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domenica 3 maggio 2020

NÉ PERFEZIONISMO NÉ LEGGEREZZA


Ho criticato più volte in questo blog le libertà che alcuni chierici e assemblee si prendono nel celebrare la liturgia, in particolare la santa messa. Nel richiamare all’osservanza di quanto prescritto nel libro liturgico, ho anche detto che il rito va sempre interpretato, come sempre va interpretato anche uno spartito musicale. Giustamente papa Francesco ha criticato una “cura ostentata della liturgia” come segno di “oscura mondanità” (Evangelii Gaudium 95).


Non mancano i perfezionisti che si scandalizzano se un presbitero nel celebrare cambia una parola o omette un gesto. Vorrei ricordare qui quanto il noto psichiatra Vittorio Andreoli nel suo recente libro Homo incertus. Il bisogno di sicurezza nella città della paura (Rizzoli 2020) afferma riguardo alla perfezione. Non c’è dubbio che tutti avvertiamo il bisogno di migliorare le caratteristiche della nostra personalità. Vi sono tuttavia situazioni in cui la perfezione è sgradevole, perché rende un soggetto di pietra, incapace di mostrare sfumature. In genere l’individuo considerato perfetto o normale è associato alla monotonia e alla mancanza di fantasia.


Il rito da per sé è uguale a sé stesso e ripetitivo. Chi celebra il modo meccanico,  ieratico, con voce monotona nonostante il mutare delle situazioni e delle assemblee, rischia di generare noia nei partecipanti. Il rito è un’azione simbolica con molteplicità di linguaggi verbali e non verbali. La qualità di questi linguaggi incide nella qualità della celebrazione stessa e nella sua capacità significativa e pedagogica.