NÉ PERFEZIONISMO NÉ LEGGEREZZA
Ho criticato più volte in questo blog le libertà che alcuni
chierici e assemblee si prendono nel celebrare la liturgia, in particolare la
santa messa. Nel richiamare all’osservanza di quanto prescritto nel libro liturgico,
ho anche detto che il rito va sempre interpretato, come sempre va interpretato
anche uno spartito musicale. Giustamente papa Francesco ha criticato una “cura
ostentata della liturgia” come segno di “oscura mondanità” (Evangelii
Gaudium 95).
Non mancano i perfezionisti che si scandalizzano se un
presbitero nel celebrare cambia una parola o omette un gesto. Vorrei ricordare
qui quanto il noto psichiatra Vittorio Andreoli nel suo recente libro Homo
incertus. Il bisogno di sicurezza nella città della paura (Rizzoli 2020)
afferma riguardo alla perfezione. Non c’è dubbio che tutti avvertiamo il
bisogno di migliorare le caratteristiche della nostra personalità. Vi sono
tuttavia situazioni in cui la perfezione è sgradevole, perché rende un soggetto
di pietra, incapace di mostrare sfumature. In genere l’individuo considerato
perfetto o normale è associato alla monotonia e alla mancanza di fantasia.
Il rito da per sé è uguale a sé stesso e ripetitivo. Chi
celebra il modo meccanico, ieratico, con
voce monotona nonostante il mutare delle situazioni e delle assemblee, rischia
di generare noia nei partecipanti. Il rito è un’azione simbolica con
molteplicità di linguaggi verbali e non verbali. La qualità di questi linguaggi
incide nella qualità della celebrazione stessa e nella sua capacità
significativa e pedagogica.