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venerdì 6 novembre 2020

DOMENICA XXXII DEL TEMPO ORDINARIO (A) - 8 Novembre 2020

 



Sap 6,12-16; Sal 62; 1Ts 4,13-18; Mt 25,1-13

 

Il Sal 62 dà voce all’anima assetata del Signore. Un desiderio ardente sospinge il salmista, che ricerca Dio come il terreno palestinese arido, assetato, screpolato dalla calura attende l’acqua. Cercare Dio, aver sete di lui, significa che egli è già venuto a cercare noi e ha ridestato in noi, figli prodighi, la coscienza della nostra povertà e il bisogno di tornare alla sorgente della vita. Il salmo è un grido assetato di amore, che Dio stesso suscita nel profondo di ogni anima che lo cerca con cuore sincero, e che si stringe a lui sostenuta dalla forza della sua grazia.


L’anno liturgico volge ormai al termine. Le tre domeniche che lo chiudono orientano la nostra attenzione verso il traguardo delle “cose ultime” (i cosiddetti “novissimi”). Il tema odierno è la venuta gloriosa e definitiva del Signore alla fine dei tempi. In questo contesto, siamo invitati a vivere in attesa vigilante. La prima lettura parla della sapienza che si fa volentieri trovare da coloro che la cercano. Questo brano anticotestamentario si deve leggere in funzione del vangelo, che ci propone la parabola delle vergini stolte e sagge che sono in attesa dello sposo. Così come le vergini sagge erano pronte ad accogliere lo sposo e sono entrate con lui alla sala del banchetto di nozze, così l’uomo e la donna saggi sono pronti ad accogliere il Signore quando egli verrà per entrare con lui nel regno del Padre. La sapienza di cui parla la Bibbia non è quindi una pura conoscenza intellettuale; è piuttosto quella capacità di trovare il giusto cammino della vita. Il saggio è colui che sa leggere alla luce di Dio i fatti, le persone, i sentimenti, i segni il più delle volte ambigui o ambivalenti degli avvenimenti storici; in questo modo, il vero saggio vive con consapevolezza la logica della tensione tra possesso e attesa, tra certezza e speranza. In altre parti del vangelo l’incontro definitivo con il Signore è talvolta rappresentato come un giudizio. In questa parabola invece emerge un altro simbolo, quello delle nozze, proprio per sottolineare la dimensione dell’amore, della comunione di vita. Questo ci rivela come davanti a Dio non siamo passivi, ma chiamati a collaborare con lui per divenire artefici della nostra salvezza.

 

La vigilanza a cui ci esorta la parola di Dio oggi è un invito a pensare all’atteggiamento fondamentale della nostra vita, impegnata nel tempo ma senza mai perdere di vista l’eternità. Nella seconda lettura san Paolo si rivolge ai primi cristiani di Tessalonica che soffrono con angoscia per il distacco dai propri cari e s’interrogano sulla sorte dei defunti. L’apostolo ricorda a questi primi cristiani la fede nella morte e risurrezione del Cristo, quale premessa e fondamento della speranza in una vita ultraterrena. Nonostante la morte e al di là della morte, noi speriamo che la vicenda storica avrà una conclusione positiva. Non il vuoto ma l’incontro definitivo con il Cristo definisce la visione cristiana sulla conclusione della vicenda terrena.

 

Ogni celebrazione eucaristica di per sé è già partecipazione al banchetto celeste, realizzata però nel segno sacramentale, nell’attesa cioè della sua completa e definitiva manifestazione. Ecco perché noi cristiani preghiamo, soprattutto nella celebrazione eucaristica, per affrettare il ritorno di Cristo dicendogli: “Vieni, Signore” (1Cor 16,22; Ap 22,17-20).