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mercoledì 17 luglio 2019

IL RITORNO DELL’ALTARE






Sugli adeguamenti della riforma conciliare 

di Giuliano Zanchi




La nuova coscienza dello spazio liturgico

Considerate dalla distanza di questi cinquant’anni ormai trascorsi dalla riforma conciliare, le trasformazioni che hanno toccato lo spazio liturgico fanno sensazione. Il coraggio che esse hanno richiesto ha del miracoloso. Nemmeno troppo tempo dopo, forse non avrebbero trovato il clima per l’audacia di cui sono il frutto. Oggi certo non si oserebbe. Ma allo Spirito bastano spiragli temporanei. Brecce momentanee attraverso le quali effondersi senza risparmio. La riforma liturgica è certamente frutto di un tale momento di grazia. La osserviamo oggi con sentimenti alterni. Spesso anche polarizzati. Qualcuno rimpiange le cipolle di una volta. I più sanno di essere ancora in cammino, ma certamente nella direzione giusta. Abbiamo spesso cercato strade brevi per trovarci ogni volta sugli stessi passi. Ma con qualche lezione d’orientamento in più. Personalmente — come ho sostenuto qualche tempo fa nel corso di un convegno tenutosi a Bose — ho la convinzione che solo adesso, dopo tutto questo tempo di esperimenti e dibattiti, cominciamo a comprendere le vere poste in gioco della riforma liturgica, persino grazie al mormorio dei suoi denigratori; ma soprattutto guidati dall’aver compreso le conseguenze di un’impazienza che corre sempre tenendo per mano la superficialità.



Il ritorno sulle scene dell’altare e dell’ambone, presi come elementi salienti della rinnovata geografia spirituale, fa parte di quel miracolo di cui non abbiamo ancora smesso di metabolizzare la portata. Tanto più clamoroso quanto più si ripensa alle loro metamorfosi medievali e tridentine. L’ambone si era nella sostanza eclissato a favore del pulpito. Quanto all’altare si era trasformato in un gigantesco reliquiario. Senza che né l’uno né l’altro si sottraessero all’esercizio della grande creatività artistica di cui tutti abbiamo memoria. Ma per servire sostanzialmente una Parola indotta a ridursi nella dottrina e un sacramento portato a rasentare la presenza magica. Erano le rispettive concezioni della Rivelazione, del Sacramento e della Chiesa a essersi talmente polarizzate su punti di merito indotti dalla contesa confessionale, da tradursi anche nel rito e nelle sue estetiche con la fermezza della loro unilateralità. La teologia conciliare ha potuto agire per impulso di concezioni teologiche riacquisite nella loro ampiezza sistematica. Mi sembra sufficiente citarne i due nodi salienti. Una ritrovata consapevolezza della storicità della rivelazione e del suo epicentro cristologico; una nuova coscienza del peso sacramentale della chiesa intera e della sua essenziale natura spirituale. Nello spazio di una tale ampiezza ha potuto riprendere respiro una liturgia pensata come inscindibile congiunzione fra una comune azione del popolo, titolato per via del battesimo a un comune ministero sacerdotale, e la viva presenza di Cristo, che chiama a raccolta la sua chiesa e sta in mezzo a essa. Le implicazioni di queste variabili sono profonde su molti aspetti. Esse hanno perlomeno significato la necessità di dare luogo alla grazia mediante azioni e spazi compatibili alla ritrovata densità simbolica del rito e al riconquistato peso spirituale della liturgia. 


Dopo tanti anni e anche dopo tanti errori, forse oggi ricominciamo a intuire gli effetti differenziali che un altare introduce negli spazi liturgici. Magari per ora lo percepiamo più in negativo. Sentiamo l’irrilevanza e la malinconia emanata dagli altari di nessuna o di cattiva qualità. Ma da questa mancanza possiamo percepirne la sostanza dal vuoto che essa lascia quando non c’è. L’altare infatti è un simbolo forte e primordiale. Conserva quella funzione, arcaica e antropologica, che ne fa un centro di gravità permanente che detta le direttrici dello spazio a partire da una traccia materiale del trascendente. Possiede quella consistenza simbolica che si mostra veramente adeguata quando sa esercitare il suo magnetismo anche quando su di esso non si fa nulla.


