Sugli adeguamenti della
riforma conciliare
di Giuliano Zanchi
La nuova coscienza dello
spazio liturgico
Considerate dalla distanza di
questi cinquant’anni ormai trascorsi dalla riforma conciliare, le
trasformazioni che hanno toccato lo spazio liturgico fanno sensazione. Il
coraggio che esse hanno richiesto ha del miracoloso. Nemmeno troppo tempo dopo,
forse non avrebbero trovato il clima per l’audacia di cui sono il frutto. Oggi
certo non si oserebbe. Ma allo Spirito bastano spiragli temporanei. Brecce
momentanee attraverso le quali effondersi senza risparmio. La riforma liturgica
è certamente frutto di un tale momento di grazia. La osserviamo oggi con
sentimenti alterni. Spesso anche polarizzati. Qualcuno rimpiange le cipolle di
una volta. I più sanno di essere ancora in cammino, ma certamente nella
direzione giusta. Abbiamo spesso cercato strade brevi per trovarci ogni volta
sugli stessi passi. Ma con qualche lezione d’orientamento in più. Personalmente
— come ho sostenuto qualche tempo fa nel corso di un convegno tenutosi a Bose —
ho la convinzione che solo adesso, dopo tutto questo tempo di esperimenti e
dibattiti, cominciamo a comprendere le vere poste in gioco della riforma
liturgica, persino grazie al mormorio dei suoi denigratori; ma soprattutto
guidati dall’aver compreso le conseguenze di un’impazienza che corre sempre
tenendo per mano la superficialità.
Il ritorno sulle scene
dell’altare e dell’ambone, presi come elementi salienti della rinnovata
geografia spirituale, fa parte di quel miracolo di cui non abbiamo ancora
smesso di metabolizzare la portata. Tanto più clamoroso quanto più si ripensa
alle loro metamorfosi medievali e tridentine. L’ambone si era nella sostanza
eclissato a favore del pulpito. Quanto all’altare si era trasformato in un
gigantesco reliquiario. Senza che né l’uno né l’altro si sottraessero
all’esercizio della grande creatività artistica di cui tutti abbiamo memoria.
Ma per servire sostanzialmente una Parola indotta a ridursi nella dottrina e un
sacramento portato a rasentare la presenza magica. Erano le rispettive
concezioni della Rivelazione, del Sacramento e della Chiesa a essersi talmente
polarizzate su punti di merito indotti dalla contesa confessionale, da tradursi
anche nel rito e nelle sue estetiche con la fermezza della loro unilateralità.
La teologia conciliare ha potuto agire per impulso di concezioni teologiche
riacquisite nella loro ampiezza sistematica. Mi sembra sufficiente citarne i
due nodi salienti. Una ritrovata consapevolezza della storicità della
rivelazione e del suo epicentro cristologico; una nuova coscienza del peso
sacramentale della chiesa intera e della sua essenziale natura spirituale.
Nello spazio di una tale ampiezza ha potuto riprendere respiro una liturgia
pensata come inscindibile congiunzione fra una comune azione del popolo,
titolato per via del battesimo a un comune ministero sacerdotale, e la viva
presenza di Cristo, che chiama a raccolta la sua chiesa e sta in mezzo a essa.
Le implicazioni di queste variabili sono profonde su molti aspetti. Esse hanno
perlomeno significato la necessità di dare luogo alla grazia mediante azioni e
spazi compatibili alla ritrovata densità simbolica del rito e al riconquistato
peso spirituale della liturgia.
Dopo tanti anni e anche dopo
tanti errori, forse oggi ricominciamo a intuire gli effetti differenziali che
un altare introduce negli spazi liturgici. Magari per ora lo percepiamo più in
negativo. Sentiamo l’irrilevanza e la malinconia emanata dagli altari di
nessuna o di cattiva qualità. Ma da questa mancanza possiamo percepirne la
sostanza dal vuoto che essa lascia quando non c’è. L’altare infatti è un
simbolo forte e primordiale. Conserva quella funzione, arcaica e antropologica,
che ne fa un centro di gravità permanente che detta le direttrici dello spazio
a partire da una traccia materiale del trascendente. Possiede quella
consistenza simbolica che si mostra veramente adeguata quando sa esercitare il
suo magnetismo anche quando su di esso non si fa nulla.
