La nuova edizione italiana del
Missale Romanum nel Confesso dell’atto penitenziale propone:
“Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli e sorelle” anziché il precedente
“Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli”. La variazione ritorna nel finale
della formula di confessione dei peccati: “E supplico la beata sempre Vergine
Maria, gli angeli, i santi e voi fratelli e sorelle, di pregare per me il
Signore Dio nostro”. Si tratta di un’evidente attenzione rivolta alle esigenze
di un linguaggio inclusivo della varietà dei generi, maschile e femminile.
La coppia “fratelli e sorelle”
era già presente nel MR del 1983, ad esempio nella monizione dell’atto
penitenziale, dove il sacerdote era invitato a dire, con queste o altre parole:
“Fratelli e sorelle, per celebrare degnamente i santi misteri, riconosciamo i
nostri peccati”. Ora la ritroviamo ogni volta che il Messale latino si rivolge
all’assemblea come “fratelli”: nei riti di presentazione dei doni (“pregate
fratelli e sorelle, perché il mio e vostro sacrificio”), così come nel corso
della Veglia pasquale (“Fratelli e sorelle, in questa santissima notte…”).
Nella stessa Preghiera eucaristica, là dove si ricordano i defunti, la
preghiera al Signore è ora rivolta ai fratelli e alle sorelle che si sono addormentati
nella speranza della risurrezione.
L’attenzione al cosiddetto
linguaggio inclusivo è una caratteristica del nostro tempo, che avverte l’esigenza
di superare una cultura ancora troppo sessista e maschilista. La critica
proveniente soprattutto dal mondo femminista, ma non solo, è aspra: le donne
esistono e abitano il mondo, ma soltanto i maschi abitano il linguaggio. Le
donne esistono e abitano la Chiesa e la liturgia, in modo preponderante, ma
soltanto i maschi detengono, insieme al linguaggio, il potere. Di fronte a tale
richiesta, alcuni dicono che non è aggiustando il linguaggio che si risolve la
questione di una reale inclusione del genere femminile all’interno della
preghiera liturgica della Chiesa e più in generale della vita sociale: non
basta parlare di “sindaca” e di “architetta”, e neppure riferirsi genericamente
al “genio femminile” per produrre un vero cambiamento di mentalità nel
considerare in modo adeguato il ruolo della donna.
In effetti, pensando alla
liturgia, pesa il fatto che a livello di ministeri istituiti (accolito, lettore)
non sia ancora prevista l’apertura alle donne, nonostante l’esplicita richiesta
proveniente dai vescovi riuniti per il sinodo sulla Parola di Dio del 2008.
Questo dei ministeri è un esempio di come l’attenzione ad un linguaggio più
giusto non possa essere isolata da una azione più globale, come ci ricordano le
persone più attente al mondo del linguaggio e della comunicazione, ciò che non
si nomina, non esiste, non viene pensato e preso in considerazione.
Il rischio di allungare le
frasi in modo stucchevole può essere presente, e per questo è bene accogliere l’auspicio
di un linguaggio inclusivo senza rigidezze ideologiche. La liturgia è piena di
espressioni che andrebbero riviste: figli e figli, servi e serve, malati e malate,
uomini e donne. Non è sempre possibile modificare un linguaggio proveniente
dalle Scritture, che sono fortemente segnate da un modello patriarcale. Tenendo
presente tale difficoltà, rimane intatta l’importanza di una attenzione globale
ad una liturgia che guarda all’assemblea, al mondo, alla vita e a Dio stesso,
non solo con occhi maschili. Il “fratelli e sorelle” della nuova edizione del
Messale è come un pro-memoria, perché la voce della liturgia sia una voce
capace di unire le differenze (di genere, ma pure di età, di cultura, etnia,
ceto sociale, stato di salute fisica…), senza annullarle, ignorandole o appiattendole.
Fonte: Paolo Tomatis, Al
servizio del dono. La nuova edizione del Messale, ELLEDICI 2020, pp. 33-35