazione della messa si dice che
nell’eucaristia il Signore Gesù “ci ha lasciato il memoriale della sua Pasqua”.
Gesù, che ha vissuto una vita di totale obbedienza al Padre e di servizio agli
uomini, cioè il vero culto e il vero sacrificio, alla fine della sua esistenza
la riprende riassumendola ed esprimendola con il gesto simbolico, cultuale, del
pane spezzato e condiviso e del calice del vino distribuito. Riassunta in un
gesto rituale, ripetibile, celebrativo, Gesù consegna la sua vita ai discepoli
perché noi tutti ne facciamo memoria nel rito (“fate questo in memoria di me”)
e nella propria esistenza (“prendete e mangiate”) inseparabilmente. Come Cristo
ha raccolto la sua esistenza (il vero culto) nei segni, così l’esistenza umana
(il culto spirituale) si raccoglie in momenti – segno che in certo qual modo
separano dal quotidiano per celebrare però il grande evento che dà senso al
quotidiano. Ciò che dà consistenza all’eucaristia non è un rito, ma
un’esistenza, quella di Cristo. Ciò che quindi è essenziale in questa
celebrazione è la “memoria” di questa esistenza e di questa persona, la
comunione con essa, l’appropriazione dei suoi stessi atteggiamenti
esistenziali.
Il sacerdozio di Cristo non è né rituale né
semplicemente esteriore, bensì personale e vitale. Cristo si rende presente
nell’eucaristia perché, partecipando ad essa, facciamo nostra la sua vita di
oblazione e di condivisione. Celebrare l’eucaristia vuol dire riprodurre in noi
i sentimenti di Cristo, di colui che ha vissuto una vita di totale obbedienza
al Padre donandosi per la nostra salvezza. Egli diventa per noi pane, perché
noi impariamo a diventarlo per gli altri.