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venerdì 16 agosto 2019

DOMENICA XX DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 18 Agosto 2019





Ger 38,4-6.8-10; Sal 39; Eb 12,1-4; Lc 12,49-53

         

Ogni brano della Scrittura forma parte di un grande mosaico che narra la storia della nostra salvezza, una storia che, per capirne il senso, deve essere interpretata nella sua globalità. Le parole difficili di Gesù riportate dal vangelo d’oggi vanno perciò interpretate in un contesto più ampio. Quando Gesù dice: “pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione”, queste severe parole, lette nel contesto del messaggio evangelico nella sua globalità, ci ricordano che la scelta di Dio e del suo progetto è una opzione che va fatta con coraggio e consapevolezza, senza ambiguità, pronti ad affrontare, se necessario per essere fedeli alla scelta, contrasti e anche lacerazioni. Nella prima lettura, ci viene proposta la figura del profeta Geremia, uomo pacifico per eccellenza, amante della concordia, nemico giurato di ogni guerra e di ogni contrasto. Eppure, la parola di questo profeta è scomoda, bruciante. Come quella di Gesù, colpisce gli inerti, i soddisfatti, gli illusi, li scuote dai loro sogni e dai loro miti. Geremia proclama il giudizio di Dio; comprende l’inutilità della resistenza all’esercito di Nabucodonosor che assedia Gerusalemme e invita a porre fine a quella inutile strage. Ma proprio per questo viene preso per traditore, accusato di non fare gli interessi del popolo e quindi condannato a morire in una cisterna fangosa. Il profeta resta fedele alla sua missione e continua a fidarsi di Dio. L’intervento di un cortigiano lo salverà dalla morte.



Incubo e gioia pervadono il Sal 39 che si apre in tono di Magnificat e finisce come un De profundis. Il salmo responsoriale prende il testo soprattutto dalla prima parte (vv. 2-4), e si chiude con l’ultimo versetto del salmo (v.18). Il salmista ha fatto una lieta esperienza: in un momento particolarmente doloroso della sua vita ha sperato nel Signore e il Signore si è chinato su di lui e lo ha tratto dalla fossa della morte e dal fango della palude in cui giaceva e ha dato sicurezza e stabilità alla sua esistenza. Egli può ora cantare un cantico nuovo, di lode e di ringraziamento a Dio. La tradizione ha applicato questo salmo a Cristo, nel mistero della sua Pasqua di morte e risurrezione: il Padre si è chinato verso il Figlio suo che ha sperato in lui e lo “ha tratto dalla fossa della morte” e “dal fango della palude” dei nostri peccati, ha stabilito i suoi piedi sulla roccia della vita incorruttibile ed eterna e ha messo sulla sua bocca un canto nuovo, perché noi credessimo e confidassimo in lui. La liturgia odierna applica il salmo anche a Geremia, figura profetica di Cristo, delle sue sofferenze, della sua forza di “segno di contraddizione”.



Vivere e proclamare la propria fede non è sempre appagante dal punto di vista umano. La fedeltà a Dio non porta di per se successo e gloria umana. La vicenda dolorosa del profeta Geremia non è soltanto figura della vita di Cristo, ma anche della vita di quanti scelgono di seguire Cristo e il suo vangelo. Il brano della lettera agli Ebrei della seconda lettura, lo ricorda ad una comunità rassegnata e avvilita: “Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità da parte dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo”. La fedeltà alla parola di Dio comporta una lotta con se stessi e con le strutture ingiuste e peccatrici che ci assediano. Occorre quindi costanza, fedeltà, coraggio, vigilanza e decisione per non essere in balia di quella malattia, tipica del nostro tempo, che si chiama superficialità o banalità o inconsistenza. La pace cristiana non è senza tensioni e lacerazioni, non va confusa col quieto vivere o con la tranquillità del disimpegno. Essa è una precisa e coerente scelta di valori senza compromessi e senza ambiguità con lo sguardo sempre fisso, però, in “Dio, nostra difesa” (antifona d’ingresso: Sal 83,10).