Sotto questo profilo merita
attenzione la questione della posizione dell’altare. Per ragioni di
riequilibrio dopo il concilio una propensione alquanto ingenua ha insistito
molto nel tradurre il principio dell’altare/mensa e dell’assemblea/comunione
facendo dell’altare il centro geometrico dell’assemblea. Una tale soluzione
nascondeva una concezione narcisistica della comunità che ha raccomandato
presto il suo abbandono. Essa faceva dell’altare una sorta di ombelico mistico
per una comunione pensata in fondo in chiave puramente orizzontale. Ma l’altare
non è semplicemente una funzione dell’assemblea che si raduna, e l’assemblea
cristiana non si riduce affatto a un gruppo scelto di umani che si
autoconvocano. La comunione dei credenti si scopre tale solo quando si trova
raccolta dall’iniziativa trascendente che la convoca. Essa si raduna proprio
per richiamo in direzione di un esodo dalla propria potenziale chiusura. Quegli
altari messi al centro dell’assemblea, diffusi o no che siano stati, erano
riflesso molto trasparente dell’ideologia vagamente egualitaria che ispirava
certe immaginazioni ecclesiali. La reazione a queste ingenuità ha incoraggiato
molti in seguito a mettere in discussione la stessa legittimità dell’altare
rivolto al popolo indiziandolo di infedeltà nei confronti della tradizione. Le
ideologie come sempre si fronteggiano e si alimentano a vicenda. Superarle
significa, in questo caso, impadronirsi adeguatamente della duplice funzione di
orientamento dell’altare alla cui complessità occorre dare la giusta soluzione
spaziale. L’altare per un verso tiene il posto della centralità di Cristo che
raccoglie la comunità attorno al suo dono/sacrificio. Esso in questo senso fa
centro nel cuore della comunione. Questa centralità tuttavia non deve
necessariamente significare equidistanza geometrica da ogni punto visibile.
L’altare non è l’ombelico dell’assemblea. Su di esso infatti resta iscritta
anche la tensione escatologica verso cui Cristo nella cena originaria rimanda
il senso del suo dono/sacrificio. L’altare perciò raccoglie e orienta.
Simultaneamente. Per poterlo fare deve stare nella posizione più equilibrata
possibile. Troppo prossimo diventa figura di un’autocostruzione immanente senza
proiezione verso il futuro. Troppo lontano, il suo rimando verso un oltre è
solo indisponibilità simbolica della mèta. La presenza dell’altare, figura di
Cristo, deve trovarsi in posizione sufficientemente prossima da esercitare
richiamo ma abbastanza distanziato da proiettare simbolicamente verso altrove.
Magari rialzato. Per accentuare con una giusta emergenza il senso di richiamo
eminente e di rilancio escatologico che si realizza nella liturgia cristiana.
Provando a formulare una
immaginazione complessiva ribadisco la convinzione che la comunità celebrante
non è un cerchio che si concentra sul suo ombelico. Ma nemmeno un esercito di
militari che segue la nuca del suo generale. Non dovrebbe avere la forma del
plotone che marcia uniforme come un muro. Ma una compagine umana che resta
aperta, per indirizzarsi verso qualcosa e qualcuno che non le coincide ma la
chiama. Essa guarda un bell’altare, semplice e solido, nudo e severo, magnetico
anche nella solitudine, figura di Cristo che chiama e raccoglie, del suo
sacrificio e della sua cena, rialzato per far guardare in alto, non troppo
lontano per non essere sfuggente. Immagino che chi presiede salga all’altare
solo quando lo richiede il rito, per non dominarlo tutto il tempo come una sua
estensione personale. L’altare non può essere requisito da nessuno. Non deve
nemmeno essere il crocevia di un transito permanente. È una presenza che va
lasciata alla sua dignità. Per essere cercato, guardato, contemplato. Perché
chi guarda all’altare possa nutrirsi abbastanza per oggi ma anche avere
un’attesa che arrivi a domani.
Fonte: L’Osservatore Romano
(16.07.2019)