Pubblicato il 29
luglio 2019 nel blog: Come se non
Altra cosa è concedere in modo più ampio un ricorso eventuale al
rito preconciliare, altra cosa è invece fare del VO un criterio di formazione,
attiva e pastorale, per i ministri ordinati del futuro. Questa differenza, che
non sfugge a chiunque voglia considerare in modo equilibrato gli sviluppi degli
ultimi 12 anni, propone con evidenza un paradosso, che è causa di scandalo.
Vediamo di capire meglio che cosa è in gioco.
Le perplessità sulle intenzioni di SP
Non vi è dubbio che fin dall’inizio il tentativo di “pacificare”
la Chiesa, introducendo una più ampia possibilità di ricorso al “rito antico”,
abbia destato negli ambienti ecclesiali più lucidi e consapevoli non poche
perplessità. Nessuno dubita della bontà delle intenzioni. Ma altrettanto fuori
di dubbio è che il mezzo utilizzato per raggiungere lo scopo, ossia il
riconoscimento di un “diritto al Vetus Ordo” che prescinde addirittura dalla
Chiesa stessa, possa introdurre un fattore di lacerazione e di divisione assai
peggiore del male che si vorrebbe evitare.
L’uso del MP e i possibili abusi
In effetti la applicazione di SP, nel corso degli anni, ha visto
comparire Istruzioni formali e pratiche sostanziali, favorite dalla Commissione
“Ecclesia Dei”, che hanno talmente lacerato il corpo ecclesiale da portare, nel
volgere di poco più di un decennio, alla soppressione della Commissione stessa.
Il tentativo di usare SP come una sorta di “legittimazione di ogni posizione
anticonciliare” era diventato uno scandalo interno alla Curia romana, al quale
papa Francesco ha posto rimedio con giusta decisione.
Un abuso chiaramente ostacolato
D’altra parte, a pochi mesi dalla approvazione di SP, un vescovo
italiano, in una diocesi del nord, aveva preteso di costituire un Seminario
“separato”, nel quale formare i candidati al sacerdozio soltanto alla liturgia
del pre-concilio. Questo tentativo fu immediatamente bloccato da Roma, come era
inevitabile e necessario.
Il pericolo di un abuso istituzionale
Ma il tentativo immediato, di lacerazione ecclesiale perpetrato
mediante un “Seminario parallelo”, non ha potuto evitare una più insidiosa e
sottile lacerazione: ossia quella che si induce, anzitutto nei futuri ministri,
se si insegna loro a celebrare sia secondo il rito di Paolo VI, sia secondo il
rito di Pio V. In questo caso i primi a essere lacerati sono i candidati al
ministero. Essi subiscono un disorientamento che non è il loro, ma quello dei
loro superiori. D’altra parte, se vi sono oggi addirittura “manuali” di
liturgia eucaristica che prevedono questa “doppia formazione”, ciò dimostra che
la irresponsabilità ha ormai superato il livello di guardia e ha intaccato
anche professori apparentemente competenti e responsabili.
Una parola chiara oggi è necessaria
Una Chiesa responsabile non può formare i propri ministri ad una
sorta di “opportunismo anticonciliare”: infatti, se tu formi i candidati al
ministero a celebrare i riti della Riforma Liturgica, ma anche a celebrare i
riti che, a causa dei loro limiti e delle loro carenze, hanno richiesta
precisamente quella riforma, instilli in loro una ambiguità di fondo, una
tiepidezza e una incomprensione verso il Concilio Vaticano II e una indiretta
giustificazione del “tradizionalismo” che non è compatibile con la vera
tradizione. I Seminari nei quali si presenta il rito di Pio V non come una
vicenda storica superata, ma come una possibilità del futuro, devono essere
invitati a non deformare in modo lacerato e schizofrenico il sensus fidei e il
sensu ecclesiae dei candidati al ministero. Questo fenomeno è più diffuso di
quanto si creda. Di fronte ad esso i Vescovi devono assumere in pieno la loro
responsabilità, che in nessun modo può equiparare il Novus Ordo con il Vetus.