Sap
1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43
Nei
racconti mitologici dell’antica Mesopotamia troviamo un personaggio, l’eroe
nazionale Gilgamesh, il quale, sconvolto dall’esperienza della morte di un suo
amico, va in cerca instancabile dell’immortalità. A questo scopo affronta
pericoli, ostacoli, difficoltà di ogni genere. Ma tutto si rivela inutile. E
alla fine Gilgamesh si sente dire da coloro che conoscono la sapienza: “Quando
gli dei hanno creato l’uomo, hanno tenuto per sé l’immortalità, e a lui hanno
dato come eredità la morte”. Diverso è il messaggio della nostra fede. Il libro
della Sapienza, da cui è presa la prima lettura, afferma: “Dio non ha creato la
morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le
cose perché esistano”. In questo contesto, possiamo cogliere l’insegnamento del
brano evangelico odierno, che riporta due dei miracoli compiuti da Gesù: la
guarigione dell’emorroissa e la risurrezione della figlia dodicenne di Giàiro,
uno dei capi della sinagoga. Con questi segni Gesù ci si manifesta come Signore
della vita, come colui che vuole la vita e non la morte. Ai nostri occhi,
secondo la nostra esperienza, la vita si presenta come provvisoria e la morte
come definitiva. Ma davanti a Gesù i rapporti si capovolgono: la morte diventa
provvisoria e alla vita viene promesso un futuro. Davanti a Gesù la morte
diventa sonno; perde quindi il suo carattere di annientamento per assumere
quello di trasformazione. Con il Cristo la morte ha cessato di essere una
condanna senza appello, un evento senza speranza: la vita continua anche dopo,
come dono di Dio. Nelle icone orientali della risurrezione, il Signore viene
rappresentato con ai piedi le porte degli inferi spezzate mentre solleva con le
mani Adamo ed Eva: solo lui può calpestare la morte con la morte.
Quando
la Bibbia parla di vita e di morte dell’uomo, non si riferisce solo a fenomeni
di natura biologica. Essa illustra un concetto anche spirituale e religioso di
vita e di morte che ha una fase terrena e un’altra al di là. Il Nuovo
Testamento ci insegna ad accogliere come via della vita anche quella che passa
attraverso la morte e la morte di croce. Vi è sempre un di più in Dio che può
creare vita perfino nella morte. Per accedere alla vita piena e definitiva il
Signore chiede la fede: “Non temere, soltanto abbi fede!”, dice Gesù a Giàiro
all’annuncio della morte della figlia. E all’emorroissa: “Figlia, la tua fede
ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Le guarigioni e le
risurrezioni operate da Gesù significano quindi che la salvezza è giunta al
mondo. L’uomo muore nel momento in cui cessa di credere e di sperare.
Della
fede parla anche san Paolo nella seconda lettura: i cristiani di Corinto che
sono ricchi “in ogni cosa, nella fede, nella parola…”, sono invitati ad essere
generosi e a condividere i loro beni con i cristiani bisognosi della Chiesa di
Gerusalemme.