Qo 1,2; 2,21-23; Sal 89 (90); Col
3,1-5.9-11; Lc 12,13-21
Il
riconoscimento della fragilità e della caducità della nostra esistenza di
fronte all’infinita grandezza di Dio e alla sua pienezza di vita, è la condizione
prima per stabilire la verità nei nostri rapporti con Dio, sia nella preghiera
che nella vita.
Il
breve brano della prima lettura ci offre una visione profondamente disincantata
della vita che ci lascia un po’ perplessi. Qoèlet, che di per sé vuol dire
“Predicatore”, pseudonimo sotto cui si cela l’autore di questo libro
dell’Antico Testamento, descrive un mondo che è vanità: “vanità delle vanità,
tutto è vanità”. Si tratta di un pessimista che vede attorno a se soltanto il
vuoto, il nulla, l’assurdità del vivere e dell’affannarsi quotidiano. Le cose,
la vita, il mondo, tutto ciò che l’uomo ha costruito, è destinato a passare ad
altri o a scomparire. Il Qoèlet guarda con disincanto, cinismo e profondo
pessimismo al fondo delle esperienze umane. Su questo filone sapienziale si
innesta il brano del vangelo, dove Gesù insegna a valutare e usare i beni
terreni nell’orizzonte della fede in Dio creatore e Signore della vita. La sua
istruzione prende lo spunto dall’intervento di uno della folla che gli dice: “Maestro,
di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”. Nella sua risposta, Gesù non
si perde nella “casistica”, ma rimane al suo livello altissimo di Maestro, che
sa scoprire e indicare le ragioni ultime che determinano le divisioni e i
contrasti fra gli uomini e che si riassumono praticamente nell’egoismo e nella
cupidigia. Egli affida la sua risposta alla parabola del ricco insensato: un
uomo abile nel coltivo dei suoi campi, ha raggiunto un buon raccolto e sogna
per sé un futuro roseo. Ma Dio interviene e lo chiama “stolto” e aggiunge:
“questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita”. E conclude il brano: “Così
è di chi accumula tesori per sé, e non si arricchisce presso Dio”. Gesù non
condanna il successo economico, ma ciò che a questo successo è stato
sacrificato; il ricco della parabola ha reso gonfio il suo portafoglio, ma ha
reso arido il suo cuore.
La
parola di Dio che ci viene rivolta oggi è un invito a riflettere sulla scala
dei valori che devono governare la nostra vita. Anche san Paolo nel brano della
seconda lettura si muove nella stessa linea quando invita a guardare in alto,
“dove è Cristo seduto alla destra di Dio”. Le cose terrene non sono il nostro
orizzonte ultimo. Prendere coscienza della relatività del presente e delle
cose, la loro fondamentale fragilità, la loro inadeguatezza, può avere una
grande importanza ai fini di una retta impostazione della vita orientandola
verso i beni definitivi. Non di soldi, ma di ben altre ricchezze ha bisogno il
nostro cuore.
Possiamo
concludere queste riflessioni dando uno sguardo all’affresco di Raffaello,
chiamato “La scuola di Atene”, in cui sono raffigurati Aristotele e Platone. Il
primo ha una mano protesa sulla terra, ma accanto Platone ha l’indice puntato
verso il cielo. In questo quadro Raffaello ha saputo esprimere in modo geniale
la duplice tendenza e vocazione dell’uomo, di conquistare la terra e di mirare
al di là di essa, di esplorare la natura e di guardare oltre l’orizzonte del
sensibile, che oggi si chiamerebbe lavorare e contemplare, impegnarsi nel
quotidiano con lo sguardo fisso dove sono i valori trascendenti. L’eucaristia è
al tempo stesso presenza e caparra di questi valori trascendenti e definitivi.