Sotto questo profilo merita attenzione la questione della posizione dell’altare. Per ragioni di riequilibrio dopo il concilio una propensione alquanto ingenua ha insistito molto nel tradurre il principio dell’altare/mensa e dell’assemblea/comunione facendo dell’altare il centro geometrico dell’assemblea. Una tale soluzione nascondeva una concezione narcisistica della comunità che ha raccomandato presto il suo abbandono. Essa faceva dell’altare una sorta di ombelico mistico per una comunione pensata in fondo in chiave puramente orizzontale. Ma l’altare non è semplicemente una funzione dell’assemblea che si raduna, e l’assemblea cristiana non si riduce affatto a un gruppo scelto di umani che si autoconvocano. La comunione dei credenti si scopre tale solo quando si trova raccolta dall’iniziativa trascendente che la convoca. Essa si raduna proprio per richiamo in direzione di un esodo dalla propria potenziale chiusura. Quegli altari messi al centro dell’assemblea, diffusi o no che siano stati, erano riflesso molto trasparente dell’ideologia vagamente egualitaria che ispirava certe immaginazioni ecclesiali. La reazione a queste ingenuità ha incoraggiato molti in seguito a mettere in discussione la stessa legittimità dell’altare rivolto al popolo indiziandolo di infedeltà nei confronti della tradizione. Le ideologie come sempre si fronteggiano e si alimentano a vicenda. Superarle significa, in questo caso, impadronirsi adeguatamente della duplice funzione di orientamento dell’altare alla cui complessità occorre dare la giusta soluzione spaziale. L’altare per un verso tiene il posto della centralità di Cristo che raccoglie la comunità attorno al suo dono/sacrificio. Esso in questo senso fa centro nel cuore della comunione. Questa centralità tuttavia non deve necessariamente significare equidistanza geometrica da ogni punto visibile. L’altare non è l’ombelico dell’assemblea. Su di esso infatti resta iscritta anche la tensione escatologica verso cui Cristo nella cena originaria rimanda il senso del suo dono/sacrificio. L’altare perciò raccoglie e orienta. Simultaneamente. Per poterlo fare deve stare nella posizione più equilibrata possibile. Troppo prossimo diventa figura di un’autocostruzione immanente senza proiezione verso il futuro. Troppo lontano, il suo rimando verso un oltre è solo indisponibilità simbolica della mèta. La presenza dell’altare, figura di Cristo, deve trovarsi in posizione sufficientemente prossima da esercitare richiamo ma abbastanza distanziato da proiettare simbolicamente verso altrove. Magari rialzato. Per accentuare con una giusta emergenza il senso di richiamo eminente e di rilancio escatologico che si realizza nella liturgia cristiana. 


Provando a formulare una immaginazione complessiva ribadisco la convinzione che la comunità celebrante non è un cerchio che si concentra sul suo ombelico. Ma nemmeno un esercito di militari che segue la nuca del suo generale. Non dovrebbe avere la forma del plotone che marcia uniforme come un muro. Ma una compagine umana che resta aperta, per indirizzarsi verso qualcosa e qualcuno che non le coincide ma la chiama. Essa guarda un bell’altare, semplice e solido, nudo e severo, magnetico anche nella solitudine, figura di Cristo che chiama e raccoglie, del suo sacrificio e della sua cena, rialzato per far guardare in alto, non troppo lontano per non essere sfuggente. Immagino che chi presiede salga all’altare solo quando lo richiede il rito, per non dominarlo tutto il tempo come una sua estensione personale. L’altare non può essere requisito da nessuno. Non deve nemmeno essere il crocevia di un transito permanente. È una presenza che va lasciata alla sua dignità. Per essere cercato, guardato, contemplato. Perché chi guarda all’altare possa nutrirsi abbastanza per oggi ma anche avere un’attesa che arrivi a domani.






Fonte: L’Osservatore Romano (16.07.2019)