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sabato 10 agosto 2019

DOMENICA XIX DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 11 Agosto 2019





Sap 18,3.6-9; Sal 32 (33); Eb 11,1-2.8-19; Lc 12,32-48



Il Sal 32 canta la gloria di Dio, signore della creazione e della storia. Il credente della Bibbia non considera mai l’universo come semplice “natura” ma come realtà “creata”, e la storia non la reputa come ineluttabile “destino” ma come “progetto” di Dio in cui l’uomo è chiamato a collaborare. L’antifona d’ingresso, riprendendo parole del Sal 73, ci invita a rinvigorire la nostra fede in questo progetto di Dio su di noi: “Sii fedele, Signore, alla tua alleanza…” La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, parla della “notte della liberazione”, quando Dio, fedele alla parola data ai patriarchi, liberò il suo popolo dall’oppressione dell’Egitto. Dio è sempre fedele alle sue promesse. Chi si appoggia a lui non deve temere nulla, perché “egli è nostro aiuto e nostro scudo”. In questo contesto, il ritornello del salmo responsoriale ci invita a ripetere: “Beato il popolo scelto dal Signore”. Tema unificante i diversi testi è la fiducia attesa in un Dio fedele.



La prima lettura ci propone un brano dell’ultima sezione del libro della Sapienza, che è una grandiosa rilettura sapienziale e teologica della storia d’Israele con particolare attenzione all’evento fondamentale dell’Esodo. Al centro della fede d’Israele sta sempre il ricordo di un Dio fedele, che ha portato a termine il proprio impegno salvifico nei confronti del suo popolo. Il nostro brano parla della “notte della liberazione” in cui Dio svelò nei confronti del popolo eletto tutta la sua terribile   potenza conducendolo dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra promessa.



L’allusione alla notte pasquale dell’Esodo è evidente nel brano evangelico, in particolare in quelle parole di Gesù quando egli afferma: “siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese”, atteggiamento tipico di chi si appresta a mettersi in viaggio come gli Ebrei in quella notte, alla vigilia della loro fuga verso la libertà. La condizione di pellegrini verso la terra promessa degli Ebrei nella prima Pasqua è la condizione nostra di tutta intera la vita. Tutta la nostra esistenza terrena può essere considerata una Pasqua, cioè un rito di passaggio. Diverse generazioni cristiane vissero nella convinzione che Cristo sarebbe tornato nel cuore della grande notte pasquale, immagine della lunga attesa della Chiesa, tema illustrato dalla prima parabola della lettura evangelica. L’amore con cui riusciamo a stare svegli nel nostro cammino terreno ci orienta alla speranza. Assieme all’amore e alla speranza si intreccia la fede, di cui parla la seconda lettura: “la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede”. Modelli di questa fede sono Abramo e Sara.



Alla stregua di Israele, di Abramo e Sara, noi ci consideriamo stranieri e pellegrini su questa terra, senza una città stabile quaggiù, in cerca di quella futura e definitiva. Viviamo nell’attesa fiduciosa del Signore che ci condurrà alla dimora definitiva. Quest’attesa deve dare senso al nostro agire quotidiano. Quando si attende veramente qualcosa di importante, tutto il resto assume un colore diverso, perde quasi di significato. Per noi cristiani “il più” deve ancora venire. Non si può vivere il senso cristiano della vita senza considerare che la nostra esistenza è orientata verso il Cristo che tornerà. Ogni giorno è buono per stare svegli, tenere le lampade accese e accogliere il Figlio dell’uomo che verrà. Ogni giorno, qualsiasi giorno, se colmo di attesa, è giorno aperto al Signore e al suo dono. Nella celebrazione eucaristica ciò è particolarmente vero perché “ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo di questo calice, annunziamo la tua morte, Signore, nell’attesa della tua venuta”.